Il Vangelo di Domenica
24 Marzo 2019.
Della 3° Domenica di
Quaresima.
1° Lettura dal libro
dell’Esodo (3,1-8a.13-15)
2° Lettura dalla prima
lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (10,1-6.10-12)
Dal Vangelo secondo
Luca (13,1-9) anno C.
In quel tempo si
presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei,
il cui sangue
Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici.
Prendendo la
parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più
peccatori di tutti
i Galilei, per aver subìto tale sorte?
No, io vi dico, ma
se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.
O quelle diciotto
persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise,
credete che fossero
più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?
No, io vi dico, ma
se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Diceva anche questa
parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi
nella sua vigna e
venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò.
Allora disse al
vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti
su quest’albero, ma
non ne trovo.
Tàglialo dunque!
Perché deve
sfruttare il terreno?”.
Ma quello gli
rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò
zappato attorno e
avrò messo il concime.
Vedremo se porterà
frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
Parola del Signore.
Riflessione personale
sul Vangelo di oggi.
Dio è magnifico, splendido e
luminoso.
Ci siamo dati un tempo per
(ri)scoprirlo, per ritrovare il suo vero volto,
e per ritrovare noi stessi.
Per combattere le tentazioni, per
vincere il sonno che prende Pietro, Giacomo
e Giovanni e noi, travolti dal
fare, dimentichi dell’essere, naufraghi di un
tempo che ha azzerato lo spirito,
scordato l’anima, sminuito l’essenziale.
È un tempo forte, quello della
quaresima, un tempo di quelli che possono
convertire (almeno un poco) la
vita, riaccenderla, ri-orientarla.
Come Abram, domenica scorsa,
possiamo anche avere conosciuto il volto
di Dio (ed è solo l’inizio di un
lungo percorso) e avergli offerto la nostra vita,
come fa Abram con l’olocausto ma,
poi, bisogna difendere l’offerta dagli
uccelli che calano dall’alto per
divorare le vittime sacrificali.
Anche noi, come il primo
cercatore di Dio, dobbiamo tenere lontani i rapaci,
portatori di morte, che ci
strappano all’intuizione cristiana.
Convertirsi significa cambiare
mentalità, ridefinire il proprio pensiero
a partire dal vangelo.
E la prima conversione da
operare, la più difficile, è quella di passare dal
Dio che abbiamo nella testa al
Dio di Gesù Cristo.
Non basta dirsi (essere?)
cristiani per credere nel Dio di Gesù.
Occorre andare oltre, molto
oltre.
Dal dio indifferente al Dio
presente
Dio si occupa delle nostre vite?
O, distratto, si bea della sua
perfezione?
A Mosé che tentenna nell’andare a
parlare di Dio al popolo, Jawhé racconta
di sé, dice il suo nome, e si
svela come un Dio che conosce le sofferenze
del popolo.
Se anche la nostra vita
attraversa momenti di fatica, Dio non è lontano ed
interviene, chiedendo a qualcuno
di agire in nome suo.
Dio non guarda, indifferente,
alle tragedie del mondo, ma chiede a noi,
come a Mosé, di renderlo presente
accanto a chi soffre.
Al popolo che aspetta liberazione
Dio manda un pastore pauroso, Mosé,
come liberatore.
Quando chiediamo a Dio di
liberarci dal dolore, il Signore ci invita a non
coltivare il dolore, a sradicarne
le radici e a diventare noi il volto solidale
e sorridente di Dio per il
popolo.
I cristiani, ingenui, continuano,
bene o male, a farsi prossimi là dove c’è
dolore e ingiustizia.
Siamo noi il sorriso di Dio, il
balsamo che Dio dona all’umanità per superare
ogni dolore e crescere in una più
vera umanità basata sulla giustizia e sul perdono.
Di questo siamo testimoni.
Questa è la prima conversione.
Dalla disgrazia come tragedia,
alla disgrazia come occasione: «Cosa ho fatto
di male per meritarmi questo!»,
«Che croce mi ha mandato Dio!»; quante volte
ho sentito pronunciare queste
lamentazioni, queste imprecazioni verso Dio.
Se Dio è buono, perché non (mi)
evita il male?
Gesù, citando due noti eventi di
cronaca dei suoi tempi, smonta una credenza
popolare molto diffusa allora (e
oggi).
Un devoto medio pensava che le
disgrazie, come appunto il crollo della torre di
Siloe, punissero delle persone che–in
qualche modo–avessero commesso
degli orribili peccati.
Così come la malattia, o
l’handicap, la disgrazia era letta come un intervento
corrucciato di Dio che,
dall’altro della sua somma giustizia, scatenava la
sua ira divina.
Oggi non siamo più così crudeli e
diretti, ma la sostanza non cambia.
Molte persone, nei momenti di
dolore e di sofferenza, se la prendono con Dio
che, evidentemente, non sa fare
il suo mestiere.
Ciò che Gesù dice è sorprendente,
sconcertante; la vita ha una sua logica,
una sua libertà.
La causa del crollo della torre
di Siloe è da imputarsi al calcolo delle strutture
errato, o al lucro compiuto
dall’impresa che ha usato materiali scadenti;
l’intervento crudele dei romani è
causa della loro politica di espansione che
usa la violenza come strumento di
oppressione.
Non esiste un intervento diretto
e puntuale di Dio, le cose possiedono una
loro autonomia e noi possiamo
conoscerne le leggi.
Gesù ristabilisce le
responsabilità; gran parte del dolore che viviamo ce
lo siamo creato.
La croce ce la danno gli altri o
ce la diamo noi stessi con uno sguardo contorto
e mondano della realtà.
Ho scoperto, dopo molti anni, che
molti passano la vita a piallare e carteggiare
la propria croce, attribuendone a
Dio la responsabilità.
Dio fa quel che può; anche Lui si
ferma di fronte alla nostra ostinazione
e durezza di cuore.
Dio è limitato, quindi?
No, ma ferma la sua mano e ci
lascia liberi, perché vuole dei figli, non dei sudditi.
E, conclude Gesù, noi discepoli
siamo chiamati a leggere questi eventi disastrosi
come un monito che la vita, non
Dio, ci fa; sotto la torre crollata potremmo esserci noi.
Il tempo è serenamente fugace,
amici, tragicamente breve, approfittiamo di questi
giorni come giorni di salvezza e
di conversione, non aspettiamo, non temporeggiamo.
Oggi il Signore passa e ci salva,
oggi siamo chiamati a usare bene la nostra libertà
ed andare a vedere il grande
prodigio del roveto ardente, di un Dio che conosce il
nostro nome e la nostra
condizione.
Dal dio feroce al Dio paziente
E Gesù conclude; Dio non è come
se lo immaginava il Battista, pronto
a tagliare l’albero improduttivo,
con l’ascia alla radice per sradicare il fico
che non porta frutto.
Quanti, anche nella Chiesa,
davanti al generale rilassamento dei costumi,
propongono cure forti, azioni
estreme.
Quanti genitori bussano alle
nostre parrocchie per chiedere i sacramenti
senza consapevolezza.
Quanti sposi chiedono il
matrimonio cristiano senza reale coinvolgimento!
Che fare?
Essere intransigenti, fare delle
selezioni? Alzare l’asticella?
Certo, è importante essere seri.
Ma è molto più importanti essere
pazienti.
Al padrone che, giustamente,
vuole togliere il fico, il contadino propone
di aspettare; sarà lui a
zappettare e a concimare l’albero.
Se non darà frutti, lo
taglieranno.
Dio ha pazienza con noi; ci
zappetta intorno (le prove della vita!) e ci
concima perché portiamo frutti.
Noi e la nostra comunità, è
chiamata ad essere paziente, a prendersi cura di chi
bussa alla nostra porta, non a
diventare dei giudici impietosi e severi.
La vita è un’opportunità da
cogliere per scoprire chi è Dio e chi siamo noi
e il deserto è il luogo in cui
esercitiamo la nostra libertà.
Non esiste una vita più o meno
semplice, ma ogni vita è un soffio breve che
siamo chiamati a vivere con
intensità e gioia.
Gesù ci svela il volto di un Dio
che pazienta, che insiste perché il fico produca frutti.
La conversione, il cambiare
atteggiamento, il ri-orientare la nostra vita è il frutto
che ci è chiesto.
Fermiamoci davanti agli eventi
tristi della vita senza incolpare Dio, né scuotere
la testa e tirare innanzi, ma
guardiamoli come un monito che la vita stessa ci
rivolge per giocare bene la
nostra partita.
Dio–da parte sua–è un Dio che
conosce, che interviene, ma che ci rispetta,
trattandoci da adulti e rispetta
le nostre scelte, anche se catastrofiche e schiavizzanti.
Pensiamoci bene prima di
colpevolizzare il Signore per la nostra vita catastrofica,
tante volte cercata.
Santa Domenica di
Quaresima a tutti voi amici, Fausto.
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