giovedì 13 aprile 2017

Il grande gesto d'amore di Gesù

Il momento tragico della storia.
LA CROCIFISSIONE DI GESÙ CRISTO.
Il “processo” è finito, ognuno ha avuto ciò che desiderava; Pilato,
inaspettatamente , una pubblica dichiarazione di affetto verso Cesare
da parte dei sommi sacerdoti; Caifa, dopo un’estenuante duello sul filo
del rasoio, la condanna per crocifissione del Nazareno; Erode un’inattesa
attenzione da parte del prefetto.
Gesù è una piccola rotella in un complesso mondo, in cui ognuno ha
le sue buone ragioni per farlo fuori.
Dio si usa, quando serve, altrimenti è meglio sbarazzarsene.
Pilato allora decretò che fosse eseguita la loro richiesta.
Rilasciò quello che era stato messo in prigione per sommossa e omicidio,
e che quelli richiedevano, ma consegnò Gesù alla loro volontà (LC 23,24-25).
Gli uomini non fanno la volontà di Dio.
Gesù, allora, è consegnato alla volontà degli uomini.
Se non avessimo duemila anni di predicazione e di Via Crucis alle spalle,
rabbrividiremmo, leggendo questa annotazione di Luca!
La storia degli uomini è anche segnata dal tentativo di convincere le divinità
a piegarsi ai nostri desideri, alle nostre necessità.
La passione ci svela un Dio che accondiscende alla volontà
degli uomini, che, però, è una volontà di morte.
Gesù viene condotto al patibolo perché il volto di Dio che
annuncia e rivela è intollerabile, disturba, scandalizza.
Troppo compassionevole, troppo generoso, troppo amorevole, il suo Dio.
La religione, fino ad allora usata come strumento per mantenere l’ordine
costituito, esce dagli schemi rigidi in cui gli uomini religiosi l’hanno
costretta, per diventare un’esperienza personale, interiore e comunitaria.
Con l’amore di un Dio benevolo e sorridente. Un delirio.
Preferiamo tenerci il volto corrucciato di un Dio antipatico ma potente,
indifferente ma schierato con le nostre ragioni, all’occorrenza.
Gesù va eliminato, non c’è dubbio.
Un profeta abitato dallo Spirito, che ha compiuto solo opere di bene, che
ha smascherato l’ipocrisia nascosta dietro alla devozione senza fede, che
ha riletto con passione e verità la Parola data da Dio agli uomini,
riportandola alla sua origine,
è certamente più pericoloso di Barabba, omicida e sobillatore.
I giudei, presero dunque in consegna Gesù.
Egli, portando la croce da sé, uscì verso il luogo detto
del Cranio, in ebraico Golgota (GV 19,16-17).
 Pilato consegna Gesù a Caifa; si forma un piccolo drappello,
composto da soldati romani e, forse, da soldati del tempio.
Gesù, duramente provato dalla flagellazione che, ricordiamo, poteva
portare alla morte, è caricato del patibolo, una trave che gli è posta
sopra le spalle sanguinanti e legata ai polsi.
A questa trave, una volta arrivati al patibolo, il condannato è inchiodato
con due chiodi, probabilmente passati nel polso, conficcati nel legno
e ripiegati, per poi essere innalzato, sollevato da quattro soldati,
e appoggiato sopra un palo verticale precedentemente fissato,
alto non più di due metri.
Il luogo dove Gesù è condotto è il Golgota, una cava di
pietra in disuso addossata alla porta ovest della città.
Era abituale trovare delle cave di pietra intorno a Gerusalemme; quella
del Golgota è abbandonata; probabilmente la pietra non è di buona qualità,
come rivelano gli scavi sottostanti il Santo Sepolcro, e qualcuno l’ha
riadattata per scavare delle preziose tombe.
Il Golgota perciò confina con una serie di ricche tombe
scavate nella roccia e circondate da un giardino.
Il tragitto che Gesù compie non è lungo; dal palazzo di Erode
al Golgota ci sono poche centinaia di metri.
Lo segue una folla di persone; chi lo ha condotto per essere
giudicato e vuole essere sicuro della sua morte, alcuni discepoli,
fra cui l’evangelista Giovanni, alcuni curiosi.
La crocifissione avviene fuori della città; dentro le mura, infatti,
sarebbe impossibile, renderebbe impuro il tempio.
Il sommo sacerdote Caifa deve correre al tempio prima del tramonto;
le minuziose norme di purificazione che lo riguardano non devono
essere infrante per nulla al mondo; certamente non esce dalla città e,
se assiste all’esecuzione di Gesù, lo fa dall’alto delle mura.
L’idea che Caifa, da lì a poche ora, indosserà i solenni paramenti
per uccidere l’agnello pasquale, mi mette i brividi.
È come se un prete pedofilo, rovinasse un ragazzo
e poi andasse a prepararsi per celebrare l’Eucaristia.
Assiste alla morte di Dio, e pensa di onorarlo offrendogli
un agnellino, dopo avergli massacrato il Figlio.
PORTARE LA CROCE.
Spesso nella sua predicazione, Gesù ha parlato di portare la croce,
un modo di dire, forse, derivato dall’esperienza degli abitanti
di Gerusalemme che assistevano a numerose esecuzioni,
con i condannati che attraversavano la città portando il patibolo.
Gesù, usando anche l’immagine del giogo del bue, indica la fatica
dell’essere discepoli, l’impegno che comporta convertirsi alla visione
di Dio che Egli inaugura, lo sforzo per adeguarsi alla logica del Regno.
Credere, ciò, comporta una morte a se stessi,
una fatica, ma anche una liberazione.
E, invece, questo modo di dire è stato foriero di mille interpretazioni;
e di mille sensi di colpa.
Voglio ancora ribattere un’idea per me fondamentale, visto che Gesù è
morto per proclamare, e che non smetterò di ripetere, a costo di
sembrare un paranoico.
Dio non manda le croci, non le ama e ne farebbe volentieri a meno.
La sofferenza, la malattia, i litigi, la depressione, un fallimento lavorativo,
non dipendono da Dio, ma da noi e dagli altri.
Da noi, quando ci facciamo mille giri di testa su cosa vorremmo o
dovremmo essere, e siamo sempre scontenti di noi stessi e della nostra vita.
Dagli altri, quando si divertono a farci tribolare
per invidia o per malvagità.
O, ancora, dalla congiuntura internazionale che ha mandato sul
lastrico l’azienda in cui lavoro, dall’inquinamento atmosferico,
che è all’origine del mio cancro, e così via.
Gesù parla del discepolato come fatica da assumere, non di un Dio sadico
che, avendola portata Lui, decide di caricarci di una croce per vedere
quando crolliamo!
Dio non ci manda la croce e, potendolo,
anche Lui ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Ma se la croce arriva, o perché altri ci caricano o perché noi stessi ce la
costruiamo, allora bisogna portarla guardando avanti, senza farsi schiacciare.
Conosco devoti, non voi, gli altri, che quando sentono parlare della croce
di Gesù cominciano, davanti a Dio che muore, a lamentarsi dei
propri malanni o dei dispetti ricevuti.
Portare la croce non significa alzarsi ogni mattina,
piallarla, carteggiarla e verniciarla!
Per quanto dipende da noi, evitiamo di caricarci di croci che non rendono
in alcun modo gloria a Dio e se, invece, ne siamo caricati, allora
portiamola uniti a Cristo.
Come Simone! Il Cireneo!
Mentre lo conducevano fuori per crocifiggerlo, costrinsero un passante
che tornava dai campi, Simone di Cirene, padre di Alessandro e Rufo,
a portare la croce di Lui (MC 15,20-22).
Lo condussero, così, al luogo detto Golgota, che significa luogo del Cranio.
Gesù non ce la fa proprio; la tensione interiore, la notte insonne,
l’interrogatorio, la flagellazione, gli scherni, il peso del patibolo!
Cade sul selciato e fatica a rialzarsi.
Allora un soldato prende un uomo a caso dalla folla, uno che torna dal
lavoro e che si ferma a vedere cosa succede; (mai fermarsi a curiosare,
può succedere anche di prendere le colpe), slegano la croce e la pongono
sulle spalle di Simone di Cirene, uno sconosciuto di passaggio,
(non sempre sono parenti e amici ad aiutarti).
Non un amico, un discepolo, un compagno di avventura; uno sconosciuto.
Prendono uno che compie un gesto forzato, senza entusiasmo, senza
generosità, imprecando in cuor suo, timoroso, anche di essere anch’egli
scambiato per un delinquente.
Un temporaneo compagno di malasorte, come un vicino di letto in ospedale,
o alla mensa dei poveri, uno che ha in comune con te solo la disperazione. Eppure.
Non sappiamo nulla di Simone.
Non sappiamo se quel quarto d’ora passato a portare la croce di Gesù sia
stato qualcosa di più di un brutto momento da raccontare, il giorno dopo,
ai vicini di casa.
Così è la croce; non desiderata, arriva quando meno
te la aspetti, alla fine di una faticosa giornata di lavoro.
No, Dio non ti manda nessuna croce, nel caso di Simone
sono i soldati romani che gliela impongono.
Ma quel suo gesto obbligato, in qualche modo, l’ha scosso, interrogato, cambiato.
Marco, raccontando il gesto di Simone, non ne parla come di uno sconosciuto,
ma come del padre di Alessandro e Rufo, due persone a lui note, probabilmente
due discepoli che frequentano la comunità di Gerusalemme.
Il gesto di Simone è stato una benedizione per lui e la sua famiglia.
Quando ci troviamo a portare la croce, pensiamo che stiamo
aiutando Cristo a portarla, e che, così facendo, lo aiutiamo
a salvare il mondo, manifestando la misura dell’amore di Dio.
E quel gesto, forzato, non bello, non elegante,
può fiorire nella nostra vita interiore, e in quella di chi amiamo.
IL COMPIANTO.
Sulla strada che conduce fuori dalla città, Luca ci racconta un
curioso episodio, denso e significativo, quello delle donne piangenti.
(LC 23,27-32).
In passato molti commentatori hanno sottolineato la misericordia del
Signore nei confronti di queste donne, immaginate come devote
discepole affrante dal dolore.
Bello, poetico, finalmente qualcuno che prova compassione
davanti all’indurito dolore del Nazareno.
E invece no.
Mi ha sempre lasciato perplesso questa interpretazione.
Poi, qualche anno fa, leggendo il testo delle meditazioni alla
Via Crucis al Colosseo scritte dall’allora Cardinal Ratzinger,
mi sono rasserenato; la pensiamo allo stesso modo.
No, quelle donne non sono delle affrante discepole, ma una compagnia
della buona morte chiamata, forse, figlie di Gerusalemme, che
accompagnava i condannati a morte, e che piangeva lacrime su chi,
normalmente, non aveva nessuno che piangeva per lui.
Il loro, è un pio atto di devozione e di compassione. Falso!
Gesù non vuole lacrime finte, vuole la conversione dei cuori, non ama
l’apparenza, vuole la sostanza, non le opere caritative fatte una volta
all’anno, ma un cuore compassionevole sempre, non ha bisogno di una
claque che faccia partire l’applauso, ma di discepoli che seguono
il Maestro nel dono di sé.
Gesù è gravemente ferito, esausto, eppure trova la forza di reagire.
Le sue parole sono taglienti; non ho bisogno delle vostre lacrime, tenetele
per i vostri mariti, che hanno permesso di uccidere un innocente,
conservatele per quando la violenza genererà violenza,
e il vento seminato diverrà tempesta e tutto crollerà.
Gesù profetizza il crollo di Gerusalemme?
Facile profezia; l’equilibrio raggiunto dalla città è continuamente
messo in discussione dalle lotte interne e dalle tensioni internazionali.
Gesù fa un servizio alla verità, scuote queste pie donne dell’aristocrazia
religiosa, dal loro mondo dorato per riportarle con i piedi per terra.
Piedi che pestano sangue.
Non sempre chi ti dà una carezza ti vuole bene
e chi uno schiaffo ti vuole male, ricordiamocelo.
A volte, anche una frase forte, uno schiaffo morale,
può testimoniare un grande affetto.
Il corteo ha finito il suo percorso, sono arrivati alla cava, al Golgota.
Gesù viene spogliato della tunica, lo cinge un perizoma di
cotone o lino, che non gli viene tolto.
Abitualmente, nell’impero romano, si era crocifissi nudi, ultimo segno
di disprezzo, come le povere vittime della follia nazista che erano
spogliate prima di entrare nelle camere a gas, per avere un lavoro di
meno da compiere!
In Giudea pare di no; Roma non aveva interesse a compiere
gesti che la cultura locale avrebbe considerato provocatori.
Gesù è pronto per essere inchiodato e innalzato.
Volevano anche dargli del vino aromatizzato con mirra,
ma Egli non lo prese (MC 15,23).
Matteo parla di vino mischiato con fiele, Marco di vino mischiato con
mirra, ma la sostanza non cambia; è un blando anestetico, una misera
forma di compassione per stordire il condannato durante la crocifissione,
momento molto doloroso che comportava, fra le altre cose, la frattura di
alcune ossa del polso e del legamento del pollice.
Gesù rifiuta la bevanda, probabilmente vuole restare lucido fino in fondo.
Vuole mantenere la consapevolezza e la coscienza di sé per ciò che sta compiendo.
Non è facile raggiungere la consapevolezza e la coscienza
delle cose che si vivono, nella vita.
La fede, quella vera, ci può aiutare molto in questo percorso.
Più spesso, durante i momenti di dolore siamo completamente
storditi e poco lucidi, e rischiamo di prendere delle decisioni avventate.
Gesù ha piena consapevolezza di ciò che accade.
I suoi carnefici, secondo Lui, no.
È Luca a riferire questo particolare che mette i brividi.
Quando giunsero sul posto, detto luogo del Cranio, là crocifissero
Lui e i due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra.
Gesù disse: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello
che fanno” (LC 23,33-34).
Siamo al momento più tragico; i condannati sono slegati, distesi, in terra,
due soldati tengono fermo il disgraziato mentre un terzo, con un grosso
martello, gli conficca un chiodo lungo una ventina di centimetri, poi viene
fatto alzare e tirato su per le gambe e incastrato al braccio verticale.
A questo punto gli si piegano le gambe e un altro chiodo
è conficcato unendo i piedi, tenuti sovrapposti.
La posizione del crocifisso è innaturale e dolorosa; la maggior parte del
peso del corpo è sostenuto dai polsi, trafitti dai chiodi; la posizione
irrigidisce i muscoli pettorali che, contraendosi, impediscono di
respirare correttamente.
Istintivamente il crocifisso fa leva sui piedi per alzarsi di qualche
centimetro e respirare, per poi ricadere, sopraffatto dal dolore
dei piedi trafitti.
Una tortura inaudita.
In quel momento, mentre è inchiodato e innalzato, Gesù pronuncia la
frase più forte dell’intera passione: “Padre perdonali, non sanno
quello che fanno”.
Non solo li perdona; li giustifica, anche.
Non è vero; sanno benissimo quello che fanno, ma il Signore sovrabbonda
di grazia, è capace di capire le ragioni (malvage) dei suoi assassini.
Gesù perdona chi lo sta uccidendo, come ha chiesto di fare ai suoi discepoli.
Ama i suoi nemici.
Questa è la misura senza misura dell’amore di Dio.
È difficile perdonare, difficile perdonarsi.
Non si può dimenticare; il perdono non è un’amnesia.
E il perdono non riguarda l’emozione, ma la volontà; possiamo perdonare
ma restare turbati quando incontriamo chi ci ha fatto del male.
E non si perdona perché migliori, o perché l’altro cambi con il nostro
perdono; si perdona perché figli del Padre che fa piovere sopra i giusti e i malvagi.
Perdoniamo perché noi abbiamo bisogno di perdonare,
non perché l’altro si meriti il perdono.
Ed è meglio perdonare come si riesce, senza aspettare un perdono perfetto.
Provo disagio quando alcuni cronisti si avvicinano ai genitori di una vittima
e parlano di perdonare; come è anche solo immaginabile pensare di perdonare
l’omicida di tuo figlio il giorno dopo il funerale!
Ci vogliono anni per maturare la decisione di andare oltre,
di augurare a chi ti ha ferito non il male, ma la conversione.
Anni, eccetto che per Gesù, che ha già maturato il perdono.
Dio perdona sempre, senza porre condizioni,
sperando nella conversione di chi perdona.
LA TUNICA!
Dev’essere un particolare importante se tutti ne parlano.
Gesù viene spogliato delle vesti, ovvio.
Perché dirlo, allora?
E perché con così tanta insistenza?
Probabilmente gli evangelisti indugiano sul particolare della divisione
delle vesti perché colpiti dal fatto che un salmo, il ventidue, ne parla.
O forse, per sottolineare il disprezzo dei soldati che prendono la veste,
intrisa di sangue, inutilizzabile, per stracciarla in quattro parti.
Giovanni il teologo, ovviamente, non si accontenta
di questa spiegazione e vuole approfondirla.
(GV 19,23-24).
Sono due le vesti, quindi; una tunica preziosa, di qualità, tessuta tutta
d’un pezzo, e un mantello, che viene fatto a pezzi dai soldati.
La tunica resta intatta. Che significa?
I Padri della Chiesa hanno visto in questa tunica l’immagine
della Chiesa che non deve essere divisa per nessuna ragione.
I discepoli corrono il rischio di stracciare l’unità,
prezioso dono di Cristo morente in croce.
A cosa si riferisce Giovanni?
Forse alle tensioni nate fra la comunità di Gerusalemme,
legata a Giacomo, più conservatore, e quella fondata da Saulo?
Non lo sappiamo.
Certo è che il dono prezioso dell’unità,
più e più volte lacerato nel corso della storia, va conservato.
In parrocchia, nei movimenti, nella Diocesi, quando lasciamo
prevalere la divisione, lo scontro, ricordiamoci che
stiamo lacerando la tunica di Cristo.
SALVA TE STESSO!
Ecco, Gesù è appeso, pende dalla Croce.
Gli evangelisti spostano l’attenzione da Lui a chi lo circonda;
la folla, i capi, i soldati.
Il luogo della crocifissione è vicino all’ingresso della città e la folla
numerosa, che affretta il passo per entrare, visto il repentino cambiamento
del tempo, vede questi disgraziati e commenta.
Luca descrive la scena con una rara efficacia,
invitando lo spettatore, noi, a una sintesi teologica forte.
(LC 23,35-39).
Il popolo sta a guardare; è stato coinvolto, in precedenza,
per spingere Pilato a crocifiggere Gesù.
Gli è stato fatto credere di essere essenziale, in realtà il popolo è
stato manovrato da interessi politici e religiosi e, ora, è inerme, assiste.
Quanto possiamo essere manipolati!
Per incitare una nazione a scatenare una guerra, o ad acquistare un
prodotto, o a eleggere un candidato politico; il popolo, la “gente”,
come si dice oggi, è coinvolta solo se serve e, quasi sempre, è usata
per raggiungere finalità personali e private, non il bene comune.
(Vediamo i nostri politici, tutti, di qualsiasi colore essi siano).
Il discepolo, invece, non fa parte di una folla, ma di una Chiesa,
un popolo di radunati-da-Dio, di convocati, chiamati a essere
protagonisti della storia di Dio, a fare gli attori, non le comparse.
Forse pochi lo sanno che, alla Domenica quando andiamo ad assistere
alla Santa Messa, siamo noi i protagonisti, il celebrante all’inizio della
celebrazione dell’Eucaristia ci chiede di poterlo fare, ci chiede il nostro
consenso, siamo noi che celebriamo la santa Messa e non lo sappiamo,
lui la presiede, ma i protagonisti siamo noi.
Quanta grazia!
La folla è stata usata; ora assiste alle conseguenze
della propria barbarie, inerme, spenta.
Tutti i presenti sono d’accordo.
I capi del popolo giudaico, i soldati romani, il ladro; per mostrare di
essere il Cristo, Gesù deve salvare se stesso.
Per dimostrare di essere Dio, Gesù deve fare l’egoista.
È giusto; Dio non è forse il sommo egoista bastante a se stesso?
Il totalmente realizzato, il compiuto, l’inarrivabile?
Allora, per dimostrare di essere il Figlio di Dio,
Gesù deve salvare se stesso!
No, invece, Gesù non salverà sé. Salva me.
La sconcertante novità del cristianesimo è la scoperta di un
Dio che vive in relazione all’altro, che non è il motore immobile,
ma che è Trinità, comunione, relazione, festa e famiglia.
Gesù non salva se stesso; salva l’umanità, donando se stesso.
E ci apre una prospettiva sconosciuta e inattesa della vera identità di Dio.
Matteo è meno raffinato, ma altrettanto efficace.
La folla, i sacerdoti, i ladroni, sbeffeggiano Gesù, lo ridicolizzano.
Non ha potenza, non ha efficacia la sua profezia, non è capace nemmeno
di salvarsi, altro che distruggere il tempio!
(MC 27,39-44).
A Gesù è proposta una specie di compromesso;
non sono bastati i tanti miracoli compiuti, le parole, i gesti.
Deve ancora compiere un miracolo, il più eclatante; scendere dalla
croce: “Il Cristo, il Re d’Israele, scenderà ora dalla croce, affinchè
vediamo e crediamo” (MC 15,32).
A quel punto, certo, tutti si convertiranno.
Per convertirsi, la folla chiede a Gesù di evitare la croce.
Buffo, potevano evitargliela loro, la croce; o no.
Invece lo hanno crocifisso per vedere se scende dalla croce.
Contraddizione della stupidità umana!
Gesù non ama la croce, non l’ha desiderata, l’ha assunta, non ha potuto evitarla.
Come le tante persone che si trovano inchiodate a una croce senza scegliere,
senza poter fuggire, (una malattia, un lutto, una depressione), Gesù non
scende, non fugge, non vuole sconti, accetta fino in fondo di condividere
il destino degli sconfitti e degli ultimi, dei perdenti di tutti i tempi.
Al condannato veniva appeso al collo una tavola in legno,
riportante la ragione della condanna a morte.
Nel caso di Gesù questo cartello è posto sopra la croce,
dal che gli storici deducono che la croce fosse nella forma che
tutti conosciamo, non a “T” detto Tau, come abitualmente era.
Giovanni, però, fa una precisazione riguardante il titolo della condanna.
(GV 19,19-22).
È l’ultimo schiaffo di Pilato al Sinedrio, una spietata burla nei confronti
dei sacerdoti; hanno voluto che il Nazareno fosse condannato a morte
per il reato di lesa maestà, visto che si era spacciato per Messia,
cioè per il re dei giudei.
Bene; che tutti sappiano, allora, che Gesù è, appunto il re dei giudei.
Il cartello appeso sopra la croce è un’offesa ai giudei che passano;
ma come, quel poveraccio è il loro re?
E Roma mette in croce il loro re?
A quel punto Caifa capisce la gaffe che ha fatto,
va da Pilato per convincerlo a togliere il titolo.
Come il gatto fa con il topo, Pilato, ovviamente, si rifiuta.
La scritta è in tre lingue, per essere ben letta da tutti (aramaico, latino e greco).
Giovanni, ancora una volta, osa svelare la trama che ha fatto comprendere
gli eventi agli uomini; davvero Gesù è il Re dei giudei, e questa regalità,
ora, sarà riconosciuta da tutti i popoli.
Ecco il nostro Re, discepoli, il nostro sovrano; invece del trono, ha una
croce, non indossa una corona preziosa, ma una fatta di spine, non uno
scettro, ma una canna con cui è stato percosso.
Ecco il nostro Re; talmente sfigurato e irriconoscibile
da necessitare di un cartello che lo identifichi.
Un perdente. Un folle.
Uno che ha bisogno di tutto.
Chiedo; lo vogliamo davvero un Dio così?
Sul serio? Ne dubito!
Noi che cerchiamo un Dio che ci appoggi, che ci sostenga, potente,
efficace, interventista, lo vogliamo davvero un Dio così?
Pensiamoci bene, e riflettiamo su quello che andiamo a leggere.
IL BUON LADRONE!
È una delle figure più simpatiche e conosciute dell’intero Vangelo;
uno dei condannati assieme a Gesù, secondo Luca, invece di insultarlo
e di chiedere un aiuto, elemosina un ricordo.
Una pagina struggente, straordinariamente, tenerissima.
(LC 23,40-43).
Chiama Gesù per nome, senza aggiungere titoli.
È l’unico caso in tutti i vangeli in cui si usa il
nome di Gesù senza alcuna aggiunta.
È l’esperienza nuda e cruda dell’umanità del Signore; sulla croce Egli si
è spogliato di ogni veste regale, di ogni titolo, di ogni ruolo.
La sofferenza è un’esperienza che annulla le differenze.
E il ladro lo riconosce come tale, come uomo che soffre.
Non chiede salvezza; le sue mani grondano sangue,
non vuole una soluzione all’ultimo secondo.
È turbato il ladro, perché vede un innocente che muore!
Ha un alto senso della giustizia; tutto sommato lui si
merita quella fine, quel Nazareno no.
Zittisce il compagno che insulta Gesù e gli chiede un ricordo.
Abbiamo paura di essere dimenticati, di non contare, di passare
nella nostra vita terrena senza lasciare alcuna traccia.
La Bibbia ci rassicura.
Sion diceva: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato.
Forse che la donna si dimentica del suo lattante,
cessa dall’aver compassione del figlio delle sue viscere?
Anche se esse si dimenticassero, io non ti dimenticherò.
Ecco, ti ho descritta sulle palme delle mie mani,
le tue mura sono sempre al mio cospetto” (Isaia 49,14-16).
Il ladro, come ogni uomo, chiede un ricordo.
Accetta, Gesù, e gli promette di più; gli promette il paradiso.
Secondo la tradizione, il ladro si chiama Disma, e nell’ultimo istante
della sua vita è riuscito a scroccare la grazia del perdono al Signore,
ecco la misericordia di Dio.
Il paradiso, nel Vangelo, è la beatitudine dell’esperienza di Dio,
il farne esperienza.
Il ladro, il reietto, il peccatore, il violento, sperimenta la presenza di Dio.
È la misericordia che dilaga, nel Vangelo di Luca;
il ladro sperimenta in anticipo la salvezza.
Perché? Perché ha creduto.
Dio desidera la nostra salvezza, quando lo capiremo?
Desidera il nostro bene, senza porre condizioni.
Del ladro non abbiamo conservato il nome, ma solo
quell’aggettivo, buono, che ne delinea il carattere.
Buon ladrone, nel senso di ladrone con il cuore compassionevole.
Ma buon ladrone anche nel senso di abile.
Gli è riuscito il colpo più spettacolare della sua carriera;
ha rubato il paradiso.
LA MADRE.
I minuti passano, poi le ore.
I lamenti dei condannati diminuiscono, la loro voce si affievolisce.
Non hanno nemmeno la forza di lamentarsi, il dolore ormai li stordisce,
tutto il corpo si rattrappisce intorno a quei chiodi da cui pendono.
Anche la folla si dirada; si tratta di entrare in città per preparare la pasqua,
mentre nel tempio, da qualche ora, si sacrificano gli agnelli della pasqua.
I sacerdoti se ne sono andati, lasciando qualcuno a vedere
l’epilogo, per preparare la solenne liturgia nel tempio.
I soldati romani allentano la guardia.
Ad alcune persone, i famigliari più stretti, si permette di avvicinarsi ai condannati.
È questione di poche ore e tutto sarà finito.
Fra i presenti, i pochi presenti, c’è l’autore del quarto Vangelo,
il Giovanni forse sacerdote che ha ospitato Gesù durante la Cena.
Non ha da temere ripercussioni come gli altri discepoli della prima ora
che sono fuggiti a gambe levate; dev’essere un personaggio importante.
Ha assistito al processo, ha seguito Gesù al Golgota.
Ora sappiamo che, insieme a lui, c’è Maria, la Madre del Signore.
Quando è giunta a Gerusalemme?
Non lo sappiamo.
Sappiamo che, nel momento più terribile, è presente.
È difficile assistere alla morte di una persona che si ama.
Tragico, vedere la morte di un figlio.
Insostenibile, vedere la morte orribile di Gesù.
Maria è presente, sotto la croce, insieme ad alcune altre donne.
Nessun angelo a cantare la gloria di Dio, ora,
nessuna rassicurante apparizione.
Eccola lì, la promessa di Dio. Eccolo il Salvatore.
L’aveva accolto con timore e gioia, nel suo grembo, molti anni prima.
Gli aveva insegnato a camminare, a parlare, a pregare.
Lo aveva visto crescere, farsi uomo.
Aveva atteso con ansia la sua partenza, chiedendosi, davanti al suo
temporeggiare, se non si fosse sbagliata. Poi.
Arrivano le prime notizie da Cafarnao, da Cana, da Magdala.
Notizie portate in paese dai mercanti, che parlano del falegname
divenuto profeta.
Poi Gerusalemme, le prime difficoltà, l’ostilità aperta dei sadducei e dei farisei.
Infine la notizia, giunta chissà come a Nazareth, dell’imminente arresto di Gesù.
Eccola, la Madre.
Dov’è, ora, la promessa di Dio? Dove?
Si era forse illusa?
Si era sognata una chiamata inesistente?
Scrive Giovanni.
(GV 19,25-27).
Le donne stanno.
Meglio; dimorano irremovibili, tengono duro, non cedono.
Maria, la Madre, dimora nella fede, non cede.
In quel momento, tutto il Regno di Dio è rappresentato
da quelle poche donne radunate intorno alla Madre.
C’è bisogno di donne, quando serve la costanza irremovibile.
Gesù, con un soffio di fiato, vede la Madre e Giovanni,
e gliela affida. Donna, dice.
Come a Cana, prima del miracolo, la chiama donna.
Non è più sua Madre, da tempo l’ha donata, come Lei ha donato Lui.
Si sono fatti dono reciproco.
Come dovrebbe essere in ogni relazione d’amore.
Secondo la tradizione Giovanni, da quel giorno, prese e portò con sé Maria.
Da quel giorno, ogni discepolo del Signore sa che può prendere Maria
con sé, come discreta presenza nel suo percorso di vita interiore.
LA MORTE.
Il vento del mare sta portando nubi che si fanno minacciose,
cariche di pioggia.
La gente che entra in città affretta il passo per non farsi
sorprendere dal temporale imminente.
Tutti gli evangelisti annotano questo repentino cambio di tempo.
Dall’ora sesta fino all’ora nona si fece buio su tutta la terra (MT 27,45).
Il cielo si scurisce, come se anche la natura
partecipasse all’agonia di Dio.
Tutto è nuvoloso e buio, come il cuore delle persone
che hanno partecipato alla crocifissione.
Si fa buio, da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio.
Quell’annotazione temporale è colma di speranza; ha un limite la
tenebra, non può albergare per sempre, nei nostri cuori.
Da mezzogiorno alle tre, ecco i confini entro
cui può abitare la disperazione, non un minuto di più.
Fratello che soffri, sorella dilaniata dalla solitudine e dalla
depressione, il tuo dolore ha un confine, non ti disperare.
SETE.
Il silenzio è irreale, i condannati sono immobili,
respirano a fatica, non dicono una parola.
Anche chi piange, ormai, ha esaurito le lacrime.
I caldi colori della Giudea si sono stinti in un grigio sempre più scuro.
Gesù, con un soffio di voce, parla.
(GV 19,28-29).
Ha sete. Sete di amore, di pace, di giustizia, sete della nostra fede.
Solo sete.
Il nostro è un Dio assetato d’amore, come noi, sperimenta il limite di
un desiderio quasi sempre insoddisfatto, di uno slancio arrestato,
di un anelito senza soddisfazione.
Ha sete, come ha avuto sete aspettando che
la fede della Samaritana lo dissetasse (GV 4,4).
Ha sete colui che può dissetare chi cerca la felicità
e il bene, come aveva detto al tempio.
L’ultimo giorno, quello solenne della festa, Gesù stava in piedi e
proclamava a gran voce: “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva.
Colui che crede in me, come disse la Scrittura; dal suo
ventre sgorgheranno fiumi di acqua viva” (GV 7,37-38).
Ha sete della mia fede, della nostra fede.
LE ULTIME PAROLE.
Sono quattro versioni diverse, molto diverse, forse troppo.
Quali parole ha pronunciato Gesù sulla croce?
Quali sono state le sue ultime parole?
Ogni evangelista dà la sua versione.
Forse Gesù le ha pronunciate in tempi diversi, non lo sappiamo.
Ogni evangelista, però, ha ritenuto quelle che più lo hanno colpito.
Marco è diretto e asciutto, come al suo solito:
“Ma Gesù, emesso un grande grido, spirò” (MC 15,37).
Gesù grida.
Il suo è un ultimo agghiacciante grido di dolore, che svela
la sua partecipazione assoluta al destino degli uomini.
Un grido che è un disperato soffio di vita,
impressionante, messo in bocca a Dio.
Ecco, Dio ora conosce tutto, anche il nulla.
Come se sapesse tutto del niente, e niente del tutto che ha creato.
Restiamo interdetti, senza parole, davanti alla misura di questo
dono senza misura.
Il nostro ragionamento entra in corto circuito,
davanti all’ampiezza di questo mistero.
Dio conosce la disperazione, perché nessun uomo
possa sentirsi abbandonato.
Ha preso l’ultimo posto, perché nessuno possa sentirsi ultimo.
Matteo approfondisce e dilata la riflessione. (MT 27,45-49).
Gesù cita un salmo, il ventidue. Lo grida.
A volte anche un grido diventa preghiera.
Gesù conosce i salmi, lo hanno accompagnato nella sua crescita
interiore, nella presa di consapevolezza della sua identità.
Li ha ascoltati, cantati come ninna nanna dalla Madre, quand’era
piccolo, li ha recitati nella sinagoga di Nazareth, in età adulta.
Ha pregato con la Parola stessa di Dio, ha fatto scaturire dal di dentro la
Parola che lungamente aveva assaporato durante la meditazione personale.
Prega, Gesù, le sue ultime parole sono un grido di angoscia,
una richiesta d’aiuto.
Un’accusa verso Dio, ma detta con le Parole stesse di Dio.
Dio non ha bisogno di applausi o di carezze, o di timori reverenziali.
Accetta ogni parola, ogni grido, ogni bestemmia,
se esprimono verità e richiesta di aiuto.
Gesù muore pregando.
È un’accusa, la sua, una disperata richiesta di aiuto,
ma è usata come una preghiera.
Chiede a Dio perché non c’è, perché non si fa presente.
Vorrei fosse così anche per me.
Vorrei poter dire, come ultima parola, quell’Abbà,
che ha così lungamente riscaldato il mio cuore bucato.
E la preghiera è un interrogativo; Dio si chiede perché Dio
l’abbia abbandonato.
Come se, per un attimo Dio diventasse incredulo.
Incredulo per quanta solitudine l’uomo può sperimentare,
solitudine che Dio, per sempre, assume.
Da ora, e per sempre, nessun Cristo morirà disperato.
Nessuno può più perdersi, ora che Dio si è perso.
La folla pensa che Gesù invochi Elia.
Sarebbe un bel finale, degno di un film americano;
Gesù che scende dalla croce per mezzo di Elia.
È già venuto Elia, ma anche il Battista, e hanno
fatto fuori anche lui, non siamo ridicoli.
Luca, che si è informato, sceglie un’altra delle affermazioni di Gesù.
E Gesù, gridando a gran voce: “Padre, nelle tue mani raccomando
il mio spirito” (LC 23,46).
Luca conferma che Gesù muore pregando.
Si affida, si dona, sa bene in chi ha posto la sua fiducia e il suo destino.
Lo dice ad alta voce, vuole che tutti sappiano che fra
Lui e il Padre c’è un legame di fiducia totale, di dono di sé.
Ma è Giovanni, al solito, a dare un colpo d’ali,
forse perché era sotto la croce.
L’ultima parola di Cristo in croce non è un grido,
né un salmo di disperazione o uno di fiducia.
È l’affermazione di una missione compiuta, quella affidatagli dal Padre.
Quando ebbe preso l’aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto” (GV 19,30).
Ciò che andava fatto è stato fatto, ora sta al Padre continuare.
Abbiamo tutti una missione da compiere, una missione d’amore che Dio
ci affida al momento della nostra nascita, un tesoro nascosto da scoprire
e da condividere.
Non pensate subito a grandi opere, o a scoperte straordinarie; a volte sono
piccole le cose che danno senso alla vita e che salvano il mondo.
Ecco; Gesù ora, ha terminato il suo percorso.
Ciò che poteva fare è stato fatto.
È tempo di morire. Finalmente! SPIRÒ.
Ha lottato duramente per parecchie ore, ma il suo corpo è debilitato,
prostrato, non vuole più combattere.
La terribile macchina della croce ha sortito il suo effetto; la respirazione
è affannosa, i polmoni sono stretti dai muscoli irrigiditi, le gambe non
riescono più a sollevarsi per placare la fame d’aria, il cuore cede, Gesù muore.
Ma Gesù emise di nuovo un forte grido ed esalò lo spirito (MT 27,50).
Muore; restituisce lo spirito che ci tiene in vita,
quel soffio che ci rende partecipi di Dio.
Ora esce, esala.
Giovanni dice; lo rende, lo dona.
Lo Spirito, che è dono di Dio, ci è donato sulla croce,
ultimo dono di Gesù ai credenti.
Anche morendo, Gesù compie un’opera di vita, una nuova creazione.
La sua non è una fine, ma un nuovo cosmo che sta per prendere vita.
IL VELO.
Gesù è morto.
Nel tempio, decine di sacerdoti, a ritmo sostenuto, sgozzano decine
di migliaia di agnelli, per offrirli al Signore e restituirli ai proprietari
che li avrebbero cotti al fuoco di brace e mangiati insieme alle erbe
amare, un agnello per famiglia, da consumare tutto, senza avanzarne.
Anche l’Agnello di Dio, ora, pende, senza vita.
Sono Marco e Matteo che riferiscono il particolare, all’apparenza insignificante.
Allora il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto fino al basso (MC 15,38).
Il tempio era un complesso sistema di edifici, infilati l’uno dentro l’altro
come un gioco di scatole cinesi.
Al centro, nel luogo più inaccessibile, troneggiava il Santo dei Santi, un
alto edificio con una sola apertura, circondato da una serie di cortili
e di alte mura.
Al suo interno si trovavano due ambienti; un atrio e il Santo vero e proprio,
che al tempo di Salomone, custodiva l’arca dell’alleanza contenente le tavole
della legge, il bastone di Aronne e un po’ di manna.
Da tempo, tutto ciò era stato depredato, e il Santo dei Santi
era vuoto, con grande stupore dei romani che lo violarono.
Ma era comunque il luogo inaccessibile, il luogo della gloria di Dio,
abitato dalla sua presenza.
Luogo cui poteva accedere solo il sommo sacerdote, una volta
all’anno, per versare il sangue del sacrificio, il giorno dell’espiazione.
Quel luogo era diviso dall’atrio da un pesante tendaggio,
lungo dal soffitto al pavimento.
Quel velo, annotano gli evangelisti, si strappò, dall’alto in basso,
da Dio all’uomo, dal mistero all’evidenza.
Dio non è più inaccessibile, è osteso, evidente, appeso.
Dio non è più misterioso, non dimora in un luogo inaccessibile,
non è più altrove, è qui, raggiungibile, incontrabile,
lo possiamo vedere, sfiorare, accarezzare.
Il capovolgimento è compiuto; il sommo sacerdote volge lo
sguardo al Santuario, al Santo dei Santi, definitivamente vuoto.
Così come la nube della presenza di Dio abbandonò il tempio
per seguire il popolo deportato in esilio, ora, e per sempre,
Dio abbandona il tempio di pietra per condividere la morte dei malfattori.
La croce, ora, è il tempio.
Quell’atroce strumento di tortura e di morte, ora,
è il luogo della gloria di Dio.
Lo diventa perché altare della manifestazione, della misura dell’amore
di Dio, lo diventa perché ostende e realizza pienamente l’assoluto di Dio.
CONVERSIONI.
Tutto è compiuto.
Gesù ha dato tutto, goccia dopo goccia, stilla dopo stilla. Tutto!
Chi ha assistito esprime sentimenti diversi.
I sadducei, di feroce soddisfazione, certi di avere fatto una cosa giusta.
I discepoli, di silenziosa disperazione.
Alcuni presenti, di turbamento e di conversione. E noi?
Il primo a testimoniare stupore è il centurione romano.
Un ufficiale abituato alla violenza, che serviva Roma
anche in quei frangenti così spietati e sgradevoli.
Non sappiamo nulla di lui; ha gestito il picchetto di soldati di complemento
per la crocifissione, ha osservato l’agonia dei condannati.
Marco ci dice che si è posto di fronte a Gesù,
lo ha lungamente osservato, è rimasto turbato, scosso.
Ne ha visti morire, di malfattori.
Li ha visti urlare come delle bestie scannate, contorcersi, nudi, intorno
ai chiodi insanguinati, li ha sentiti piangere, bestemmiare, singhiozzare
come dei bambini.
Ha fatto l’abitudine a quello spettacolo atroce, a quella morte oscena.
Gesù no, non ha inveito, ha pronunciato parole di perdono,
è morto come mai egli ha visto morire un crocifisso.
E il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare gridando a quel modo,
esclamò: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (MT 15,39).
La sua professione di fede è la professione di fede della comunità di Marco.
Siamo chiamati a riconoscere in Gesù il Figlio di Dio non quando le cose
vanno bene, ma ora, quando la divinità è nascosta, mascherata, offuscata.
Siamo chiamati a credere che quel poveraccio
sfigurato e spezzato è il creatore del mondo.
È Dio, non perché perdente, ma per come è morto, donandosi fino in fondo,
vivendo ciò che ha detto nei brevi anni della sua vita pubblica.
Siamo tutti bravi a parlare, tutti santi e moralisti, quando si tratta di dare consigli.
Ma quando siamo messi a dura prova, allora esce
fuori il meglio o il peggio di noi stessi.
Gesù testimonia che è esattamente ciò che ha detto di essere.
La sua è una morte coerente, esemplare, inattesa, luminosa.
È poco probabile che il centurione, abbia pronunciato quelle esatte parole.
Con maggior precisione Luca riporta.
Il centurione, vedendo l’accaduto, glorificava Dio:
“Certamente quest’uomo era giusto” (LC 23,47).
La morte del giusto, il clima di perdono che è riuscito a
portare in quell’inferno, dice Luca, rendono gloria a Dio.
Il pagano romano invoca Dio e lo pensa presente, vedendo quella morte.
I nostri gesti, compiuti con giustizia, la nostra capacità di perdono,
la nostra benevolenza, rendono gloria a Dio,
avvicinano le persone al mistero della redenzione.
La nostra vita di fede illumina anche chi ci sta accanto,
se vissuta con autenticità e passione.
LA FOLLA.
La folla manipolata, quella che, all’ingresso di Gesù a Gerusalemme
gridava Osanna; quella che, sospinta dai sadducei e dai capi religiosi ha
richiesto la crocifissione di Gesù, quella che, silenziosa e muta, assiste
alla morte del profeta, ora reagisce in maniera diversa.
Ha preso consapevolezza di sé, è tornata sui propri passi,
non è più condotta da altri.
La folla, ora, è meditabonda e silenziosa.
Anche tutti quelli che erano convenuti per questo spettacolo, davanti a
questi fatti se ne tornano a casa battendosi il petto (LC 23,48).
Hanno partecipato ad uno spettacolo, una manifestazione.
Come la folla radunata dall’imperatore al Colosseo assisteva
ai giochi, ai massacri fra gladiatori, alle lotte fra uomini
e belve; un’orgia di violenza, di sangue, di follia.
Ma questo spettacolo è stato inatteso, diverso, completamente diverso.
Meditando il mistero della croce, anche noi possiamo tornare sui nostri
passi percuotendoci il petto, cioè rianimando il nostro cuore, scuotendolo,
allargandolo alla misura di Dio.
Tutti noi possiamo assistere sulla via Crucis,
allo spettacolo di un Dio che muore per amore.
E convertirci. Io per primo.
LE DONNE.
Sia Marco sia Luca annotano un particolare sui discepoli; tutti i suoi
amici e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea se ne stavano
lontano, osservando tutto ciò che accadeva (LC 23,49).
Non tutti sono fuggiti.
Alcuni, anche se da lontano, hanno continuato a seguire Gesù.
Nel momento della prova può succedere di allontanarsi
dal Signore, di essere lontani.
L’importante è non perdere di vista il Signore,
seguirlo, anche solo con la coda dell’occhio.
Per sapere dove l’hanno messo e tornare da Lui,
anche se lo consideriamo, ormai, un cadavere.
Fratello in crisi, che fatichi a credere, che sei stato masticato, come
gli apostoli, segui il Signore, anche se da lontano, non andartene.
TERREMOTI.
Matteo esagera, si allarga, e sa di farlo.
State sereni; la sua è un’annotazione teologica, non storica.
Richiama i segni degli ultimi tempi, della manifestazione
di Dio al popolo di Israele, e allora, come fanno i pescatori
che raccontano della loro pesca, esagera un pò. (MT 27,51-53).
Il linguaggio che usa ha a che fare con i profeti apocalittici, è come se
Matteo dicesse; davvero il Messia è venuto, e si rivela morendo in
croce, anche il cosmo riconosce la sua presenza.
Mi piace, calcare la mano, meditando la passione, anche a noi può
succedere di subire un terremoto interiore, di veder spaccare in noi
la pietra che ci impedisce di gioire, di uscire dai sepolcri in cui ci
siamo sepolti, di lasciar venir fuori il santo che c’è in ciascuno di noi.
La presenza del Signore, credetemi, è una potenza, una forza che
costruisce, che scuote, che rianima, che sbalordisce.
SANGUE E ACQUA.
L’ora del tramonto si avvicina, e con esso l’inizio solenne della
festa di pasqua.
Non si possono lasciare i condannati in croce, la cosa contravviene
alla legge (Deuteronomio 21,22-23), bisogna accelerare la morte.
Il metodo è semplice e crudele; con un colpo di bastone alla tibia,
i soldati frantumano le ossa delle gambe, impedendo al condannato
di rialzarsi a prendere aria.
La morte per asfissia sopraggiunge in pochi minuti.
Giovanni descrive minuziosamente l’orrenda procedura. (GV 19,31-37).
Arrivati da Gesù, i soldati vedono che è senza vita.
Per sicurezza, un soldato gli assesta un colpo di grazia,
un colpo di lancia dato quasi in orizzontale, sotto il costato,
a destra, un colpo che, normalmente, trapassava il cuore, e subito ne uscì,
sangue ed acqua che richiama la salvezza e la redenzione,
la croce e il battesimo.
LA SEPOLTURA.
Mi immagino il volto di Nicodemo e di Giuseppe di Arimatea che
sorreggono il cadavere, uno dal capo, l’altro dai piedi; dietro al Cristo,
le statue di Giovanni, della Maddalena, di Maria e di una discepola
esprimono disorientamento e dolore.
Cristo no, è il centro immobile della composizione.
Tutto è compiuto.
Mentre scrivo socchiudo gli occhi e ripenso alla scena, mi ritrovo al Calvario.
Sento l’odore del temporale in arrivo e del sangue.
La folla se n’è andata in tutta fretta per non prendersi l’acquazzone, i soldati
calano senza riguardo i cadaveri per gettarli nella fossa comune.
Gesù no, passa prima dalle braccia della Madre!
La Madre strige il Figlio esamine.
Una scena fortissima, straziante, intensa.
Quanto silenzio, quanto dolore, quanta forza!
I romani avevano l’orribile consuetudine di lasciare i cadaveri appesi
alla croce, in preda agli animali e ai corvi, soprattutto quelli condannati
per lesa maestà; un terribile monito per tutti i sudditi.
La concessione del corpo ai famigliari era un’eccezione, fatta per
manifestare la generosità di Roma; troppo buoni, perché: “In Cina,
i famigliari del condannato a morte devono pagare il prezzo della
pallottola con cui si procede all’esecuzione, se vogliono il corpo”.
In Giudea, però, le cose funzionavano diversamente; non c’era nessuna
intenzione di forzare la mano, di accentuare i dissidi, perciò i corpi erano
restituiti ai famigliari che ne facevano richiesta, tanto più in quella
vigilia di pasqua.
Il tutta fretta, perciò, i famigliari, aiutati dai soldati, devono schiodare
i piedi del condannato, deporlo in un lenzuolo e provvedere alla sepoltura.
È Giuseppe d’Arimatea a trovare il coraggio.
È un influente membro del Sinedrio, insieme a Nicodemo.
Non è riuscito a salvare Gesù dalla condanna e ora vuole,
almeno, dargli una sepoltura degna.
Entra da Pilato, piuttosto impressionato che un membro del Sinedrio
contragga l’impurità alla vigilia della pasqua entrando da un pagano,
pur non essendo un famigliare del condannato, e chiede il corpo del Nazareno.
Pilato è stupito della velocità della morte di Gesù,
e concede la sepoltura privata.
Giuseppe compra un lenzuolo, una sindone di prezioso lino, e fa deporre
Gesù in una tomba adiacente al Golgota, la tomba che ha fatto preparare
per sé, una tomba preziosa, di un uomo importante, scavata nella roccia e
protetta da una pesante chiusura in pietra.
Come quella che chiude il nostro cuore!
Contrae l’impurità per la seconda volta, toccando un cadavere.
Non avrà più tempo per purificarsi.
Non celebrerà la pasqua.
Non ne ha neppure voglia, ora che il suo cuore è gonfio di dolore.
Non ha da preoccuparsi, Giuseppe d’Arimatea;
fra pochi giorni potrà celebrare una Pasqua nuova.
E rivedere il suo Maestro.
Ci sono dei momenti, nella vita, in cui il nostro cuore è impietrito,
insensibile, raggelato, in cui non abbiamo più nulla da offrire al Signore,
in cui abbiamo l’impressione che Dio, nella nostra vita, sia morto e
sepolto; in quei momenti non ci resta che offrire il nostro cuore,
freddo come una tomba, e accogliere il Cristo perché lo riscaldi.
L’ultimo regalo fatto a Gesù è una tomba scavata nella pietra.
L’ultimo, disperato, straziante gesto di affetto di un discepolo
che pensava di avere trovato in Gesù la novità della fede,
la pienezza della vita, il sorriso di Dio.
Giuseppe non ha potuto salvare il suo Maestro.
Non i suoi denari, non la sua influenza, non la sua cultura, l’hanno salvato.
Con il cuore pesante, non gli resta che offrire la sua tomba.
Non ha da preoccuparsi, Giuseppe; fra tre giorni gli verrà restituita, intatta.
Gli lascio un solo suggerimento; è bene che si guardi in giro e che trovi
un’altra tomba; quella che ospita temporaneamente il cadavere di Dio
sarà luogo di culto e di contraddizione, per millenni.
I romani ricostruendo Gerusalemme rasa al suolo dalle truppe di Tito,
penseranno bene di edificare su di essa un tempio dedicato a Venere,
per impedire ai discepoli del Nazareno di radunarsi in quel luogo.
La regina Elena, madre dell’imperatore cristiano Costantino, farà
abbattere il tempio e ritrovare la tomba, la cui memoria era stata
conservata preziosamente per due secoli dalla comunità locale.
Il sepolcro non ha bisogno dello splendore, ne della
dignità che vorremmo attribuirgli devotamente.
La tomba che non è riuscita a contenere Dio,
non ha bisogno delle nostre devozioni.
Ma è lì, coperta di marmi e stoffe, un piccolo luogo al centro di una
grande cupola pericolante, a ricordare a tutti che Dio non è
stato sconfitto.
No, la tomba, a Giuseppe d’Arimatea, non verrà più restituita.
Per quel che gli importa.
Giovanni inserisce nel racconto anche la presenza di Nicodemo,
un importante rabbì fariseo che cerca Gesù,
anche se di notte, per non sbilanciarsi troppo.
Come abbiamo già visto, Nicodemo cercherà in qualche modo di proteggere
Gesù, di chiedere per Lui un procedimento giusto, senza ottenerlo.
Ora che Gesù è morto, Nicodemo non ha più paura di esporsi,
anche di fronte ai suoi confratelli di fede e al Sinedrio.
Perde la faccia volentieri, per testimoniare il suo affetto per il Maestro.
Venne anche Nicodemo, il quale già prima era andato da Lui di notte,
portando una mistura di mirra e di aloe di circa centro libbre (GV 19,39).
Alcuni storici, storcono il naso; non era affatto abituale,
in Israele, imbalsamare un cadavere e la quantità
degli unguenti (trenta chili!) è davvero sproporzionata.
Probabilmente la grande mole di mirra e aloe servivano
ad evitare temporaneamente la decomposizione
del corpo di Gesù, essendo degli antisettici naturali,
per poter in seguito provvedere ai riti di lavaggio
e di purificazione, impediti dalla fretta della sepoltura.
Come sempre Giovanni è uno storico affidabile,
pur sovrapponendo gli eventi e la loro interpretazione.
Da parte mia, ho una sola annotazione da fare a Nicodemo;
gli onori, ai profeti, è meglio farli da vivi, che da morti.
Troppe persone si schierano dopo, troppi profeti sono
riconosciuti come tali dopo la loro morte (spesso tragica).
Cerchiamo di essere coerenti, per favore.
La pietra è posta dinanzi al sepolcro,
per impedire agli animali di violare il corpo di Gesù.
Dal tempio arriva il suono di richiamo che annuncia l’inizio
della festa, tutti rientrano in casa per accendere le luci di quel
sabato particolare, che coincide con la festa di pasqua.
Nicodemo e Giuseppe non parteciperanno alla festa,
probabilmente, essendosi contaminati con un cadavere.
Così come gli apostoli, fuggiti e nascosti nelle campagne attorno
alla città.
Non celebrerà la pasqua neppure Giovanni, rifugiatosi con la Madre
di Gesù, nella città alta, negli alloggi dei sacerdoti.
Pilato, cenando alla fortezza Antonia, o al Pretorio,
penserà alla bella soddisfazione presa con il Sinedrio e
proverà disagio ricordando quel Galileo un po’ filosofo.
La gente, in casa, canterà la benedizione, mentre un bambino porrà
la domanda rituale; cosa festeggiamo oggi?
E il capo famiglia racconterà la fuga dal faraone del popolo guidato da Mosè.
Gesù, cadavere, giace nell’oscurità di una tomba scavata nella roccia.
Fine della storia, fine dell’illusione, fine di una brillante carriera di profeta.
Fine di un sogno.
Fine di un normale movimento religioso moderno.
Fine!    O forse no. Il dopo è un’altra storia!
Ed allora aspettiamo con trepidazione il giorno dopo il Sabato

aiutandoci con la preghiera. Fausto