Venerdì Santo.
Passione del
Signore nostro Gesù Cristo.
Prima lettura.
Egli è stato
trafitto per le nostre colpe.
Dal libro del profeta
Isaìa (52,13-53,12)
Ecco, il mio servo
avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente.
Come molti si
stupirono di lui-tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto
e diversa la sua forma
da quella dei figli dell’uomo-, così si meraviglieranno di lui
molte nazioni; i re
davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto
mai a essi raccontato e
comprenderanno ciò che mai avevano udito.
Chi avrebbe creduto al
nostro annuncio?
A chi sarebbe stato
manifestato il braccio del Signore?
È cresciuto come un
virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né
bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per
poterci piacere.
Disprezzato e reietto
dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno
davanti al quale ci si
copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è
caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori;
e noi lo giudicavamo
castigato, percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto
per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà
salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo
stati guariti.
Noi tutti eravamo
sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece
ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò
umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto
al macello, come
pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e
ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità?
Sì, fu eliminato dalla
terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura
con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse
commesso violenza né
vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è
piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se
stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza,
vivrà a lungo, si
compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo
tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo
giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.
Perciò io gli darò in
premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché
ha spogliato se stesso
fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre
egli portava il
peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.
Parola di Dio.
Seconda lettura.
Cristo imparò
l'obbedienza e divenne causa di salvezza per tutti coloro
che gli
obbediscono.
Dalla lettera agli
Ebrei (4,14-16; 5,7-9)
Fratelli, poiché
abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i
cieli, Gesù il Figlio
di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Infatti non abbiamo un
sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre
debolezze: egli stesso
è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque
con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia
e trovare grazia, così
da essere aiutati al momento opportuno.
[Cristo, infatti,] nei
giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con
forti grida e lacrime,
a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno
abbandono a lui, venne
esaudito.
Pur essendo Figlio,
imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne
causa di salvezza
eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Parola di Dio.
Vangelo.
Passione del
Signore.
Dal Vangelo secondo Giovanni
(18,1-19,42) anno dispari.
-Catturarono Gesù e lo
legarono.
In quel tempo, Gesù
uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove
c’era un giardino, nel
quale entrò con i suoi discepoli.
Anche Giuda, il
traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era
trovato là con i suoi
discepoli.
Giuda dunque vi andò,
dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie
fornite dai capi dei
sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi.
Gesù allora, sapendo
tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi
e disse loro: «Chi
cercate?».
Gli risposero: «Gesù,
il Nazareno».
Disse loro Gesù: «Sono
io!».
Vi era con loro anche
Giuda, il traditore.
Appena disse loro
«Sono io», indietreggiarono e caddero a terra.
Domandò loro di nuovo:
«Chi cercate?».
Risposero: «Gesù, il
Nazareno».
Gesù replicò: «Vi ho
detto: sono io.
Se dunque cercate me,
lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la
parola che egli aveva
detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato».
Allora Simon Pietro,
che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del
sommo sacerdote e gli
tagliò l’orecchio destro.
Quel servo si chiamava
Malco.
Gesù allora disse a
Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre
mi ha dato, non dovrò
berlo?».
-Lo condussero prima
da Anna.
Allora i soldati, con
il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù,
lo legarono e lo
condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa,
che era sommo
sacerdote quell’anno.
Caifa era quello che
aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo
uomo muoia per il
popolo».
Intanto Simon Pietro
seguiva Gesù insieme a un altro discepolo.
Questo discepolo era
conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù
nel cortile del sommo
sacerdote.
Pietro invece si fermò
fuori, vicino alla porta.
Allora quell’altro
discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla
portinaia e fece
entrare Pietro.
E la giovane portinaia
disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli
di quest’uomo?».
Egli rispose: «Non lo
sono».
Intanto i servi e le
guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo,
e si scaldavano; anche
Pietro stava con loro e si scaldava.
Il sommo sacerdote,
dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento.
Gesù gli rispose: «Io
ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga
e nel tempio, dove
tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto.
Perché interroghi me?
Interroga quelli che
hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto».
Appena detto questo,
una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù,
dicendo: «Così
rispondi al sommo sacerdote?».
Gli rispose Gesù: «Se
ho parlato male, dimostrami dov’è il male.
Ma se ho parlato bene,
perché mi percuoti?».
Allora Anna lo mandò,
con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.
-Non sei anche tu uno
dei suoi discepoli? Non lo sono!
Intanto Simon Pietro
stava lì a scaldarsi.
Gli dissero: «Non sei
anche tu uno dei suoi discepoli?».
Egli lo negò e disse:
«Non lo sono».
Ma uno dei servi del
sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva
tagliato l’orecchio,
disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?».
Pietro negò di nuovo,
e subito un gallo cantò.
-Il mio regno non è di
questo mondo.
Condussero poi Gesù
dalla casa di Caifa nel pretorio.
Era l’alba ed essi non
vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e
poter mangiare la
Pasqua.
Pilato dunque uscì
verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?».
Gli risposero: «Se
costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato».
Allora Pilato disse
loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!».
Gli risposero i
Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno».
Così si compivano le
parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte
doveva morire.
Pilato allora rientrò
nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?».
Gesù rispose: «Dici
questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?».
Pilato disse: «Sono
forse io Giudeo?
La tua gente e i capi
dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio
regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo
mondo, i miei
servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai
Giudei; ma il mio
regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli
disse: «Dunque tu sei re?».
Rispose Gesù: «Tu lo
dici: io sono re.
Per questo io sono
nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare
testimonianza alla
verità.
Chiunque è dalla
verità, ascolta la mia voce».
Gli dice Pilato: «Che
cos’è la verità?».
E, detto questo, uscì
di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna.
Vi è tra voi l’usanza
che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per
voi: volete dunque che
io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?».
Allora essi gridarono
di nuovo: «Non costui, ma Barabba!».
Barabba era un
brigante.
-Salve, re dei Giudei!
Allora Pilato fece
prendere Gesù e lo fece flagellare.
E i soldati,
intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero
addosso un mantello di
porpora.
Poi gli si
avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!».
E gli davano schiaffi.
Pilato uscì fuori di
nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché
sappiate che non trovo
in lui colpa alcuna».
Allora Gesù uscì,
portando la corona di spine e il mantello di porpora.
E Pilato disse loro:
«Ecco l’uomo!».
Come lo videro, i capi
dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!».
Disse loro Pilato:
«Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa».
Gli risposero i
Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire,
perché si è fatto
Figlio di Dio».
All’udire queste
parole, Pilato ebbe ancor più paura.
Entrò di nuovo nel
pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?».
Ma Gesù non gli diede
risposta.
Gli disse allora
Pilato: «Non mi parli?
Non sai che ho il
potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?».
Gli rispose Gesù: «Tu
non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato
dato dall’alto.
Per questo chi mi ha
consegnato a te ha un peccato più grande».
-Via! Via!
Crocifiggilo!
Da quel momento Pilato
cercava di metterlo in libertà.
Ma i Giudei gridarono:
«Se liberi costui, non sei amico di Cesare!
Chiunque si fa re si
mette contro Cesare».
Udite queste parole,
Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale,
nel luogo chiamato
Litòstroto, in ebraico Gabbatà.
Era la Parascève della
Pasqua, verso mezzogiorno.
Pilato disse ai
Giudei: «Ecco il vostro re!».
Ma quelli gridarono:
«Via! Via! Crocifiggilo!».
Disse loro Pilato:
«Metterò in croce il vostro re?».
Risposero i capi dei
sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare».
Allora lo consegnò
loro perché fosse crocifisso.
-Lo crocifissero e con
lui altri due.
Essi presero Gesù ed
egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio,
in ebraico Gòlgota,
dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno
dall’altra, e Gesù in
mezzo.
Pilato compose anche
l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù
il Nazareno, il re dei
Giudei».
Molti Giudei lessero
questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso
era vicino alla città;
era scritta in ebraico, in latino e in greco.
I capi dei sacerdoti
dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re
dei Giudei”, ma:
“Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”».
Rispose Pilato: «Quel
che ho scritto, ho scritto».
-Si sono divisi tra
loro le mie vesti.
I soldati poi, quando
ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero
quattro parti-una per
ciascun soldato-, e la tunica.
Ma quella tunica era
senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.
Perciò dissero tra
loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca».
Così si compiva la
Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e
sulla mia tunica hanno
gettato la sorte».
E i soldati fecero
così.
-Ecco tuo figlio! Ecco
tua madre!
Stavano presso la
croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre
di Clèopa e Maria di
Màgdala.
Gesù allora, vedendo
la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse
alla madre: «Donna,
ecco tuo figlio!».
Poi disse al
discepolo: «Ecco tua madre!».
E da quell’ora il
discepolo l’accolse con sé.
Dopo questo, Gesù,
sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse
la Scrittura, disse:
«Ho sete».
Vi era lì un vaso
pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto,
in cima a una canna e
gliela accostarono alla bocca.
Dopo aver preso
l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!».
E, chinato il capo,
consegnò lo spirito.
(Qui si genuflette e di
fa una breve pausa)
-E subito ne uscì
sangue e acqua.
Era il giorno della
Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce
durante il sabato-era
infatti un giorno solenne quel sabato-, chiesero a Pilato
che fossero spezzate
loro le gambe e fossero portati via.
Vennero dunque i
soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati
crocifissi insieme con
lui.
Venuti però da Gesù,
vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe,
ma uno dei soldati con
una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.
Chi ha visto ne dà
testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice
il vero, perché anche
voi crediate.
Questo infatti avvenne
perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato
alcun osso».
E un altro passo della
Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui
che hanno trafitto».
-Presero il corpo di
Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi.
Dopo questi fatti
Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto,
per timore dei Giudei,
chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù.
Pilato lo concesse.
Allora egli andò e
prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo-quello che in
precedenza era andato
da lui di notte-e portò circa trenta chili di una mistura di
mirra e di áloe.
Essi presero allora il
corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi,
come usano fare i
Giudei per preparare la sepoltura.
Ora, nel luogo dove
era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un
sepolcro nuovo, nel
quale nessuno era stato ancora posto.
Là dunque, poiché era
il giorno della Parascève dei Giudei e dato che il sepolcro
era vicino, posero
Gesù.
Parola del Signore.
Meditazione personale
sul Vangelo di oggi.
Il <<processo>> è finito, ognuno ha avuto ciò che desiderava;
Pilato, inaspettatamente,
una pubblica dichiarazione di
affetto verso Cesare da parte dei sommi sacerdoti;
Caifa, dopo un’estenuante duello
sul filo del rasoio, la condanna per crocifissione
del Nazareno; Erode un’inattesa
attenzione da parte del prefetto.
Gesù è una piccola rotella in un
complesso mondo, in cui ognuno ha le sue
buone ragioni per farlo fuori.
Dio si usa, quando serve,
altrimenti è meglio sbarazzarsene.
Pilato allora decretò che fosse eseguita
la loro richiesta.
Rilasciò quello che era stato
messo in prigione per sommossa e omicidio, e che
quelli richiedevano, ma consegnò
Gesù alla loro volontà.
Gli uomini non fanno la volontà
di Dio.
Gesù, allora, è consegnato alla
volontà degli uomini.
Se non avessimo più di duemila
anni di predicazione e di Via Crucis alle spalle,
rabbrividiremmo, leggendo questa
annotazione di Luca!
La storia degli uomini è anche
segnata dal tentativo di convincere le divinità
a piegarsi ai nostri desideri,
alle nostre necessità.
La passione ci svela un Dio che
accondiscende alla volontà degli uomini, che,
però, è una volontà di morte.
Gesù viene condotto al patibolo
perché il volto di Dio che annuncia e rivela
è intollerabile, disturba,
scandalizza.
Troppo compassionevole, troppo
generoso, troppo amorevole, il suo Dio.
La religione, fino ad allora
usata come strumento per mantenere l’ordine costituito,
esce dagli schemi rigidi in cui
gli uomini religiosi l’hanno costretta, per diventare
un’esperienza personale,
interiore e comunitaria.
Con l’amore di un Dio benevolo e
sorridente. Un delirio.
Preferiamo tenerci il volto
corrucciato di un Dio antipatico ma potente,
indifferente ma schierato con le
nostre ragioni, all’occorrenza.
Gesù va eliminato, non c’è
dubbio.
Un profeta abitato dallo Spirito,
che ha compiuto solo opere di bene, che ha
smascherato l’ipocrisia nascosta
dietro alla devozione senza fede, che ha riletto
con passione e verità la Parola
data da Dio agli uomini, riportandola alla sua
origine, è certamente più
pericoloso di Barabba, omicida e sobillatore.
I giudei, presero
dunque in consegna Gesù.
Egli, portando la croce
da sé, uscì verso il luogo detto del Cranio, in ebraico
Gòlgota.
Pilato consegna Gesù a Caifa; si
forma un piccolo drappello, composto da soldati
romani e, forse, da soldati del
tempio.
Gesù, duramente provato dalla
flagellazione che, ricordiamo, poteva portare alla
morte, è caricato del patibolo,
una trave che gli è posta sopra le spalle sanguinanti
e legata ai polsi.
A questa trave, una volta
arrivati al patibolo, il condannato è inchiodato con due
chiodi, probabilmente passati nel
polso, conficcati nel legno e ripiegati, per poi
essere innalzato, sollevato da
quattro soldati, e appoggiato sopra un palo verticale
precedentemente fissato, alto non
più di due metri.
Il luogo dove Gesù è condotto è
il Gòlgota, una cava di pietra in disuso addossata
alla porta ovest della città.
Era abituale trovare delle cave
di pietra intorno a Gerusalemme; quella del Gòlgota
è abbandonata; probabilmente la
pietra non è di buona qualità, come rivelano gli scavi
sottostanti il Santo Sepolcro, e
qualcuno l’ha riadattata per scavare delle preziose tombe.
Il Gòlgota perciò confina con una
serie di ricche tombe scavate nella roccia e
circondate da un giardino.
Il tragitto che Gesù compie non è
lungo; dal palazzo di Erode al Gòlgota ci sono
poche centinaia di metri.
Lo segue una folla di persone;
chi lo ha condotto per essere giudicato e vuole essere
sicuro della sua morte, alcuni
discepoli, fra cui l’evangelista Giovanni, alcuni curiosi.
La crocifissione avviene fuori
della città; dentro le mura, infatti, sarebbe
impossibile, renderebbe impuro il
tempio.
Il sommo sacerdote Caifa deve
correre al tempio prima del tramonto; le minuziose norme
di purificazione che lo
riguardano non devono essere infrante per nulla al mondo;
certamente non esce dalla città
e, se assiste all’esecuzione di Gesù, lo fa dall’alto delle mura.
L’idea che Caifa, da lì a poche
ora, indosserà i solenni paramenti per uccidere
l’agnello pasquale, mi mette i
brividi.
È come se un prete pedofilo,
rovinasse un ragazzo e poi andasse a prepararsi
per celebrare l’Eucaristia.
Assiste alla morte di Dio, e
pensa di onorarlo offrendogli un agnellino, dopo
avergli massacrato il Figlio.
Spesso nella sua predicazione,
Gesù ha parlato di portare la croce, un modo di dire,
forse, derivato dall’esperienza
degli abitanti di Gerusalemme che assistevano a
numerose esecuzioni, con i
condannati che attraversavano la città portando il patibolo.
Gesù, usando anche l’immagine del
giogo del bue, indica la fatica dell’essere
discepoli, l’impegno che comporta
convertirsi alla visione di Dio che Egli inaugura,
lo sforzo per adeguarsi alla
logica del Regno.
Credere, ciò, comporta una morte
a se stessi, una fatica, ma anche una liberazione.
E, invece, questo modo di dire è
stato foriero di mille interpretazioni;
e di mille sensi di colpa.
Voglio ancora ribattere un’idea
per me fondamentale, visto che Gesù è morto per
proclamare, e che non smetterò di
ripetere, a costo di sembrare un paranoico.
Dio non manda le croci,
non le ama e ne farebbe volentieri a meno.
La sofferenza, la malattia, i
litigi, la depressione, un fallimento lavorativo,
non dipendono da Dio, ma da noi e
dagli altri.
Da noi, quando ci facciamo mille
giri di testa su cosa vorremmo o dovremmo
essere, e siamo sempre scontenti di
noi stessi e della nostra vita.
Dagli altri, quando si divertono
a farci tribolare per invidia o per malvagità.
O, ancora, dalla congiuntura
internazionale che ha mandato sul lastrico l’azienda
in cui lavoro, dall’inquinamento
atmosferico, che è all’origine del mio cancro,
da questa pandemia che ci ha
messo letteralmente in crisi e così via.
Gesù parla del discepolato come
fatica da assumere, non di un Dio sadico che,
avendola portata Lui, decide di
caricarci di una croce per vedere quando crolliamo!
Dio non ci manda la croce e,
potendolo, anche Lui ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Ma se la croce arriva, o perché
altri ci caricano o perché noi stessi ce la costruiamo,
allora bisogna portarla guardando
avanti, senza farsi schiacciare.
Conosco devoti, non voi, gli
altri, che quando sentono parlare della croce di Gesù
cominciano, davanti a Dio che
muore, a lamentarsi dei propri malanni o dei dispetti ricevuti.
Portare la croce non significa
alzarsi ogni mattina, piallarla, carteggiarla e verniciarla!
Per quanto dipende da noi,
evitiamo di caricarci di croci che non rendono in alcun
modo gloria a Dio e se, invece,
ne siamo caricati, allora portiamola uniti a Cristo.
Come Simone! Il Cireneo!
Mentre lo conducevano
fuori per crocifiggerlo, costrinsero un passante che
tornava dai campi,
Simone di Cirene, padre di Alessandro e Rufo, a portare la
croce di Lui.
Lo condussero, così, al luogo
detto Gòlgota, che significa luogo del Cranio.
Gesù non ce la fa proprio; la
tensione interiore, la notte insonne, l’interrogatorio,
la flagellazione, gli scherni, il
peso del patibolo!
Cade sul selciato e fatica a
rialzarsi.
Allora un soldato prende un uomo
a caso dalla folla, uno che torna dal lavoro e
che si ferma a vedere cosa
succede; (mai fermarsi a curiosare, può succedere anche
di prendere le colpe), slegano la
croce e la pongono sulle spalle di Simone di Cirene,
uno sconosciuto di passaggio,
(non sempre sono parenti e amici ad aiutarti).
Non un amico, un discepolo, un
compagno di avventura; uno sconosciuto.
Prendono uno che compie un gesto
forzato, senza entusiasmo, senza generosità,
imprecando in cuor suo, timoroso,
anche di essere anch’egli scambiato per un delinquente.
Un temporaneo compagno di
malasorte, come un vicino di letto in ospedale, o alla
mensa dei poveri, uno che ha in
comune con te solo la disperazione. Eppure.
Non sappiamo nulla di Simone.
Non sappiamo se quel quarto d’ora
passato a portare la croce di Gesù sia stato
qualcosa di più di un brutto
momento da raccontare, il giorno dopo, ai vicini di casa.
Così è la croce; non desiderata,
arriva quando meno te la aspetti, alla fine di una
faticosa giornata di lavoro.
No, Dio non ti manda nessuna
croce, nel caso di Simone sono i soldati romani
che gliela impongono.
Ma quel suo gesto obbligato, in
qualche modo, l’ha scosso, interrogato, cambiato.
Marco, raccontando il gesto di
Simone, non ne parla come di uno sconosciuto, ma
come del padre di Alessandro e
Rufo, due persone a lui note, probabilmente due
discepoli che frequentano la comunità
di Gerusalemme.
Il gesto di Simone è stato una
benedizione per lui e la sua famiglia.
Quando ci troviamo a portare la
croce, pensiamo che stiamo aiutando Cristo
a portarla, e che, così facendo,
lo aiutiamo a salvare il mondo, manifestando
la misura dell’amore di Dio.
E quel gesto, forzato, non bello,
non elegante, può fiorire nella nostra vita
interiore, e in quella di chi
amiamo.
Sulla strada che conduce fuori
dalla città, Luca ci racconta un curioso episodio,
denso e significativo, quello
delle donne piangenti.
In passato molti commentatori
hanno sottolineato la misericordia del Signore nei
confronti di queste donne,
immaginate come devote discepole affrante dal dolore.
Bello, poetico, finalmente
qualcuno che prova compassione davanti all’indurito
dolore del Nazareno.
E invece no.
Mi ha sempre lasciato perplesso
questa interpretazione.
Poi, qualche anno fa, leggendo il
testo delle meditazioni alla Via Crucis al Colosseo
scritte dall’allora Cardinal
Ratzinger, mi sono rasserenato; la pensiamo allo stesso modo.
No, quelle donne non sono delle
affrante discepole, ma una compagnia della buona
morte chiamata, forse, figlie di
Gerusalemme, che accompagnava i condannati a morte,
e che piangevano lacrime su chi,
normalmente, non aveva nessuno che piangeva per lui.
Il loro, è un pio atto di
devozione e di compassione. Falso!
Gesù non vuole lacrime finte,
vuole la conversione dei cuori, non ama l’apparenza,
vuole la sostanza, non le opere
caritative fatte una volta all’anno, ma un cuore
compassionevole sempre, non ha
bisogno di una claque che faccia partire l’applauso,
ma di discepoli che seguono il
Maestro nel dono di sé.
Gesù è gravemente ferito,
esausto, eppure trova la forza di reagire.
Le sue parole sono taglienti; non
ho bisogno delle vostre lacrime, tenetele per i
vostri mariti, che hanno permesso
di uccidere un innocente, conservatele per quando
la violenza genererà violenza, e
il vento seminato diverrà tempesta e tutto crollerà.
Gesù fa un servizio alla verità,
scuote queste pie donne dell’aristocrazia religiosa,
dal loro mondo dorato per
riportarle con i piedi per terra.
Piedi che pestano sangue.
Non sempre chi ti dà una carezza
ti vuole bene e chi uno schiaffo ti vuole
male, ricordiamocelo.
A volte, anche una frase forte,
uno schiaffo morale, può testimoniare un grande affetto.
Il corteo ha finito il suo
percorso, sono arrivati alla cava, al Gòlgota.
Gesù viene spogliato della
tunica, lo cinge un perizoma di cotone o lino,
che non gli viene tolto.
Abitualmente, nell’impero romano,
si era crocifissi nudi, ultimo segno di disprezzo,
come le povere vittime della
follia nazista che erano spogliate prima di entrare
nelle camere a gas, per avere un
lavoro di meno da compiere!
In Giudea pare di no; Roma non
aveva interesse a compiere gesti che la cultura
locale avrebbe considerato
provocatori.
Gesù è pronto per essere
inchiodato e innalzato.
Volevano anche dargli del vino
aromatizzato con mirra, ma Egli non lo prese.
Matteo parla di vino mischiato
con fiele, Marco di vino mischiato con mirra, ma la
sostanza non cambia; è un blando
anestetico, una misera forma di compassione per
stordire il condannato durante la
crocifissione, momento molto doloroso che comportava,
fra le altre cose, la frattura di
alcune ossa del polso e del legamento del pollice.
Gesù rifiuta la bevanda,
probabilmente vuole restare lucido fino in fondo.
Vuole mantenere la consapevolezza
e la coscienza di sé per ciò che sta compiendo.
Non è facile raggiungere la consapevolezza
e la coscienza delle cose che si
vivono, nella vita.
La fede, quella vera, ci può
aiutare molto in questo percorso.
Più spesso, durante i momenti di
dolore siamo completamente storditi e poco lucidi,
e rischiamo di prendere delle
decisioni avventate.
Gesù ha piena consapevolezza di
ciò che accade.
I suoi carnefici, secondo Lui,
no.
È Luca a riferire questo
particolare che mette i brividi.
Quando giunsero sul posto, detto
luogo del Cranio, là crocifissero Lui e i due
malfattori, uno a destra e
l’altro a sinistra.
Gesù disse: “Padre,
perdona loro, perché non sanno quello che fanno”.
Siamo al momento più tragico; i
condannati sono slegati, distesi, in terra, due soldati
tengono fermo il disgraziato
mentre un terzo, con un grosso martello, gli conficca
un chiodo lungo una ventina di
centimetri, poi viene fatto alzare e tirato su per le
gambe e incastrato al braccio
verticale.
A questo punto gli si piegano le
gambe e un altro chiodo è conficcato unendo
i piedi, tenuti sovrapposti.
La posizione del crocifisso è
innaturale e dolorosa; la maggior parte del peso del
corpo è sostenuto dai polsi,
trafitti dai chiodi; la posizione irrigidisce i muscoli
pettorali che, contraendosi,
impediscono di respirare correttamente.
Istintivamente il crocifisso fa
leva sui piedi per alzarsi di qualche centimetro
e respirare, per poi ricadere,
sopraffatto dal dolore dei piedi trafitti.
Una tortura inaudita.
In quel momento, mentre è
inchiodato e innalzato, Gesù pronuncia la frase più
forte dell’intera passione:
“Padre perdonali, non sanno quello che fanno”.
Non solo li perdona; li
giustifica, anche.
Non è vero; sanno benissimo
quello che fanno, ma il Signore sovrabbonda di
grazia, è capace di capire le
ragioni (malvage) dei suoi assassini.
Gesù perdona chi lo sta
uccidendo, come ha chiesto di fare ai suoi discepoli.
Ama i suoi nemici.
Questa è la misura senza misura
dell’amore di Dio.
È difficile perdonare, difficile
perdonarsi.
Non si può dimenticare; il
perdono non è un’amnesia.
E il perdono non riguarda
l’emozione, ma la volontà; possiamo perdonare ma
restare turbati quando
incontriamo chi ci ha fatto del male.
E non si perdona perché migliori,
o perché l’altro cambi con il nostro perdono;
si perdona perché figli del Padre
che fa piovere sopra i giusti e i malvagi.
Perdoniamo perché noi abbiamo
bisogno di perdonare, non perché l’altro si
meriti il perdono.
Ed è meglio perdonare come si
riesce, senza aspettare un perdono perfetto.
Provo disagio quando alcuni
cronisti si avvicinano ai genitori di una vittima e
parlano di perdonare; come è
anche solo immaginabile pensare di perdonare
l’omicida di tuo figlio il giorno
dopo il funerale!
Ci vogliono anni per maturare la
decisione di andare oltre, di augurare a chi ti
ha ferito non il male, ma la
conversione.
Anni, eccetto che per Gesù, che
ha già maturato il perdono.
Dio perdona sempre, senza porre
condizioni, sperando nella conversione di chi perdona.
Dev’essere un particolare
importante se tutti parlano della tunica.
Gesù viene spogliato delle vesti,
ovvio.
Perché dirlo, allora?
E perché con così tanta
insistenza?
Probabilmente gli evangelisti
indugiano sul particolare della divisione delle
vesti perché colpiti dal fatto
che un salmo, il ventidue, ne parla.
O forse, per sottolineare il
disprezzo dei soldati che prendono la veste, intrisa
di sangue, inutilizzabile, per
stracciarla in quattro parti.
Sono due le vesti, quindi; una
tunica preziosa, di qualità, tessuta tutta d’un pezzo,
e un mantello, che viene fatto a
pezzi dai soldati.
La tunica resta intatta. Che
significa?
I Padri della Chiesa hanno visto
in questa tunica l’immagine della Chiesa che
non deve essere divisa per
nessuna ragione.
I discepoli corrono il rischio di
stracciare l’unità, prezioso dono di Cristo
morente in croce.
Forse alle tensioni nate fra la
comunità di Gerusalemme,
legata a Giacomo, più
conservatore, e quella fondata da Saulo?
Non lo sappiamo.
Certo è che il dono prezioso
dell’unità, più e più volte lacerato nel corso
della storia, va conservato.
In parrocchia, nei movimenti,
nella Diocesi, quando lasciamo prevalere la
divisione, lo scontro,
ricordiamoci che stiamo lacerando la tunica di Cristo.
Ecco, Gesù è appeso, pende dalla
Croce.
Gli evangelisti spostano
l’attenzione da Lui a chi lo circonda; la folla, i capi, i soldati.
Il luogo della crocifissione è
vicino all’ingresso della città e la folla numerosa,
che affretta il passo per
entrare, visto il repentino cambiamento del tempo,
vede questi disgraziati e
commenta.
Il popolo sta a guardare; è stato
coinvolto, in precedenza, per spingere Pilato
a crocifiggere Gesù.
Gli è stato fatto credere di
essere essenziale, in realtà il popolo è stato manovrato
da interessi politici e religiosi
e, ora, è inerme, assiste.
Quanto possiamo essere
manipolati!
Per incitare una nazione a
scatenare una guerra, o ad acquistare un prodotto,
o a eleggere un candidato
politico; il popolo, la “gente”, come si dice oggi,
è coinvolta solo se serve e,
quasi sempre, è usata per raggiungere finalità
personali e private, non il bene
comune.
Noi ne abbiamo la prova in questo
anno, a causa della pandemia, siamo
costantemente manipolati da
giornali e televisione, nonché anche da medici
dediti a terrorizzarci in TV ogni
santo giorno.
Il discepolo, invece, non fa
parte di una folla, ma di una Chiesa, un popolo di
radunati-da-Dio, di convocati,
chiamati a essere protagonisti della storia di Dio,
a fare gli attori, non le
comparse.
Forse pochi lo sanno che, alla
domenica quando andiamo ad assistere alla Santa Messa,
siamo noi i protagonisti, il
celebrante all’inizio della celebrazione dell’Eucaristia
ci chiede di poterlo fare, ci
chiede il nostro consenso, siamo noi che celebriamo la
Santa Messa e non lo sappiamo,
lui la presiede, ma i protagonisti siamo noi.
Quanta grazia!
La folla è stata usata; ora
assiste alle conseguenze della propria barbarie, inerme, spenta.
Tutti i presenti sono d’accordo.
I capi del popolo giudaico, i
soldati romani, il ladro; per mostrare di essere il Cristo,
Gesù deve salvare se stesso.
Per dimostrare di essere Dio,
Gesù deve fare l’egoista.
È giusto; Dio non è forse il
sommo egoista bastante a se stesso?
Il totalmente realizzato, il
compiuto, l’inarrivabile?
Allora, per dimostrare di essere
il Figlio di Dio, Gesù deve salvare se stesso!
No, invece, Gesù non salverà sé.
Salva me, salva tutti noi.
La sconcertante novità del
cristianesimo è la scoperta di un Dio che vive in
relazione all’altro, che non è il
motore immobile, ma che è Trinità, comunione,
relazione, festa e famiglia.
Gesù non salva se stesso; salva
l’umanità, donando se stesso.
E ci apre una prospettiva
sconosciuta e inattesa della vera identità di Dio.
Matteo è meno raffinato, ma
altrettanto efficace.
La folla, i sacerdoti, i ladroni,
sbeffeggiano Gesù, lo ridicolizzano.
Non ha potenza, non ha efficacia
la sua profezia, non è capace nemmeno di salvarsi,
altro che distruggere il tempio!
A Gesù è proposta una specie di
compromesso; non sono bastati i tanti miracoli
compiuti, le parole, i gesti.
Deve ancora compiere un miracolo,
il più eclatante; scendere dalla croce: “Il Cristo,
il Re d’Israele, scenderà ora
dalla croce, affinchè vediamo e crediamo”.
A quel punto, certo, tutti si
convertiranno.
Per convertirsi, la folla chiede
a Gesù di evitare la croce.
Buffo, potevano evitargliela
loro, la croce.
Invece lo hanno crocifisso per
vedere se scende dalla croce.
Contraddizione della stupidità
umana!
Gesù non ama la croce, non l’ha
desiderata, l’ha assunta, non ha potuto evitarla.
Come le tante persone che si
trovano inchiodate a una croce senza scegliere, senza
poter fuggire, (una malattia, un
lutto, una depressione), Gesù non scende, non fugge,
non vuole sconti, accetta fino in
fondo di condividere il destino degli sconfitti e
degli ultimi, dei perdenti di
tutti i tempi.
Al condannato veniva appeso al
collo una tavola in legno, riportante la ragione
della condanna a morte.
Nel caso di Gesù questo cartello
è posto sopra la croce, dal che gli storici
deducono che la croce fosse nella
forma che tutti conosciamo, non a “T” detto
Tau, come abitualmente era.
Giovanni, però, fa una
precisazione riguardante il titolo della condanna.
È l’ultimo schiaffo di Pilato al
Sinedrio, una spietata burla nei confronti dei
sacerdoti; hanno voluto che il
Nazareno fosse condannato a morte per il reato
di lesa maestà, visto che si era
spacciato per Messia, cioè per il re dei giudei.
Bene; che tutti sappiano, allora,
che Gesù è, appunto il re dei giudei.
Il cartello appeso sopra la croce
è un’offesa ai giudei che passano; ma come,
quel poveraccio è il loro re?
E Roma mette in croce il loro re?
A quel punto Caifa capisce la
gaffe che ha fatto, va da Pilato per convincerlo
a togliere il titolo.
Come il gatto fa con il topo,
Pilato, ovviamente, si rifiuta.
La scritta è in tre lingue, per
essere ben letta da tutti (aramaico, latino e greco).
Giovanni, ancora una volta, osa
svelare la trama che ha fatto comprendere gli
eventi agli uomini; davvero Gesù
è il Re dei giudei, e questa regalità, ora, sarà
riconosciuta da tutti i popoli.
Ecco il nostro Re, discepoli, il
nostro sovrano; invece del trono, ha una croce,
non indossa una corona preziosa,
ma una fatta di spine, non uno scettro, ma una
canna con cui è stato percosso.
Ecco il nostro Re; talmente
sfigurato e irriconoscibile da necessitare di un cartello
che lo identifichi.
Un perdente. Un folle.
Uno che ha bisogno di tutto.
Chiedo; lo vogliamo davvero un
Dio così?
Sul serio? Ne dubito!
Noi che cerchiamo un Dio che ci
appoggi, che ci sostenga, potente, efficace,
interventista, lo vogliamo
davvero un Dio così?
Pensiamoci bene, e riflettiamo su
quello che andiamo a leggere.
Ora è arrivato il momento del
buon ladrone!
È una delle figure più simpatiche
e conosciute dell’intero Vangelo; uno dei
condannati assieme a Gesù,
secondo Luca, invece di insultarlo e di chiedere
un aiuto, elemosina un ricordo.
Una pagina struggente,
straordinariamente, tenerissima.
Chiama Gesù per nome, senza
aggiungere titoli.
È l’unico caso in tutti i Vangeli
in cui si usa il nome di Gesù senza alcuna aggiunta.
È l’esperienza nuda e cruda
dell’umanità del Signore; sulla croce Egli si è
spogliato di ogni veste regale,
di ogni titolo, di ogni ruolo.
La sofferenza è un’esperienza che
annulla le differenze.
E il ladro lo riconosce come
tale, come uomo che soffre.
Non chiede salvezza; le sue mani
grondano sangue, non vuole una soluzione
all’ultimo secondo.
È turbato il ladro, perché vede
un innocente che muore!
Ha un alto senso della giustizia;
tutto sommato lui si merita quella fine,
quel Nazareno no.
Zittisce il compagno che insulta
Gesù e gli chiede un ricordo.
Abbiamo paura di essere dimenticati,
di non contare, di passare nella nostra
vita terrena senza lasciare
alcuna traccia.
La Bibbia ci rassicura.
Sion diceva: “Il Signore mi ha
abbandonato, il Signore mi ha dimenticato.
Forse che la donna si dimentica
del suo lattante, cessa dall’aver compassione
del figlio delle sue viscere?
Anche se esse si dimenticassero,
io non ti dimenticherò.
Ecco, ti ho descritta sulle palme
delle mie mani, le tue mura sono sempre
al mio cospetto”.
Il ladro, come ogni uomo, chiede
un ricordo.
Accetta, Gesù, e gli promette di
più; gli promette il paradiso.
Secondo la tradizione, il ladro
si chiama Disma, e nell’ultimo istante della sua vita
è riuscito a scroccare la grazia
del perdono al Signore, ecco la misericordia di Dio.
Il paradiso, nel Vangelo, è la
beatitudine dell’esperienza di Dio, il farne esperienza.
Il ladro, il reietto, il
peccatore, il violento, sperimenta la presenza di Dio.
È la misericordia che dilaga, nel
Vangelo di Luca; il ladro sperimenta in anticipo la salvezza.
Perché! Perché ha creduto.
Dio desidera la nostra salvezza,
quando lo capiremo?
Desidera il nostro bene, senza
porre condizioni.
Del ladro non abbiamo conservato
il nome, ma solo quell’aggettivo, buono,
che ne delinea il carattere.
Buon ladrone, nel senso di
ladrone con il cuore compassionevole.
Ma buon ladrone anche nel senso
di abile.
Gli è riuscito il colpo più
spettacolare della sua carriera; ha rubato il paradiso.
Ed ecco la Madre.
I minuti passano, poi le ore.
I lamenti dei condannati
diminuiscono, la loro voce si affievolisce.
Non hanno nemmeno la forza di
lamentarsi, il dolore ormai li stordisce, tutto
il corpo si rattrappisce intorno
a quei chiodi da cui pendono.
Anche la folla si dirada; si
tratta di entrare in città per preparare la pasqua,
mentre nel tempio, da qualche
ora, si sacrificano gli agnelli della pasqua.
I sacerdoti se ne sono andati,
lasciando qualcuno a vedere l’epilogo, per
preparare la solenne liturgia nel
tempio.
I soldati romani allentano la
guardia.
Ad alcune persone, i famigliari
più stretti, si permette di avvicinarsi ai condannati.
È questione di poche ore e tutto
sarà finito.
Fra i presenti, i pochi presenti,
c’è l’autore del quarto Vangelo, il Giovanni forse
sacerdote che ha ospitato Gesù
durante la Cena.
Non ha da temere ripercussioni
come gli altri discepoli della prima ora che sono
fuggiti a gambe levate;
dev’essere un personaggio importante.
Ha assistito al processo, ha
seguito Gesù al Gòlgota.
Ora sappiamo che, insieme a lui,
c’è Maria, la Madre del Signore.
Quando è giunta a Gerusalemme?
Non lo sappiamo.
Sappiamo che, nel momento più
terribile, è presente.
È difficile assistere alla morte
di una persona che si ama.
Tragico, vedere la morte di un
figlio.
Insostenibile, vedere la morte
orribile di Gesù.
Maria è presente, sotto la croce,
insieme ad alcune altre donne.
Nessun angelo a cantare la gloria
di Dio, ora, nessuna rassicurante apparizione.
Eccola lì, la promessa di Dio.
Eccolo il Salvatore.
L’aveva accolto con timore e
gioia, nel suo grembo, molti anni prima.
Gli aveva insegnato a camminare,
a parlare, a pregare.
Lo aveva visto crescere, farsi
uomo.
Aveva atteso con ansia la sua
partenza, chiedendosi, davanti al suo
temporeggiare, se non si fosse
sbagliata. Poi!
Arrivano le prime notizie da
Cafarnao, da Cana, da Magdala.
Notizie portate in paese dai
mercanti, che parlano del falegname divenuto profeta.
Poi Gerusalemme, le prime
difficoltà, l’ostilità aperta dei sadducei e dei farisei.
Infine la notizia, giunta chissà
come a Nazareth, dell’imminente arresto di Gesù.
Eccola, la Madre.
Dov’è, ora, la promessa di Dio?
Dove?
Si era forse illusa?
Si era sognata una chiamata
inesistente?
Scrive Giovanni. Le donne stanno.
Meglio; dimorano irremovibili,
tengono duro, non cedono.
Maria, la Madre, dimora nella
fede, non cede.
In quel momento, tutto il Regno
di Dio è rappresentato da quelle poche donne
radunate intorno alla Madre.
C’è bisogno di donne, quando
serve la costanza irremovibile.
Gesù, con un soffio di fiato,
vede la Madre e Giovanni, e gliela affida.
Donna, dice.
Come a Cana, prima del miracolo,
la chiama donna.
Non è più sua Madre, da tempo
l’ha donata, come Lei ha donato Lui.
Si sono fatti dono reciproco.
Come dovrebbe essere in ogni
relazione d’amore.
Secondo la tradizione Giovanni,
da quel giorno, prese e portò con sé Maria.
Da quel giorno, ogni discepolo
del Signore sa che può prendere Maria
con sé, come discreta presenza
nel suo percorso di vita interiore.
Ed ecco la morte.
Il vento del mare sta portando
nubi che si fanno minacciose, cariche di pioggia.
La gente che entra in città
affretta il passo per non farsi sorprendere dal
temporale imminente.
Tutti gli evangelisti annotano
questo repentino cambio di tempo.
Dall’ora sesta fino all’ora nona
si fece buio su tutta la terra.
Il cielo si scurisce, come se
anche la natura partecipasse all’agonia di Dio.
Tutto è nuvoloso e buio, come il
cuore delle persone che hanno partecipato
alla crocifissione.
Si fa buio, da mezzogiorno fino
alle tre del pomeriggio.
Quell’annotazione temporale è
colma di speranza; ha un limite la tenebra,
non può albergare per sempre, nei
nostri cuori.
Da mezzogiorno alle tre, ecco i
confini entro cui può abitare la disperazione,
non un minuto di più.
Fratello che soffri, sorella
dilaniata dalla solitudine e dalla depressione,
il tuo dolore ha un confine, non
ti disperare.
Il silenzio è irreale, i
condannati sono immobili, respirano a fatica, non dicono
una parola.
Anche chi piange, ormai, ha
esaurito le lacrime.
I caldi colori della Giudea si
sono stinti in un grigio sempre più scuro.
Gesù, con un soffio di voce,
parla.
Ha sete!
Sete di amore, di pace, di
giustizia, sete della nostra fede.
Solo sete!
Il nostro è un Dio assetato
d’amore, come noi, sperimenta il limite di un
desiderio quasi sempre
insoddisfatto, di uno slancio arrestato, di un anelito
senza soddisfazione.
Ha sete, come ha avuto sete
aspettando che la fede della Samaritana lo dissetasse.
Ha sete colui che può dissetare
chi cerca la felicità e il bene, come aveva detto al tempio.
L’ultimo giorno, quello solenne
della festa, Gesù stava in piedi e proclamava
a gran voce: “Se qualcuno ha
sete, venga a me e beva.
Colui che crede in me, come disse
la Scrittura; dal suo ventre sgorgheranno
fiumi di acqua viva”.
Ha sete della mia fede, della
nostra fede.
Ed ecco le sue ultime Parole.
Sono quattro versioni diverse,
molto diverse, forse troppo.
Quali parole ha pronunciato Gesù
sulla croce?
Quali sono state le sue ultime
parole?
Ogni evangelista dà la sua
versione.
Forse Gesù le ha pronunciate in
tempi diversi, non lo sappiamo.
Ogni evangelista, però, ha
ritenuto quelle che più lo hanno colpito.
Marco è diretto e asciutto, come
al suo solito: “Ma Gesù, emesso un grande
grido, spirò”.
Gesù grida.
Il suo è un ultimo agghiacciante grido
di dolore, che svela la sua partecipazione
assoluta al destino degli uomini.
Un grido che è un disperato
soffio di vita, impressionante, messo in bocca a Dio.
Ecco, Dio ora conosce tutto,
anche il nulla.
Come se sapesse tutto del niente,
e niente del tutto che ha creato.
Restiamo interdetti, senza
parole, davanti alla misura di questo dono senza misura.
Il nostro ragionamento entra in
corto circuito, davanti all’ampiezza di questo mistero.
Dio conosce la disperazione,
perché nessun uomo possa sentirsi abbandonato.
Ha preso l’ultimo posto, perché
nessuno possa sentirsi ultimo.
Matteo approfondisce e dilata la
riflessione.
Gesù cita un salmo, il ventidue.
Lo grida.
A volte anche un grido diventa
preghiera.
Gesù conosce i salmi, lo hanno
accompagnato nella sua crescita interiore,
nella presa di consapevolezza
della sua identità.
Li ha ascoltati, cantati come
ninna nanna dalla Madre, quand’era piccolo,
li ha recitati nella sinagoga di
Nazareth, in età adulta.
Ha pregato con la Parola stessa
di Dio, ha fatto scaturire dal di dentro la Parola
che lungamente aveva assaporato
durante la meditazione personale.
Prega, Gesù, le sue ultime parole
sono un grido di angoscia, una richiesta d’aiuto.
Un’accusa verso Dio, ma detta con
le Parole stesse di Dio.
Dio non ha bisogno di applausi o
di carezze, o di timori reverenziali.
Accetta ogni parola, ogni grido,
ogni bestemmia, se esprimono verità e richiesta di aiuto.
Gesù muore pregando.
È un’accusa, la sua, una
disperata richiesta di aiuto, ma è usata come una preghiera.
Chiede a Dio perché non c’è,
perché non si fa presente.
Vorrei fosse così anche per me.
Vorrei poter dire, come ultima
parola, quell’Abbà, che ha così lungamente
riscaldato il mio cuore bucato.
E la preghiera è un
interrogativo; Dio si chiede perché Dio l’abbia abbandonato.
Come se, per un attimo Dio
diventasse incredulo.
Incredulo per quanta solitudine
l’uomo può sperimentare, solitudine che Dio,
per sempre, assume.
Da ora, e per sempre, nessun
Cristo morirà disperato.
Nessuno può più perdersi, ora che
Dio si è perso.
La folla pensa che Gesù invochi
Elia.
Sarebbe un bel finale, degno di
un film americano; Gesù che scende dalla croce
per mezzo di Elia.
È già venuto Elia, ma anche il
Battista, e hanno fatto fuori anche lui, non siamo ridicoli.
Luca, che si è informato, sceglie
un’altra delle affermazioni di Gesù.
E Gesù, gridando a gran voce:
“Padre, nelle tue mani raccomando il mio
spirito”.
Luca conferma che Gesù muore
pregando.
Si affida, si dona, sa bene in
chi ha posto la sua fiducia e il suo destino.
Lo dice ad alta voce, vuole che
tutti sappiano che fra Lui e il Padre c’è un
legame di fiducia totale, di dono
di sé.
Ma è Giovanni, al solito, a dare
un colpo d’ali, forse perché era sotto la croce.
L’ultima parola di Cristo in
croce non è un grido, né un salmo di disperazione
o uno di fiducia.
È l’affermazione di una missione
compiuta, quella affidatagli dal Padre.
Quando ebbe preso l’aceto, Gesù
disse: “Tutto è compiuto” (Giovanni 19,30).
Ciò che andava fatto è stato
fatto, ora sta al Padre continuare.
Abbiamo tutti una missione da
compiere, una missione d’amore che Dio ci affida
al momento della nostra nascita,
un tesoro nascosto da scoprire e da condividere.
Non pensate subito a grandi
opere, o a scoperte straordinarie; a volte sono piccole
le cose che danno senso alla vita
e che salvano il mondo.
Ecco; Gesù ora, ha terminato il
suo percorso.
Ciò che poteva fare è stato
fatto.
È tempo di morire. Finalmente!
E con un ultimo sospiro, Spirò!
Ha lottato duramente per
parecchie ore, ma il suo corpo è debilitato, prostrato,
non vuole più combattere.
La terribile macchina della croce
ha sortito il suo effetto; la respirazione è
affannosa, i polmoni sono stretti
dai muscoli irrigiditi, le gambe non riescono
più a sollevarsi per placare la
fame d’aria, il cuore cede, Gesù muore.
Ma Gesù emise di nuovo un forte
grido ed esalò lo spirito (Matteo 27,50).
Muore; restituisce lo spirito che
ci tiene in vita, quel soffio che ci rende partecipi di Dio.
Ora esce, esala.
Giovanni dice; lo rende, lo dona.
Lo Spirito, che è dono di Dio, ci
è donato sulla croce, ultimo dono di Gesù ai credenti.
Anche morendo, Gesù compie
un’opera di vita, una nuova creazione.
La sua non è una fine, ma un
nuovo cosmo che sta per prendere vita.
Gesù è morto.
Nel tempio, decine di sacerdoti,
a ritmo sostenuto, sgozzano decine di migliaia
di agnelli, per offrirli al
Signore e restituirli ai proprietari che li avrebbero cotti
al fuoco di brace e mangiati
insieme alle erbe amare, un agnello per famiglia,
da consumare tutto, senza
avanzarne.
Anche l’Agnello di Dio, ora,
pende, senza vita.
Sono Marco e Matteo che
riferiscono il particolare, all’apparenza insignificante.
Allora il velo del tempio si
squarciò in due, dall’alto fino al basso (Marco 15,38).
Il tempio era un complesso
sistema di edifici, infilati l’uno dentro l’altro come
un gioco di scatole cinesi.
Al centro, nel luogo più
inaccessibile, troneggiava il Santo dei Santi, un alto
edificio con una sola apertura,
circondato da una serie di cortili e di alte mura.
Al suo interno si trovavano due
ambienti; un atrio e il Santo vero e proprio, che
al tempo di Salomone, custodiva
l’arca dell’alleanza contenente le tavole della
legge, il bastone di Aronne e un
po’ di manna.
Da tempo, tutto ciò era stato
depredato, e il Santo dei Santi era vuoto, con
grande stupore dei romani che lo
violarono.
Ma era comunque il luogo
inaccessibile, il luogo della gloria di Dio, abitato dalla
sua presenza.
Luogo cui poteva accedere solo il
sommo sacerdote, una volta all’anno,
per versare il sangue del
sacrificio, il giorno dell’espiazione.
Quel luogo era diviso dall’atrio
da un pesante tendaggio, lungo dal soffitto
al pavimento.
Quel velo, annotano gli
evangelisti, si strappò, dall’alto in basso, da Dio
all’uomo, dal mistero
all’evidenza.
Dio non è più inaccessibile, è
osteso, evidente, appeso.
Dio non è più misterioso, non
dimora in un luogo inaccessibile, non è più altrove,
è qui, raggiungibile,
incontrabile, lo possiamo vedere, sfiorare, accarezzare.
Il capovolgimento è compiuto; il
sommo sacerdote volge lo sguardo al Santuario,
al Santo dei Santi,
definitivamente vuoto.
Così come la nube della presenza
di Dio abbandonò il tempio per seguire il popolo
deportato in esilio, ora, e per
sempre, Dio abbandona il tempio di pietra per
condividere la morte dei
malfattori.
La Croce, ora, è il tempio.
Quell’atroce strumento di tortura
e di morte, ora, è il luogo della gloria di Dio.
Lo diventa perché altare della
manifestazione, della misura dell’amore di Dio,
lo diventa perché ostende e
realizza pienamente l’assoluto di Dio.
Tutto è compiuto.
Gesù ha dato tutto, goccia dopo
goccia, stilla dopo stilla. Tutto!
Chi ha assistito esprime
sentimenti diversi.
I sadducei, di feroce
soddisfazione, certi di avere fatto una cosa giusta.
I discepoli, di silenziosa
disperazione.
Alcuni presenti, di turbamento e
di conversione. E noi?
Il primo a testimoniare stupore è
il centurione romano.
Un ufficiale abituato alla
violenza, che serviva Roma anche in quei frangenti
così spietati e sgradevoli.
Non sappiamo nulla di lui; ha
gestito il picchetto di soldati di complemento
per la crocifissione, ha
osservato l’agonia dei condannati.
Marco ci dice che si è posto di
fronte a Gesù, lo ha lungamente osservato,
è rimasto turbato, scosso.
Ne ha visti morire, di
malfattori.
Li ha visti urlare come delle
bestie scannate, contorcersi, nudi, intorno ai chiodi
insanguinati, li ha sentiti
piangere, bestemmiare, singhiozzare come dei bambini.
Ha fatto l’abitudine a quello
spettacolo atroce, a quella morte oscena.
Gesù no, non ha inveito, ha
pronunciato parole di perdono, è morto come mai
egli ha visto morire un
crocifisso.
E il centurione che gli stava di
fronte, vistolo spirare gridando a quel modo,
esclamò: “Davvero quest’uomo era
Figlio di Dio!”.
La sua professione di fede è la
professione di fede della comunità di Marco.
Siamo chiamati a riconoscere in
Gesù il Figlio di Dio non quando le cose
vanno bene, ma ora, quando la
divinità è nascosta, mascherata, offuscata.
Siamo chiamati a credere che quel
poveraccio sfigurato e spezzato è il
creatore del mondo.
È Dio, non perché perdente, ma
per come è morto, donandosi fino in fondo,
vivendo ciò che ha detto nei
brevi anni della sua vita pubblica.
Siamo tutti bravi a parlare,
tutti santi e moralisti, quando si tratta di dare consigli.
Ma quando siamo messi a dura
prova, allora esce fuori il meglio o il peggio
di noi stessi.
Gesù testimonia che è esattamente
ciò che ha detto di essere.
La sua è una morte coerente,
esemplare, inattesa, luminosa.
È poco probabile che il
centurione, abbia pronunciato quelle esatte parole.
Con maggior precisione Luca
riporta.
Il centurione, vedendo
l’accaduto, glorificava Dio: “Certamente quest’uomo
era giusto”.
La morte del giusto, il clima di
perdono che è riuscito a portare in quell’inferno,
dice Luca, rendono gloria a Dio.
Il pagano romano invoca Dio e lo
pensa presente, vedendo quella morte.
I nostri gesti, compiuti con
giustizia, la nostra capacità di perdono, la nostra
benevolenza, rendono gloria a
Dio, avvicinano le persone al mistero della redenzione.
La nostra vita di fede illumina
anche chi ci sta accanto, se vissuta con
autenticità e passione.
La folla manipolata, quella che,
all’ingresso di Gesù a Gerusalemme gridava
Osanna; quella che, sospinta dai
sadducei e dai capi religiosi ha richiesto la
crocifissione di Gesù, quella
che, silenziosa e muta, assiste alla morte del profeta,
ora reagisce in maniera diversa.
Ha preso consapevolezza di sé, è
tornata sui propri passi, non è più condotta da altri.
La folla, ora, è meditabonda e
silenziosa.
Anche tutti quelli che erano
convenuti per questo spettacolo, davanti a
questi fatti se ne tornano a casa
battendosi il petto (Luca 23,48).
Hanno partecipato ad uno
spettacolo, una manifestazione.
Come la folla radunata
dall’imperatore al Colosseo assisteva ai giochi, ai massacri
fra gladiatori, alle lotte fra
uomini e belve; un’orgia di violenza, di sangue, di follia.
Ma questo spettacolo è stato
inatteso, diverso, completamente diverso.
Meditando il mistero della croce,
anche noi possiamo tornare sui nostri passi
percuotendoci il petto, cioè
rianimando il nostro cuore, scuotendolo, allargandolo
alla misura di Dio.
Tutti noi possiamo assistere
sulla via Crucis, allo spettacolo di un Dio che
muore per amore.
E convertirci. Io per primo,
amici.
Sia Marco sia Luca annotano un
particolare sui discepoli; tutti i suoi amici e
le donne che lo avevano seguito
fin dalla Galilea se ne stavano lontano,
osservando tutto ciò che accadeva
(Luca 23,49).
Non tutti sono fuggiti.
Alcuni, anche se da lontano,
hanno continuato a seguire Gesù.
Nel momento della prova può
succedere di allontanarsi dal Signore, di essere lontani.
L’importante è non perdere di
vista il Signore, seguirlo, anche solo con la
coda dell’occhio.
Per sapere dove l’hanno messo e
tornare da Lui, anche se lo consideriamo,
ormai, un cadavere.
Fratello in crisi, che fatichi a
credere, che sei stato masticato, come gli apostoli,
segui il Signore, anche se da
lontano, non andartene.
Matteo esagera, si allarga, e sa
di farlo.
State sereni; la sua è
un’annotazione teologica, non storica.
Richiama i segni degli ultimi
tempi, della manifestazione di Dio al popolo
di Israele, e allora, come fanno
i pescatori che raccontano della loro pesca,
esagera un pò.
Il linguaggio che usa ha a che
fare con i profeti apocalittici, è come se Matteo
dicesse; davvero il Messia è
venuto, e si rivela morendo in croce, anche il
cosmo riconosce la sua presenza.
Mi piace, calcare la mano,
meditando la passione, anche a noi può succedere di
subire un terremoto interiore, di
veder spaccare in noi la pietra che ci impedisce
di gioire, di uscire dai sepolcri
in cui ci siamo sepolti, di lasciar venir
fuori il santo che c’è in
ciascuno di noi.
La presenza del Signore,
credetemi, è una potenza, una forza che costruisce,
che scuote, che rianima, che
sbalordisce.
Ciò che Matteo descrive come
evento messianico è evento che può scatenarsi
nel discepolo che assiste allo
spettacolo, guardando di fronte Gesù che muore,
come il centurione.
L’ora del tramonto si avvicina, e
con esso l’inizio solenne della festa di pasqua.
Non si possono lasciare i
condannati in croce, la cosa contravviene alla legge,
bisogna accelerare la morte.
Il metodo è semplice e crudele;
con un colpo di bastone alla tibia, i soldati
frantumano le ossa delle gambe,
impedendo al condannato di rialzarsi a prendere aria.
La morte per asfissia
sopraggiunge in pochi minuti.
Giovanni descrive minuziosamente
l’orrenda procedura.
Arrivati da Gesù, i soldati
vedono che è senza vita.
Per sicurezza, un soldato gli
assesta un colpo di grazia, un colpo di lancia dato quasi
in orizzontale, sotto il costato,
a destra, un colpo che, normalmente, trapassava il cuore.
Molti studiosi, quasi tutti
anatomopatologi, hanno cercato di interpretare il racconto
di Giovanni, per capire cosa sia
successo.
Gesù, morto, ha iniziato il
processo di coagulazione del sangue, che divide la
parte liquida da quella solida.
Il soldato colpisce una zona di
accumulo del sangue, forse il pericardio, o la pleura,
che si svuota come un palloncino
riempito d’acqua, lasciando vedere il siero
(l’acqua) e la parte ematica (il
sangue).
Giovanni lascia intendere che
quella divisione, sangue e acqua, ha una rilevanza,
richiama la salvezza e la
redenzione, la croce e il battesimo.
La solennità con cui Giovanni
racconta l’intera scena è un invito ad andare al di
là degli eventi; quella a cui
abbiamo assistito non è la morte di un poveraccio ucciso
per interessi politici e religiosi,
ma il compimento delle profezie riguardanti il Messia.
Il particolare della tunica,
delle ossa non spezzate e della fuoriuscita del sangue e
dell’acqua sono, per Giovanni, la
manifestazione della profezia riguardante il Messia.
Solo chi conosce la Scrittura e
ha il cuore aperto al soffio dello Spirito, sembra
dire Giovanni, può accorgersi di
chi sia veramente quell’uomo trafitto.
Così accade anche oggi; solo chi
ha il coraggio di seguire Gesù nelle sue ultime ore,
senza fuggire come il giovinetto
scandalizzato nell’orto, o come i discepoli, ma
dimorando sotto la croce, può
capire chi è veramente colui che pende dalla croce.
E inorridire. O cadere in
ginocchio.
Ecco tutto è compiuto.
Dio si è definitivamente donato.
Mi immagino il volto di Nicodemo
e di Giuseppe di Arimatea che sorreggono il
cadavere, uno dal capo, l’altro
dai piedi; dietro al Cristo, le statue di Giovanni,
della Maddalena, di Maria e di
una discepola esprimono disorientamento e dolore.
Cristo no, è il centro immobile
della composizione.
Tutto è compiuto.
Mentre scrivo socchiudo gli occhi
e ripenso alla scena, mi ritrovo al Calvario.
Sento l’odore del temporale in
arrivo e del sangue.
La folla se n’è andata in tutta
fretta per non prendersi l’acquazzone, i soldati
calano senza riguardo i cadaveri
per gettarli nella fossa comune.
Gesù no, passa prima dalle
braccia della Madre!
La Madre strige il Figlio
esamine.
Una scena fortissima, straziante,
intensa.
Quanto silenzio, quanto dolore,
quanta forza!
I romani avevano l’orribile
consuetudine di lasciare i cadaveri appesi alla croce,
in preda agli animali e ai corvi,
soprattutto quelli condannati per lesa maestà;
un terribile monito per tutti i
sudditi.
La concessione del corpo ai
famigliari era un’eccezione, fatta per manifestare
la generosità di Roma; troppo
buoni, perché: “In Cina, i famigliari del condannato
a morte devono pagare il prezzo
della pallottola con cui si procede all’esecuzione,
se vogliono il corpo”.
In Giudea, però, le cose
funzionavano diversamente; non c’era nessuna intenzione
di forzare la mano, di accentuare
i dissidi, perciò i corpi erano restituiti ai famigliari
che ne facevano richiesta, tanto
più in quella vigilia di pasqua.
In tutta fretta, perciò, i
famigliari, aiutati dai soldati, devono schiodare i piedi del
condannato, deporlo in un
lenzuolo e provvedere alla sepoltura.
Una procedura terribile; il corpo
del condannato è irrigidito dalla contrazione tetanica
dei muscoli, e il corpo si può
trasportare come se fosse irrigidito, in catalessi.
Una volta calato con il patibolo,
il cadavere è portato nei pressi della tomba,
dove gli sono schiodati i polsi.
La presenza, in una tomba
ritrovata a Gerusalemme, di uno scheletro con il chiodo
dei piedi ancora conficcato nelle
ossa, la dice lunga sulla delicatezza di tale procedura.
Marco, cioè Pietro, (sappiamo che
Marco ha scritto il suo Vangelo ascoltando quello
che gli diceva Pietro), ci fa un
resoconto dettagliato della sepoltura di Gesù.
È Giuseppe d’Arimatea a trovare
il coraggio.
È un influente membro del
Sinedrio, insieme a Nicodemo.
Non è riuscito a salvare Gesù
dalla condanna e ora vuole, almeno, dargli una
sepoltura degna.
Entra da Pilato, piuttosto
impressionato che un membro del Sinedrio contragga
l’impurità alla vigilia della
pasqua entrando da un pagano, pur non essendo un
famigliare del condannato, e
chiede il corpo del Nazareno.
Pilato è stupito della velocità
della morte di Gesù, e concede la sepoltura privata.
Giuseppe compra un lenzuolo, una
sindone di prezioso lino, e fa deporre Gesù
in una tomba adiacente al Gòlgota,
la tomba che ha fatto preparare per sé, una tomba
preziosa, di un uomo importante,
scavata nella roccia e protetta da una pesante
chiusura in pietra.
Come quella che chiude il nostro
cuore!
Contrae l’impurità per la seconda
volta, toccando un cadavere.
Non avrà più tempo per
purificarsi.
Non celebrerà la pasqua.
Non ne ha neppure voglia, ora che
il suo cuore è gonfio di dolore.
Non ha da preoccuparsi, Giuseppe
d’Arimatea; fra pochi giorni potrà celebrare
una Pasqua nuova.
E rivedere il suo Maestro.
Ci sono dei momenti, nella vita,
in cui il nostro cuore è impietrito, insensibile,
raggelato, in cui non abbiamo più
nulla da offrire al Signore, in cui abbiamo
l’impressione che Dio, nella
nostra vita, sia morto e sepolto; in quei momenti
non ci resta che offrire il
nostro cuore, freddo come una tomba, e accogliere
il Cristo perché lo riscaldi.
L’ultimo regalo fatto a Gesù è
una tomba scavata nella pietra.
L’ultimo, disperato, straziante
gesto di affetto di un discepolo che pensava di avere
trovato in Gesù la novità della
fede, la pienezza della vita, il sorriso di Dio.
Giuseppe non ha potuto salvare il
suo Maestro.
Non i suoi denari, non la sua
influenza, non la sua cultura, l’hanno salvato.
Con il cuore pesante, non gli
resta che offrire la sua tomba.
Non ha da preoccuparsi, Giuseppe;
fra tre giorni gli verrà restituita, intatta.
Gli lascio un solo suggerimento;
è bene che si guardi in giro e che trovi un’altra
tomba; quella che ospita
temporaneamente il cadavere di Dio sarà luogo di culto
e di contraddizione, per
millenni.
I romani ricostruendo Gerusalemme
rasa al suolo dalle truppe di Tito, penseranno
bene di edificare su di essa un
tempio dedicato a Venere, per impedire ai discepoli
del Nazareno di radunarsi in quel
luogo.
La regina Elena, madre
dell’imperatore cristiano Costantino, farà abbattere il
tempio e ritrovare la tomba, la
cui memoria era stata conservata preziosamente
per due secoli dalla comunità
locale.
Il sepolcro non ha bisogno dello
splendore, nè della dignità che vorremmo
attribuirgli devotamente.
La tomba che non è riuscita a
contenere Dio, non ha bisogno delle nostre devozioni.
Ma è lì, coperta di marmi e
stoffe, un piccolo luogo al centro di una grande
cupola pericolante, a ricordare a
tutti che Dio non è stato sconfitto.
No, la tomba, a Giuseppe
d’Arimatea, non verrà più restituita.
Per quel che gli importa.
Giovanni inserisce nel racconto
anche la presenza di Nicodemo, un importante
rabbì fariseo che cerca Gesù,
anche se di notte, per non sbilanciarsi troppo.
Come abbiamo già visto, Nicodemo
cercherà in qualche modo di proteggere
Gesù, di chiedere per Lui un
procedimento giusto, senza ottenerlo.
Ora che Gesù è morto, Nicodemo
non ha più paura di esporsi, anche di fronte
ai suoi confratelli di fede e al
Sinedrio.
Perde la faccia volentieri, per
testimoniare il suo affetto per il Maestro.
Venne anche Nicodemo, il quale
già prima era andato da Lui di notte, portando
una mistura di mirra e di aloe di
circa centro libbre.
Alcuni storici, storcono il naso;
non era affatto abituale, in Israele, imbalsamare
un cadavere e la quantità degli
unguenti (trenta chili!) è davvero sproporzionata.
Probabilmente la grande mole di
mirra e aloe servivano ad evitare temporaneamente
la decomposizione del corpo di
Gesù, essendo degli antisettici naturali, per poter
in seguito provvedere ai riti di
lavaggio e di purificazione, impediti dalla fretta
della sepoltura.
Come sempre Giovanni è uno
storico affidabile, pur sovrapponendo gli eventi
e la loro interpretazione.
Da parte mia, ho una sola
annotazione da fare a Nicodemo; gli onori, ai profeti,
è meglio farli da vivi, che da
morti.
Troppe persone si schierano dopo,
troppi profeti sono riconosciuti come tali
dopo la loro morte (spesso
tragica).
Cerchiamo di essere coerenti, per
favore.
La pietra è posta dinanzi al
sepolcro, per impedire agli animali di violare il corpo di Gesù.
Dal tempio arriva il suono di
richiamo che annuncia l’inizio della festa, tutti rientrano in
casa per accendere le luci di
quel sabato particolare, che coincide con la festa di pasqua.
Nicodemo e Giuseppe non
parteciperanno alla festa, probabilmente, essendosi
contaminati con un cadavere.
Così come gli apostoli, fuggiti e
nascosti nelle campagne attorno alla città.
Non celebrerà la pasqua neppure
Giovanni, rifugiatosi con la Madre di Gesù, nella
città alta, negli alloggi dei
sacerdoti.
Pilato, cenando alla fortezza Antonia,
o al Pretorio, penserà alla bella soddisfazione
presa con il Sinedrio e proverà
disagio ricordando quel Galileo un pò filosofo.
La gente, in casa, canterà la
benedizione, mentre un bambino porrà la domanda
rituale; cosa festeggiamo oggi?
E il capo famiglia racconterà la
fuga dal faraone del popolo guidato da Mosè.
Gesù, cadavere, giace
nell’oscurità di una tomba scavata nella roccia.
Fine della storia, fine
dell’illusione, fine di una brillante carriera di profeta.
Fine di un sogno.
Fine di un normale movimento
religioso moderno.
Fine! O forse no.
Il dopo è un’altra
storia!
Ora dobbiamo solo fare
silenzio, meditazione e preghiera, amici, Fausto.
Padre nostro che sei
nei cieli, sia santificato il
tuo nome, venga il tuo
regno, sia fatta la tua
volontà come in cielo
così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a
noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri
debitori, e non ci
indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.
Amen.
Ave, o Maria, piena di
grazia, il Signore è con te.
Tu sei benedetta fra le donne e benedetto il frutto
del tuo seno, Gesù.
Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori,
adesso e nell'ora della nostra morte. Amen.
Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo.
Come era nel
principio, ora, e sempre,
nei secoli dei secoli.
Amen.
Buona preghiera amici,
aspettando la Risurrezione, Fausto.