Col Cuore al Getsemani
1° parte.
Una grande Basilica si erge quasi
a difendere una roccia all’incuria del tempo,
racchiude in sè una grande
reliquia dell’agonia di Gesù, una reliquia tragica,
impressionante; è la roccia dove
Cristo agonizzò, sudando sangue e invocando
conforto dagli uomini e da Dio.
Ma gli uomini dormivano e il
Padre taceva.
La roccia è rimasta quasi
impregnata da quell’accasciamento e, nel suo immenso
significato emerge dal pavimento
e si curva davanti all’Altare.
A un tiro di sasso dalla roccia,
dice il Vangelo, c’è l’orto del frantoio con gli
ulivi millenari squarciati che
sembrano testimoniare partecipi di quell’agonia.
Pensiamo di entrare e di meditare
sulla notte del Getsemani, però prima vorrei
meditare con voi sul Dio del
Getsemani.
Non basterebbero giorni e giorni
per riflettere questo mistero; noi purtroppo
possiamo soltanto sfiorarlo con questa
mia povera meditazione.
Noi abbiamo la fortuna di
appartenere ad una religione rivelata, cioè una
religione che per fede riteniamo
originata da Dio, un Dio che ha parlato agli
uomini di tutti i tempi ed ha
comunicato loro la sua legge, i suoi comandamenti.
E la nostra religione cristiana
si erge su tutte le altre, perché ha accolto la
rivelazione di Dio, diverso dalle
attese carnali dell’uomo, ha accolto non un
Messia glorioso sulla terra, ma
un Messia glorioso nei Cieli; ha accolto il
Crocifisso, l’Uomo dei dolori.
E non è proprio questo il Messia
annunciato dalle profezie contenute nella Bibbia?
Nessuna religione al mondo,
eccetto il cristianesimo, crede in un Dio sofferente,
un Dio torturato e oltraggiato, un
Dio incarnato e soggetto a morte.
La nascita di Cristo, la sua
sofferenza e la sua morte, mettono un sigillo di
unicità al Dio dei cristiani.
Si può dire con poche e povere
parole, che mentre le altre religioni si fossilizzano,
in un Dio lontano dall’uomo
vivente, estraneo al suo sentire e al suo soffrire,
il cristianesimo si anima
nell’abbraccio di un Dio vivente, un Messia palpitante
con gli uomini di tutti i giorni.
Perciò il cristiano vero si
arricchisce di umanità, nell’abbraccio di un Crocifisso
che, è più umano dell’uomo, è
tutto dolore e Misericordia.
Dolore e Misericordia, sofferenza
e Amore, sono i 2 pilastri su cui poggia
l’arcobaleno dell’umanità; se Dio
ha fatto l’uomo a sua immagine e
somiglianza, questo Dio non può
essere lontano da questo arcobaleno.
Se l’uomo desidera-come desidera Dio-,
allora Dio deve desiderare l’uomo;
se l’uomo-sua immagine-è in cerca
perennemente di Dio, allora Dio deve
essere perennemente in cerca
dell’uomo.
Cristo è venuto fra noi come
Verbo, come Parola, per parlarci di questo Dio
vicino, di questo Dio che ci
cerca; è venuto per dircene il nome: “Padre,
ho manifestato il tuo
nome agli uomini”.
E il nome che Gesù ci ha rivelato
del Padre è Amore, è tenerezza, è paternità,
è condivisione e trepidazione.
Il Figlio di Dio, questo Cristo
dolente e amante, è venuto fra noi per manifestarci,
che il Padre non si è chiuso in
un olimpo; “giustiziere”, ne in un olimpo; “fanatico”.
Cristo è venuto a rivelarci che
il Padre ci ama, ci ama tanto da inviarci lo Spirito
di Verità, affinché ispiri nella
nostra vita la verità; ci ama tanto da dare il suo
Figlio diletto per riscattare il
peccato dell’uomo; ci ama fino al punto da
desiderare l’eterna Comunione con
noi!
È questa la rivelazione che il
Messia è venuto a farci sulla terra.
Nella sala alta del Cenacolo,
poco prima di entrare nell’orto del Getsemani,
Gesù ha detto: “Chi ha visto Me, ha visto il Padre, Credetemi, Io sono nel
Padre e il Padre è in
Me.
Il Paraclito, lo
Spirito di Santità che il Padre vi manderà nel mio nome,
lo Spirito di Verità vi
guiderà”.
Allora con questa fede nel Padre,
nel Figlio e nello Spirito Santo, con
l’entusiasmo e il privilegio di
questa fede, entriamo nel Getsemani, uno fra
i luoghi più “umani”, che il nostro Dio ci ha lasciato in suo
ricordo.
Allora Gesù andò con
loro in un podere, chiamato Getsemani e, disse ai
discepoli: “Sedetevi qui, mentre Io vado là a pregare”.
E presi con se Pietro
e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia.
Disse loro: “La
mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con Me”.
E avanzatosi un poco,
si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo:
“Padre mio, se è
possibile passi da Me questo calice!
Però non come voglio
Io, ma come vuoi Tu!”. (Matteo
26,36-39).
Uscito dal Cenacolo, Gesù si è
diretto verso l’orto dove era solito appartarsi
con i suoi, per passare la notte
in preghiera.
Ha chiamato più vicini a sé
Pietro, Giacomo e Giovanni; si è allontanato
alcuni passi e si è prostrato a
terra.
San Luca precisa: “Entrato
in agonia, il Signore pregava più intensamente;
e il suo sudore
divenne come gocce di sangue che cadevano a terra”.
È questa dura e crudele
sofferenza che noi vogliamo meditare.
Ma c’è un atteggiamento interiore
che vorrei raccomandare a me e a voi quando
riflettiamo sull’agonia di Gesù; ed
è un atteggiamento di umiltà.
Perché, siamo davanti ad un vero
uomo, ma siamo davanti anche al vero
Dio, non dimentichiamolo.
Non possiamo toglierli tutti i
veli, non possiamo penetrare del tutto il Lui; la sua
dimensione spirituale resterà
sempre in qualche modo impenetrabile a noi uomini.
Invece, purtroppo, noi ci
abbandoniamo spesso a interpretazioni presuntuose
su questa agonia di Gesù.
Interpretiamo la sua divina
esperienza con la nostra meschina esperienza;
pretendiamo di radiografare e di
leggere quel patimento con i nostri miseri
sensi; con le nostre lenti miopi.
Osiamo perfino ridurre tutta
l’angoscia di Cristo a una paura; la paura dei
chiodi, della crocifissione,
della morte; come se il sublime Rabbì di Nazareth
fosse meno eroico del povero
pescatore Simon Pietro, che abbracciò la croce
con slancio, con entusiasmo; per
poi defilarsi per paura, alla prima occasione
capitatagli per dimostrare al
Maestro il suo amore per Lui.
Vorrei però cercare di sfiorare
con umiltà il mistero della sofferenza
di Gesù nel Getsemani.
Nell’Antico Testamento la
sofferenza era vista come una disgrazia; la si
riteneva un castigo di Dio (però
non siamo tanto lontani neanche adesso).
I Salmi traboccano di grida di
angoscia e di suppliche; si invoca
incessantemente Dio per essere
liberati dai mali che appaiono come un
marchio di condanna, un marchio
di indegnità e di scandalo per gli altri.
Finchè avviene una folgorazione,
attraverso i Profeti, uno sprazzo di luce
sconvolgente; c’è la scoperta
della sofferenza e del suo valore di redenzione;
una scoperta che si precisa ed
emerge nella profezia di Isaia.
Si staglia all’orizzonte
dell’Antico Testamento la figura misteriosa dell’Uomo
dei dolori, “disprezzato e reietto dagli uomini, familiare col patire”.
Segno distintivo di quest’Uomo
dolente è il patimento; ma la colpa non è in
Lui; Egli è innocente; e
nonostante tutto si confonde con i peccatori, portando
su di sé la loro colpa: “Ha portato i nostri affanni, si è addossato i nostri dolori,
è stato trafitto per i
nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità.
Il nostro castigo si è
abbattuto su di Lui, per le sue piaghe siamo stati guariti”,
annuncia Isaia.
Questa profezia del Messia,
illumina come un bagliore nella notte dei tempi
la figura e la missione di Gesù
di Nazareth; che illumina la sua rivelazione.
E ci accorgiamo che Cristo non è
venuto soltanto a portare la legge dell’amore,
ma è venuto a portare la fede nel
dolore; è venuto a restituire dignità al dolore.
Dall’alto della collina delle
Beatitudini Egli annuncia il dolore come gloria:
“Beati quelli che
piangono”;
annuncia il dolore non più come segno di castigo,
ma come segno di predilezione per
coloro che lo porteranno per amore di
Dio e degli uomini.
La passione e la morte di Cristo,
diventano la pienezza delle rivelazioni del
disegno di Dio; il trionfo
dell’Amore.
Nella croce di Cristo esplode la
vittoria dell’Amore.
L’angoscia mortale di Cristo nel
Getsemani è dunque l’esplosione di questa vittoria.
E Cristo stesso ce lo dice: “L’anima mia è turbata; e che dirò?
Padre, salvami da
quest’ora?
Ma è per questo che
sono giunto a quest’ora!”.
Cristo dunque, venne per l’ora
che batte nell’orto degli Ulivi. Ricordiamolo!
Cristo venne per l’immensa agonia
che ci avrebbe portato l’immensa salvezza.
Allora, non vi pare che la nostra
meditazione sul Getsemani si stia snebbiando?
Ora comprendiamo che il nostro
errore più grande è quello di voler rimpicciolire,
immiserire, le sofferenze del
Salvatore del mondo; è quello di ridurre le sue
innumerevoli sofferenze a una
sola sofferenza; è quello di livellare le sue
misteriose sofferenze al livello delle
sofferenze che noi conosciamo; è quello di
adeguarle a misura nostra, mentre
esse erano a misura del Messia, del Figlio di Dio.
La misteriosa sofferenza di Gesù,
fu una somma di sofferenza tale che nessun
uomo non avrebbe mai potuto
portarne una uguale.
La sofferenza di Cristo fu un
oceano di sofferenze.
Le ondate del dolore fisico e
psicologico, furono così violente da fargli sudare
sangue; perché erano le ondate di
tutto il nostro dolore; dei nostri mali,
delle nostre solitudini e delle
nostre sofferenze.
E su di esse si abbattevano senza
respiro i flutti dei patimenti morali.
Sulla riva del Cuore Amante di
Gesù, venivano a infrangersi tutti i tradimenti,
tutte le offese, tutti i
raccapriccianti peccati che l’uomo avrebbe commesso,
infrangendo la legge di Dio.
Colui che era Figlio di Dio,
tutt’Uno col Padre, ne riceveva lo schiaffo.
Io credo che nella trasparenza
del calice amaro del Getsemani, Gesù intravide
tutto il dolore paterno!
E fu l’anticipo del fiele che gli
avrebbero fatto bere.
Ma tutto questo era ancora poco.
Era ancora poco perché tutto
fosse compiuto.
Ai dolori fisici e morali si
doveva aggiungere il dolore estremo, il dolore più
straziante per il Figlio; quello
di perdere il Padre, quello di restare senza di Lui.
Il Vangelo ci rivela in tanti
modi che Gesù godeva il favore della presenza del
Padre, dell’unione mistica con
Lui.
Quando il Padre, come ultima
prova si nascose a Gesù, lo spezzarsi di quel
prezioso dovette essere per il Figlio
di Dio come uno schianto esistenziale,
dovette assomigliare allo spasimo
di uno cui si toglie l’aria.
Io credo che a quel dolore il
cuore di Cristo non resse: “Padre, se è possibile,
si allontani da me
questo calice”;
la perdita di quella luce dovette essere per
Gesù come un’insostenibile; “notte oscura”; ”una notte dello spirito”, un deserto
di tenebre, di abbattimento;
terra natale della morte, notte dell’abbandono, caverna
della desolazione; notte
altissima di ore terribili, in cui Dio è ignoto all’anima.
L’anima vuol sentirlo ad ogni
costo, ma dove ritrovarlo? Dove cercarlo?
Nulla rimane, se non fare
ascendere al trono del Padre questo lamento: “Dio mio,
Dio mio, perché mi hai
abbandonato?”.
Nel Getsemani, Gesù visse l’ora
per la quale era venuto, l’ora della vittima d’Amore
per eccellenza: “Sacerdote in eterno”, che soffre e si offre per la
nostra salvezza.
Impariamo a tacere davanti a Gesù
agonizzante.
Il nostro compito non è quello di
scoprire, di comprendere, di misurare il dolore
di Gesù; il nostro compito è
quello di vegliare con Lui nell’ora del dolore.
“Così non siete stati
capaci di vegliare un’ora sola con me?”. (Matteo 26,40)
Il luogo più importante credo sia
il Getsemani, perché in quel luogo il Salvatore
non ci ha dato ma ci ha chiesto; e
a questo Cristo che chiede non si può non
rispondere; non si può chiudere
il cuore ma bisogna spalancarlo.
Che ora stupenda, è l’ora in cui
Gesù ci chiama a stargli vicino mentre prega!
Quante emozioni, quante
commozioni!
Nel buio dell’agonia, affiorano i
lineamenti di Gesù orante, di Gesù
maestro di interiorità.
Noi pensiamo troppo poco ai
grandi momenti di preghiera del Signore;
eppure, quante volte il Vangelo
li sottolinea: “Gesù si ritira a pregare;
Gesù invita gli
Apostoli a pregare!”.
Non consideriamo mai abbastanza
che Gesù è l’Essere più religioso che sia
vissuto su questa terra; e
dimentichiamo sempre di chiedergli di ravvivare la
nostra religiosità, la nostra
devozione: “Signore, dovremmo dirgli, come gli
dissero gli Apostoli; insegnaci
a pregare!”.
E sarebbe già questa una
bellissima preghiera.
Ora, mentre Lui prega, prostrato,
noi scopriamo che Cristo non è altro che una
preghiera vivente; che la sua
esistenza non è stata altro che una continua ricerca
di contatto con il Padre; che nel
rapporto con il Padre, Cristo trova l’ispirazione
per la sua Parola, per i suoi Atti;
scopriamo che in Lui non ci sono differenze tra
il vivere e il pregare, ma è
pregando che Egli apprende come incarnare l’Amore
che lo lega al Padre; scopriamo
che la sua preghiera non è;-come lo è per noi-,
uno stanco mormorio di labbra, ma
è la ricerca struggente di ciò che il Padre
vuole, desidera e attende.
Non so se anche voi vi sentite
come attirati, calamitati, ad entrare un pò di più
dentro questo Gesù del Getsemani,
che prega, che soffre, che geme: “Vegliate
con me, restate con me
almeno un’ora!”.
Non sentite anche voi un’emozione
particolare a questa supplica?
Sembra come l’invito ad una
condivisione più intima, ad una vicinanza più
stretta, ad un legame più
assoluto.
Credo che il Getsemani ci lancia
un invito speciale; più che a pregare, più che
a meditare, il Getsemani ci
invita a contemplare Cristo: “contemplare”, è
l’apice
della preghiera, “contemplare” è rinunciare alle proprie parole, alle
proprie
inclinazioni; “contemplare”, è diventare soltanto sguardo, ascolto e
penetrazione; “contemplare”, è cercare di conoscere Dio più di noi
stessi; “contemplare”,
è distogliersi da noi, per fissarsi in Dio, sulle bellezze
e sulle meraviglie di Lui; contemplare
Dio, è posare lo sguardo sul Dio vero;
ed è sentire il suo sguardo, come
si sente lo sguardo della persona amata,
quando ci è vicina e noi
chiudiamo gli occhi.
Contemplare Lui è dimenticarsi di
noi e sciogliersi in lui.
San Paolo dice: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.
Mi pare che ci aiuti a capire
cos’è la comunione con Dio, che si realizza
pienamente soltanto immergendosi
in Lui.
Ascoltatela e non la
dimenticherete più.
Non si conosce Dio dalla dottrina
o dalle immagini.
Il segreto del vero possesso è
l’incontro, è la comunione, è un lavoro di fusione
che non finisce mai e che è
sempre suscettibile di perfezionarsi.
Vi sarà qualcosa che si perde di
noi ma non è una perdita, è una conquista; ciò che
noi stiamo per diventare è più
splendido e appagante di ciò che eravamo prima!
Dalla grotta del Getsemani, il
Signore ci invita a conoscerlo in questa maniera
totale, in questa fusione
crescente e lievitante.
Restate con me, rimanete con me!
Si, restiamo con Lui,
immaginiamoci in Lui!
E alla fine grideremo anche noi: “Sono io! Io che vivo, io in Lui e Lui in me!
Lui l’oceano di cui
siamo i granelli di sale.
Lui, la vite di cui
siamo i tralci!”.
Venne la terza volta e
disse l’oro: “Dormite ormai e riposatevi!
Basta, è venuta l’ora;
ecco il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle
mani dei peccatori”. (Marco 14,41)
Al termine della cena nella sala
alta del Cenacolo, il Signore aveva iniziato
la sua stupenda preghiera
dicendo: “Padre, l’ora è giunta.
Al termine della sua
preghiera nel Getsemani, questa stessa frase torna
nuovamente sulle labbra
di Gesù! Ecco è giunta l’ora!”.
L’ora del Salvatore è
paradossalmente l’ora della passione.
Ma è anche l’ora della sua
glorificazione.
Attraverso l’ora del suo
sacrificio, Cristo passa dalla gloria effimera delle
folle, alla gloria perenne del
Padre.
Il titolo di gloria di Gesù
davanti al Padre è la sua volontà di riscattare il genere
umano, di riconciliare il Cielo
con la Terra, di restituire al Paradiso i figli scacciati.
Per questa gloria Cristo si è
caricato della Croce, si è addossato i nostri affanni
e i nostri dolori, è stato
trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità,
castigato e umiliato fino alla
morte sul Golgota; tutto è stato consumato,
tutto è stato vinto da Lui.
Tramite Lui, gli uomini hanno
recuperato la sorte di figli di Dio e con Lui risorgeranno.
Ma in nome dell’Amore che è
comunione, è necessario che tutti noi portiamo la
nostra porzione di sofferenza, di
passione, per partecipare alla glorificazione di Cristo.
Anche per noi, deve giungere
l’ora del dolore in attesa dell’ora della gloria.
È stato detto: “Nessun uomo è senza dolore; e se così fosse, non sarebbe un
uomo”.
Perché l’uomo è sensibile, è
comunione; se anche non soffrisse mai per sé,
soffrirebbe per quelli che
soffrono, altrimenti sarebbe disumano.
Tanto meno il nostro Signore Gesù
Cristo, vero Dio e vero uomo, è disumano.
Difatti;-come dice San Paolo-, Cristo
Gesù pur essendo di natura divina, non
considerò un tesoro geloso la sua
uguaglianza con Dio, ma spogliò sé stesso
assumendo forma umana.
Anche la sua preghiera nel
Getsemani, è in forma umana: “Padre se è possibile
allontana da me questo
calice!”.
Sembra che Cristo voglia dire a
ciascuno di noi.
Prega anche tu così, come ho
pregato Io.
Puoi chiedere anche tu che il tuo
calice si allontani da te.
Il Padre è un Dio pietoso, è un
Dio che ti viene incontro, un Dio che,
se possibile, ti toglierà questa
croce dalle spalle.
MA PREGA!
Il Padre è un Dio giusto che in
ogni modo userà la tua preghiera a tuo favore
e come una moneta; te la
scambierà con l’oro del conforto, della dolcezza,
del coraggio per aiutarti a
portare quel peso quale offerta.
Spesso parliamo dei Santi, dei
mistici, dei martiri, che sono stati chiamati alla
vocazione della sofferenza per amore
di Cristo e delle anime.
Anche noi possiamo
essere dei santi, dobbiamo solo offrire al Signore le nostre
sofferenze, come
quelle che stiamo vivendo in questo periodo a causa di questo
virus, viviamole con
amore e offriamole a Lui, ne sentiremo meno il peso.
Buona lettura e
meditazione amici, Fausto.
PS. Domani metterò la 2° parte
della meditazione sul Getsemani.