Il momento tragico
della storia.
LA CROCIFISSIONE DI GESÙ
CRISTO.
Il “processo” è finito, ognuno ha
avuto ciò che desiderava; Pilato,
inaspettatamente , una pubblica
dichiarazione di affetto verso Cesare
da parte dei sommi sacerdoti;
Caifa, dopo un’estenuante duello sul filo
del rasoio, la condanna per
crocifissione del Nazareno; Erode un’inattesa
attenzione da parte del prefetto.
Gesù è una piccola rotella in un complesso
mondo, in cui ognuno ha
le sue buone ragioni per farlo
fuori.
Dio si usa, quando serve,
altrimenti è meglio sbarazzarsene.
Pilato allora decretò che
fosse eseguita la loro richiesta.
Rilasciò quello che era
stato messo in prigione per sommossa e omicidio,
e che quelli
richiedevano, ma consegnò Gesù alla loro volontà (LC 23,24-25).
Gli uomini non fanno la volontà di
Dio.
Gesù, allora, è consegnato alla
volontà degli uomini.
Se non avessimo duemila anni di
predicazione e di Via Crucis alle spalle,
rabbrividiremmo, leggendo questa
annotazione di Luca!
La storia degli uomini è anche segnata
dal tentativo di convincere le divinità
a piegarsi ai nostri desideri, alle
nostre necessità.
La passione ci svela un Dio che
accondiscende alla volontà
degli uomini, che, però, è una
volontà di morte.
Gesù viene condotto al patibolo
perché il volto di Dio che
annuncia e rivela è intollerabile,
disturba, scandalizza.
Troppo compassionevole, troppo
generoso, troppo amorevole, il suo Dio.
La religione, fino ad allora usata
come strumento per mantenere l’ordine
costituito, esce dagli schemi
rigidi in cui gli uomini religiosi l’hanno
costretta, per diventare
un’esperienza personale, interiore e comunitaria.
Con l’amore di un Dio benevolo e
sorridente. Un delirio.
Preferiamo tenerci il volto
corrucciato di un Dio antipatico ma potente,
indifferente ma schierato con le
nostre ragioni, all’occorrenza.
Gesù va eliminato, non c’è dubbio.
Un profeta abitato dallo Spirito,
che ha compiuto solo opere di bene, che
ha smascherato l’ipocrisia nascosta
dietro alla devozione senza fede, che
ha riletto con passione e verità la
Parola data da Dio agli uomini,
riportandola alla sua origine,
è certamente più pericoloso di
Barabba, omicida e sobillatore.
I giudei, presero dunque
in consegna Gesù.
Egli, portando la croce
da sé, uscì verso il luogo detto
del Cranio, in ebraico
Golgota
(GV 19,16-17).
Pilato consegna Gesù a Caifa; si forma un
piccolo drappello,
composto da soldati romani e,
forse, da soldati del tempio.
Gesù, duramente provato dalla
flagellazione che, ricordiamo, poteva
portare alla morte, è caricato del
patibolo, una trave che gli è posta
sopra le spalle sanguinanti e
legata ai polsi.
A questa trave, una volta arrivati
al patibolo, il condannato è inchiodato
con due chiodi, probabilmente
passati nel polso, conficcati nel legno
e ripiegati, per poi essere
innalzato, sollevato da quattro soldati,
e appoggiato sopra un palo
verticale precedentemente fissato,
alto non più di due metri.
Il luogo dove Gesù è condotto è il
Golgota, una cava di
pietra in disuso addossata alla
porta ovest della città.
Era abituale trovare delle cave di
pietra intorno a Gerusalemme; quella
del Golgota è abbandonata;
probabilmente la pietra non è di buona qualità,
come rivelano gli scavi sottostanti
il Santo Sepolcro, e qualcuno l’ha
riadattata per scavare delle
preziose tombe.
Il Golgota perciò confina con una
serie di ricche tombe
scavate nella roccia e circondate
da un giardino.
Il tragitto che Gesù compie non è
lungo; dal palazzo di Erode
al Golgota ci sono poche centinaia
di metri.
Lo segue una folla di persone; chi
lo ha condotto per essere
giudicato e vuole essere sicuro
della sua morte, alcuni discepoli,
fra cui l’evangelista Giovanni,
alcuni curiosi.
La crocifissione avviene fuori
della città; dentro le mura, infatti,
sarebbe impossibile, renderebbe impuro
il tempio.
Il sommo sacerdote Caifa deve
correre al tempio prima del tramonto;
le minuziose norme di purificazione
che lo riguardano non devono
essere infrante per nulla al mondo;
certamente non esce dalla città e,
se assiste all’esecuzione di Gesù,
lo fa dall’alto delle mura.
L’idea che Caifa, da lì a poche
ora, indosserà i solenni paramenti
per uccidere l’agnello pasquale, mi
mette i brividi.
È come se un prete pedofilo,
rovinasse un ragazzo
e poi andasse a prepararsi per
celebrare l’Eucaristia.
Assiste alla morte di Dio, e pensa
di onorarlo offrendogli
un agnellino, dopo avergli
massacrato il Figlio.
PORTARE LA CROCE.
Spesso nella sua predicazione, Gesù
ha parlato di portare la croce,
un modo di dire, forse, derivato
dall’esperienza degli abitanti
di Gerusalemme che assistevano a
numerose esecuzioni,
con i condannati che attraversavano
la città portando il patibolo.
Gesù, usando anche l’immagine del
giogo del bue, indica la fatica
dell’essere discepoli, l’impegno
che comporta convertirsi alla visione
di Dio che Egli inaugura, lo sforzo
per adeguarsi alla logica del Regno.
Credere, ciò, comporta una morte a
se stessi,
una fatica, ma anche una
liberazione.
E, invece, questo modo di dire è
stato foriero di mille interpretazioni;
e di mille sensi di colpa.
Voglio ancora ribattere un’idea per
me fondamentale, visto che Gesù è
morto per proclamare, e che non
smetterò di ripetere, a costo di
sembrare un paranoico.
Dio non manda le croci, non le ama
e ne farebbe volentieri a meno.
La sofferenza, la malattia, i
litigi, la depressione, un fallimento lavorativo,
non dipendono da Dio, ma da noi e
dagli altri.
Da noi, quando ci facciamo mille
giri di testa su cosa vorremmo o
dovremmo essere, e siamo sempre
scontenti di noi stessi e della nostra vita.
Dagli altri, quando si divertono a
farci tribolare
per invidia o per malvagità.
O, ancora, dalla congiuntura
internazionale che ha mandato sul
lastrico l’azienda in cui lavoro,
dall’inquinamento atmosferico,
che è all’origine del mio cancro, e
così via.
Gesù parla del discepolato come
fatica da assumere, non di un Dio sadico
che, avendola portata Lui, decide
di caricarci di una croce per vedere
quando crolliamo!
Dio non ci manda la croce e,
potendolo,
anche Lui ne avrebbe fatto
volentieri a meno.
Ma se la croce arriva, o perché
altri ci caricano o perché noi stessi ce la
costruiamo, allora bisogna portarla
guardando avanti, senza farsi schiacciare.
Conosco devoti, non voi, gli altri,
che quando sentono parlare della croce
di Gesù cominciano, davanti a Dio che
muore, a lamentarsi dei
propri malanni o dei dispetti
ricevuti.
Portare la croce non significa
alzarsi ogni mattina,
piallarla, carteggiarla e
verniciarla!
Per quanto dipende da noi, evitiamo
di caricarci di croci che non rendono
in alcun modo gloria a Dio e se,
invece, ne siamo caricati, allora
portiamola uniti a Cristo.
Come Simone! Il Cireneo!
Mentre lo conducevano
fuori per crocifiggerlo, costrinsero un passante
che tornava dai campi,
Simone di Cirene, padre di Alessandro e Rufo,
a portare la croce di Lui
(MC 15,20-22).
Lo condussero, così, al luogo detto
Golgota, che significa luogo del Cranio.
Gesù non ce la fa proprio; la
tensione interiore, la notte insonne,
l’interrogatorio, la flagellazione,
gli scherni, il peso del patibolo!
Cade sul selciato e fatica a
rialzarsi.
Allora un soldato prende un uomo a
caso dalla folla, uno che torna dal
lavoro e che si ferma a vedere cosa
succede; (mai fermarsi a curiosare,
può succedere anche di
prendere le colpe),
slegano la croce e la pongono
sulle spalle di Simone di Cirene,
uno sconosciuto di passaggio,
(non sempre sono parenti
e amici ad aiutarti).
Non un amico, un discepolo, un
compagno di avventura; uno sconosciuto.
Prendono uno che compie un gesto
forzato, senza entusiasmo, senza
generosità, imprecando in cuor suo,
timoroso, anche di essere anch’egli
scambiato per un delinquente.
Un temporaneo compagno di
malasorte, come un vicino di letto in ospedale,
o alla mensa dei poveri, uno che ha
in comune con te solo la disperazione. Eppure.
Non sappiamo nulla di Simone.
Non sappiamo se quel quarto d’ora
passato a portare la croce di Gesù sia
stato qualcosa di più di un brutto momento
da raccontare, il giorno dopo,
ai vicini di casa.
Così è la croce; non desiderata,
arriva quando meno
te la aspetti, alla fine di una
faticosa giornata di lavoro.
No, Dio non ti manda nessuna croce,
nel caso di Simone
sono i soldati romani che gliela
impongono.
Ma quel suo gesto obbligato, in
qualche modo, l’ha scosso, interrogato, cambiato.
Marco, raccontando il gesto di
Simone, non ne parla come di uno sconosciuto,
ma come del padre di Alessandro e
Rufo, due persone a lui note, probabilmente
due discepoli che frequentano la
comunità di Gerusalemme.
Il gesto di Simone è stato una
benedizione per lui e la sua famiglia.
Quando ci troviamo a portare la
croce, pensiamo che stiamo
aiutando Cristo a portarla, e che,
così facendo, lo aiutiamo
a salvare il mondo, manifestando la
misura dell’amore di Dio.
E quel gesto, forzato, non bello,
non elegante,
può fiorire nella nostra vita
interiore, e in quella di chi amiamo.
IL COMPIANTO.
Sulla strada che conduce fuori
dalla città, Luca ci racconta un
curioso episodio, denso e
significativo, quello delle donne piangenti.
(LC 23,27-32).
In passato molti commentatori hanno
sottolineato la misericordia del
Signore nei confronti di queste
donne, immaginate come devote
discepole affrante dal dolore.
Bello, poetico, finalmente qualcuno
che prova compassione
davanti all’indurito dolore del
Nazareno.
E invece no.
Mi ha sempre lasciato perplesso
questa interpretazione.
Poi, qualche anno fa, leggendo il
testo delle meditazioni alla
Via Crucis al Colosseo scritte
dall’allora Cardinal Ratzinger,
mi sono rasserenato; la pensiamo
allo stesso modo.
No, quelle donne non sono delle
affrante discepole, ma una compagnia
della buona morte chiamata, forse, figlie
di Gerusalemme, che
accompagnava i condannati a morte,
e che piangeva lacrime su chi,
normalmente, non aveva nessuno che
piangeva per lui.
Il loro, è un pio atto di devozione
e di compassione. Falso!
Gesù non vuole lacrime finte, vuole
la conversione dei cuori, non ama
l’apparenza, vuole la sostanza, non
le opere caritative fatte una volta
all’anno, ma un cuore
compassionevole sempre, non ha bisogno di una
claque che faccia partire
l’applauso, ma di discepoli che seguono
il Maestro nel dono di sé.
Gesù è gravemente ferito, esausto, eppure
trova la forza di reagire.
Le sue parole sono taglienti; non
ho bisogno delle vostre lacrime, tenetele
per i vostri mariti, che hanno
permesso di uccidere un innocente,
conservatele per quando la violenza
genererà violenza,
e il vento seminato diverrà
tempesta e tutto crollerà.
Gesù profetizza il crollo di
Gerusalemme?
Facile profezia; l’equilibrio
raggiunto dalla città è continuamente
messo in discussione dalle lotte
interne e dalle tensioni internazionali.
Gesù fa un servizio alla verità, scuote
queste pie donne dell’aristocrazia
religiosa, dal loro mondo dorato
per riportarle con i piedi per terra.
Piedi che pestano
sangue.
Non sempre chi ti dà una carezza ti
vuole bene
e chi uno schiaffo ti vuole male,
ricordiamocelo.
A volte, anche una frase forte, uno
schiaffo morale,
può testimoniare un grande affetto.
Il corteo ha finito il suo
percorso, sono arrivati alla cava, al Golgota.
Gesù viene spogliato della tunica,
lo cinge un perizoma di
cotone o lino, che non gli viene
tolto.
Abitualmente, nell’impero romano,
si era crocifissi nudi, ultimo segno
di disprezzo, come le povere
vittime della follia nazista che erano
spogliate prima di entrare nelle
camere a gas, per avere un lavoro di
meno da compiere!
In Giudea pare di no; Roma non
aveva interesse a compiere
gesti che la cultura locale avrebbe
considerato provocatori.
Gesù è pronto per essere inchiodato
e innalzato.
Volevano anche dargli del vino
aromatizzato con mirra,
ma Egli non lo prese (MC 15,23).
Matteo parla di vino mischiato con
fiele, Marco di vino mischiato con
mirra, ma la sostanza non cambia; è
un blando anestetico, una misera
forma di compassione per stordire il
condannato durante la crocifissione,
momento molto doloroso che
comportava, fra le altre cose, la frattura di
alcune ossa del polso e del
legamento del pollice.
Gesù rifiuta la bevanda, probabilmente
vuole restare lucido fino in fondo.
Vuole mantenere la consapevolezza e
la coscienza di sé per ciò che sta compiendo.
Non è facile raggiungere la
consapevolezza e la coscienza
delle cose che si vivono, nella
vita.
La fede, quella vera, ci può
aiutare molto in questo percorso.
Più spesso, durante i momenti di
dolore siamo completamente
storditi e poco lucidi, e rischiamo
di prendere delle decisioni avventate.
Gesù ha piena consapevolezza di ciò
che accade.
I suoi carnefici, secondo Lui, no.
È Luca a riferire questo particolare
che mette i brividi.
Quando giunsero sul posto, detto
luogo del Cranio, là crocifissero
Lui e i due malfattori, uno a
destra e l’altro a sinistra.
Gesù disse: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello
che fanno” (LC 23,33-34).
Siamo al momento più tragico; i
condannati sono slegati, distesi, in terra,
due soldati tengono fermo il
disgraziato mentre un terzo, con un grosso
martello, gli conficca un chiodo
lungo una ventina di centimetri, poi viene
fatto alzare e tirato su per le
gambe e incastrato al braccio verticale.
A questo punto gli si piegano le
gambe e un altro chiodo
è conficcato unendo i piedi, tenuti
sovrapposti.
La posizione del crocifisso è
innaturale e dolorosa; la maggior parte del
peso del corpo è sostenuto dai
polsi, trafitti dai chiodi; la posizione
irrigidisce i muscoli pettorali che,
contraendosi, impediscono di
respirare correttamente.
Istintivamente il crocifisso fa
leva sui piedi per alzarsi di qualche
centimetro e respirare, per poi
ricadere, sopraffatto dal dolore
dei piedi trafitti.
Una tortura inaudita.
In quel momento, mentre è
inchiodato e innalzato, Gesù pronuncia la
frase più forte dell’intera
passione: “Padre perdonali, non sanno
quello che fanno”.
Non solo li perdona; li giustifica,
anche.
Non è vero; sanno benissimo quello
che fanno, ma il Signore sovrabbonda
di grazia, è capace di capire le
ragioni (malvage) dei suoi assassini.
Gesù perdona chi lo sta uccidendo, come
ha chiesto di fare ai suoi discepoli.
Ama i suoi nemici.
Questa è la misura senza misura
dell’amore di Dio.
È difficile perdonare, difficile
perdonarsi.
Non si può dimenticare; il perdono
non è un’amnesia.
E il perdono non riguarda
l’emozione, ma la volontà; possiamo perdonare
ma restare turbati quando incontriamo
chi ci ha fatto del male.
E non si perdona perché migliori, o
perché l’altro cambi con il nostro
perdono; si perdona perché figli
del Padre che fa piovere sopra i giusti e i malvagi.
Perdoniamo perché noi abbiamo
bisogno di perdonare,
non perché l’altro si meriti il
perdono.
Ed è meglio perdonare come si
riesce, senza aspettare un perdono perfetto.
Provo disagio quando alcuni
cronisti si avvicinano ai genitori di una vittima
e parlano di perdonare; come è
anche solo immaginabile pensare di perdonare
l’omicida di tuo figlio il giorno
dopo il funerale!
Ci vogliono anni per maturare la
decisione di andare oltre,
di augurare a chi ti ha ferito non
il male, ma la conversione.
Anni, eccetto che per Gesù, che ha
già maturato il perdono.
Dio perdona sempre, senza porre
condizioni,
sperando nella conversione di chi
perdona.
LA TUNICA!
Dev’essere un particolare
importante se tutti ne parlano.
Gesù viene spogliato delle vesti,
ovvio.
Perché dirlo, allora?
E perché con così tanta insistenza?
Probabilmente gli evangelisti
indugiano sul particolare della divisione
delle vesti perché colpiti dal
fatto che un salmo, il ventidue, ne parla.
O forse, per sottolineare il
disprezzo dei soldati che prendono la veste,
intrisa di sangue, inutilizzabile,
per stracciarla in quattro parti.
Giovanni il teologo, ovviamente,
non si accontenta
di questa spiegazione e vuole
approfondirla.
(GV 19,23-24).
Sono due le vesti, quindi; una
tunica preziosa, di qualità, tessuta tutta
d’un pezzo, e un mantello, che
viene fatto a pezzi dai soldati.
La tunica resta intatta. Che
significa?
I Padri della Chiesa hanno visto in
questa tunica l’immagine
della Chiesa che non deve essere
divisa per nessuna ragione.
I discepoli corrono il rischio di
stracciare l’unità,
prezioso dono di Cristo morente in
croce.
A cosa si riferisce Giovanni?
Forse alle tensioni nate fra la
comunità di Gerusalemme,
legata a Giacomo, più conservatore,
e quella fondata da Saulo?
Non lo sappiamo.
Certo è che il dono prezioso
dell’unità,
più e più volte lacerato nel corso
della storia, va conservato.
In parrocchia, nei movimenti, nella
Diocesi, quando lasciamo
prevalere la divisione, lo scontro,
ricordiamoci che
stiamo lacerando la tunica di
Cristo.
SALVA TE STESSO!
Ecco, Gesù è appeso, pende dalla Croce.
Gli evangelisti spostano
l’attenzione da Lui a chi lo circonda;
la folla, i capi, i soldati.
Il luogo della crocifissione è
vicino all’ingresso della città e la folla
numerosa, che affretta il passo per
entrare, visto il repentino cambiamento
del tempo, vede questi disgraziati
e commenta.
Luca descrive la scena con una rara
efficacia,
invitando lo spettatore, noi, a una
sintesi teologica forte.
(LC 23,35-39).
Il popolo sta a guardare; è stato
coinvolto, in precedenza,
per spingere Pilato a crocifiggere
Gesù.
Gli è stato fatto credere di essere
essenziale, in realtà il popolo è
stato manovrato da interessi politici
e religiosi e, ora, è inerme, assiste.
Quanto possiamo essere manipolati!
Per incitare una nazione a scatenare
una guerra, o ad acquistare un
prodotto, o a eleggere un candidato
politico; il popolo, la “gente”,
come si dice oggi, è coinvolta solo
se serve e, quasi sempre, è usata
per raggiungere finalità personali
e private, non il bene comune.
(Vediamo i nostri politici, tutti,
di qualsiasi colore essi siano).
Il discepolo, invece, non fa parte
di una folla, ma di una Chiesa,
un popolo di radunati-da-Dio, di
convocati, chiamati a essere
protagonisti della storia di Dio, a
fare gli attori, non le comparse.
Forse pochi lo sanno che, alla Domenica
quando andiamo ad assistere
alla Santa Messa, siamo noi i
protagonisti, il celebrante all’inizio della
celebrazione dell’Eucaristia ci
chiede di poterlo fare, ci chiede il nostro
consenso, siamo noi che celebriamo
la santa Messa e non lo sappiamo,
lui la presiede, ma i protagonisti
siamo noi.
Quanta grazia!
La folla è stata usata; ora assiste
alle conseguenze
della propria barbarie, inerme,
spenta.
Tutti i presenti sono d’accordo.
I capi del popolo giudaico, i
soldati romani, il ladro; per mostrare di
essere il Cristo, Gesù deve salvare
se stesso.
Per dimostrare di essere Dio, Gesù
deve fare l’egoista.
È giusto; Dio non è forse il sommo
egoista bastante a se stesso?
Il totalmente realizzato, il
compiuto, l’inarrivabile?
Allora, per dimostrare di essere il
Figlio di Dio,
Gesù deve salvare se stesso!
No, invece, Gesù non
salverà sé. Salva me.
La sconcertante novità del
cristianesimo è la scoperta di un
Dio che vive in relazione
all’altro, che non è il motore immobile,
ma che è Trinità, comunione,
relazione, festa e famiglia.
Gesù non salva se stesso; salva
l’umanità, donando se stesso.
E ci apre una prospettiva
sconosciuta e inattesa della vera identità di Dio.
Matteo è meno raffinato, ma
altrettanto efficace.
La folla, i sacerdoti, i ladroni, sbeffeggiano
Gesù, lo ridicolizzano.
Non ha potenza, non ha efficacia la
sua profezia, non è capace nemmeno
di salvarsi, altro che distruggere
il tempio!
(MC 27,39-44).
A Gesù è proposta una specie di
compromesso;
non sono bastati i tanti miracoli
compiuti, le parole, i gesti.
Deve ancora compiere un miracolo, il
più eclatante; scendere dalla
croce: “Il
Cristo, il Re d’Israele, scenderà ora dalla croce, affinchè
vediamo e crediamo” (MC 15,32).
A quel punto, certo, tutti si
convertiranno.
Per convertirsi, la folla chiede a
Gesù di evitare la croce.
Buffo, potevano evitargliela loro,
la croce; o no.
Invece lo hanno crocifisso per
vedere se scende dalla croce.
Contraddizione della
stupidità umana!
Gesù non ama la croce, non l’ha
desiderata, l’ha assunta, non ha potuto evitarla.
Come le tante persone che si
trovano inchiodate a una croce senza scegliere,
senza poter fuggire, (una malattia, un lutto, una depressione), Gesù non
scende, non fugge, non vuole
sconti, accetta fino in fondo di condividere
il destino degli sconfitti e degli
ultimi, dei perdenti di tutti i tempi.
Al condannato veniva appeso al
collo una tavola in legno,
riportante la ragione della
condanna a morte.
Nel caso di Gesù questo cartello è
posto sopra la croce,
dal che gli storici deducono che la
croce fosse nella forma che
tutti conosciamo, non a “T” detto
Tau, come abitualmente era.
Giovanni, però, fa una precisazione
riguardante il titolo della condanna.
(GV 19,19-22).
È l’ultimo schiaffo di Pilato al
Sinedrio, una spietata burla nei confronti
dei sacerdoti; hanno voluto che il
Nazareno fosse condannato a morte
per il reato di lesa maestà, visto
che si era spacciato per Messia,
cioè per il re dei giudei.
Bene; che tutti sappiano, allora,
che Gesù è, appunto il re dei giudei.
Il cartello appeso sopra la croce è
un’offesa ai giudei che passano;
ma come, quel poveraccio è il loro
re?
E Roma mette in croce il loro re?
A quel punto Caifa capisce la gaffe
che ha fatto,
va da Pilato per convincerlo a
togliere il titolo.
Come il gatto fa con il topo,
Pilato, ovviamente, si rifiuta.
La scritta è in tre lingue, per
essere ben letta da tutti (aramaico, latino e greco).
Giovanni, ancora una volta, osa
svelare la trama che ha fatto comprendere
gli eventi agli uomini; davvero
Gesù è il Re dei giudei, e questa regalità,
ora, sarà riconosciuta da tutti i
popoli.
Ecco il nostro Re, discepoli, il
nostro sovrano; invece del trono, ha una
croce, non indossa una corona
preziosa, ma una fatta di spine, non uno
scettro, ma una canna con cui è
stato percosso.
Ecco il nostro Re; talmente
sfigurato e irriconoscibile
da necessitare di un cartello che
lo identifichi.
Un perdente. Un folle.
Uno che ha bisogno di tutto.
Chiedo; lo vogliamo davvero un Dio
così?
Sul serio? Ne dubito!
Noi che cerchiamo un Dio che ci
appoggi, che ci sostenga, potente,
efficace, interventista, lo
vogliamo davvero un Dio così?
Pensiamoci bene, e riflettiamo su quello
che andiamo a leggere.
IL BUON LADRONE!
È una delle figure più simpatiche e
conosciute dell’intero Vangelo;
uno dei condannati assieme a Gesù,
secondo Luca, invece di insultarlo
e di chiedere un aiuto, elemosina
un ricordo.
Una pagina struggente, straordinariamente,
tenerissima.
(LC 23,40-43).
Chiama Gesù per nome, senza
aggiungere titoli.
È l’unico caso in tutti i vangeli
in cui si usa il
nome di Gesù senza alcuna aggiunta.
È l’esperienza nuda e cruda
dell’umanità del Signore; sulla croce Egli si
è spogliato di ogni veste regale, di
ogni titolo, di ogni ruolo.
La sofferenza è un’esperienza che
annulla le differenze.
E il ladro lo riconosce come tale,
come uomo che soffre.
Non chiede salvezza; le sue mani
grondano sangue,
non vuole una soluzione all’ultimo
secondo.
È turbato il ladro, perché vede un
innocente che muore!
Ha un alto senso della giustizia;
tutto sommato lui si
merita quella fine, quel Nazareno no.
Zittisce il compagno che insulta
Gesù e gli chiede un ricordo.
Abbiamo paura di essere
dimenticati, di non contare, di passare
nella nostra vita terrena senza
lasciare alcuna traccia.
La Bibbia ci rassicura.
Sion diceva: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato.
Forse che la donna si dimentica
del suo lattante,
cessa dall’aver
compassione del figlio delle sue viscere?
Anche se esse si
dimenticassero, io non ti dimenticherò.
Ecco, ti ho descritta
sulle palme delle mie mani,
le tue mura sono sempre
al mio cospetto” (Isaia 49,14-16).
Il ladro, come ogni uomo, chiede un
ricordo.
Accetta, Gesù, e gli promette di
più; gli promette il paradiso.
Secondo la tradizione, il ladro si
chiama Disma, e nell’ultimo istante
della sua vita è riuscito a
scroccare la grazia del perdono al Signore,
ecco la misericordia di Dio.
Il paradiso, nel Vangelo, è la
beatitudine dell’esperienza di Dio,
il farne esperienza.
Il ladro, il reietto, il peccatore,
il violento, sperimenta la presenza di Dio.
È la misericordia che dilaga, nel
Vangelo di Luca;
il ladro sperimenta in anticipo la
salvezza.
Perché? Perché
ha creduto.
Dio desidera la nostra salvezza,
quando lo capiremo?
Desidera il nostro bene, senza
porre condizioni.
Del ladro non abbiamo conservato il
nome, ma solo
quell’aggettivo, buono, che ne
delinea il carattere.
Buon ladrone, nel senso di ladrone
con il cuore compassionevole.
Ma buon ladrone anche nel senso di
abile.
Gli è riuscito il colpo più
spettacolare della sua carriera;
ha rubato il paradiso.
LA MADRE.
I minuti passano, poi le ore.
I lamenti dei condannati
diminuiscono, la loro voce si affievolisce.
Non hanno nemmeno la forza di
lamentarsi, il dolore ormai li stordisce,
tutto il corpo si rattrappisce intorno
a quei chiodi da cui pendono.
Anche la folla si dirada; si tratta
di entrare in città per preparare la pasqua,
mentre nel tempio, da qualche ora, si
sacrificano gli agnelli della pasqua.
I sacerdoti se ne sono andati,
lasciando qualcuno a vedere
l’epilogo, per preparare la solenne
liturgia nel tempio.
I soldati romani allentano la
guardia.
Ad alcune persone, i famigliari più
stretti, si permette di avvicinarsi ai condannati.
È questione di poche ore e tutto
sarà finito.
Fra i presenti, i pochi presenti,
c’è l’autore del quarto Vangelo,
il Giovanni forse sacerdote che ha
ospitato Gesù durante la Cena.
Non ha da temere ripercussioni come
gli altri discepoli della prima ora
che sono fuggiti a gambe levate; dev’essere
un personaggio importante.
Ha assistito al processo, ha
seguito Gesù al Golgota.
Ora sappiamo che, insieme a lui, c’è Maria, la Madre del Signore.
Quando è giunta a Gerusalemme?
Non lo sappiamo.
Sappiamo che, nel momento più
terribile, è presente.
È difficile assistere alla morte di
una persona che si ama.
Tragico, vedere la morte di un
figlio.
Insostenibile, vedere la morte orribile
di Gesù.
Maria è presente, sotto la croce,
insieme ad alcune altre donne.
Nessun angelo a cantare la gloria
di Dio, ora,
nessuna rassicurante apparizione.
Eccola lì, la promessa di Dio. Eccolo
il Salvatore.
L’aveva accolto con timore e gioia,
nel suo grembo, molti anni prima.
Gli aveva insegnato a camminare, a
parlare, a pregare.
Lo aveva visto crescere, farsi
uomo.
Aveva atteso con ansia la sua
partenza, chiedendosi, davanti al suo
temporeggiare, se non si fosse
sbagliata. Poi.
Arrivano le prime notizie da
Cafarnao, da Cana, da Magdala.
Notizie portate in paese dai
mercanti, che parlano del falegname
divenuto profeta.
Poi Gerusalemme, le prime
difficoltà, l’ostilità aperta dei sadducei e dei farisei.
Infine la notizia, giunta chissà
come a Nazareth, dell’imminente arresto di Gesù.
Eccola, la Madre.
Dov’è, ora, la promessa di Dio?
Dove?
Si era forse illusa?
Si era sognata una chiamata
inesistente?
Scrive Giovanni.
(GV 19,25-27).
Le donne stanno.
Meglio; dimorano irremovibili,
tengono duro, non cedono.
Maria, la Madre, dimora nella fede,
non cede.
In quel momento, tutto il Regno di
Dio è rappresentato
da quelle poche donne radunate
intorno alla Madre.
C’è bisogno di donne, quando serve
la costanza irremovibile.
Gesù, con un soffio di fiato, vede
la Madre e Giovanni,
e gliela affida. Donna, dice.
Come a Cana, prima del miracolo, la
chiama donna.
Non è più sua Madre, da tempo l’ha
donata, come Lei ha donato Lui.
Si sono fatti dono reciproco.
Come dovrebbe essere in ogni
relazione d’amore.
Secondo la tradizione Giovanni, da
quel giorno, prese e portò con sé Maria.
Da quel giorno, ogni discepolo del
Signore sa che può prendere Maria
con sé, come discreta presenza nel suo
percorso di vita interiore.
LA MORTE.
Il vento del mare sta portando nubi
che si fanno minacciose,
cariche di pioggia.
La gente che entra in città
affretta il passo per non farsi
sorprendere dal temporale
imminente.
Tutti gli evangelisti annotano
questo repentino cambio di tempo.
Dall’ora sesta fino
all’ora nona si fece buio su tutta la terra (MT 27,45).
Il cielo si scurisce, come se anche
la natura
partecipasse all’agonia di Dio.
Tutto è nuvoloso e buio, come il
cuore delle persone
che hanno partecipato alla
crocifissione.
Si fa buio, da mezzogiorno fino
alle tre del pomeriggio.
Quell’annotazione temporale è colma
di speranza; ha un limite la
tenebra, non può albergare per
sempre, nei nostri cuori.
Da mezzogiorno alle tre, ecco i
confini entro
cui può abitare la disperazione,
non un minuto di più.
Fratello che soffri, sorella
dilaniata dalla solitudine e dalla
depressione, il tuo dolore ha un
confine, non ti disperare.
SETE.
Il silenzio è irreale, i condannati
sono immobili,
respirano a fatica, non dicono una
parola.
Anche chi piange, ormai, ha
esaurito le lacrime.
I caldi colori della Giudea si sono
stinti in un grigio sempre più scuro.
Gesù, con un soffio di voce, parla.
(GV 19,28-29).
Ha sete. Sete di amore, di pace, di
giustizia, sete della nostra fede.
Solo sete.
Il nostro è un Dio assetato
d’amore, come noi, sperimenta il limite di
un desiderio quasi sempre
insoddisfatto, di uno slancio arrestato,
di un anelito senza soddisfazione.
Ha sete, come ha avuto sete
aspettando che
la fede della Samaritana lo
dissetasse (GV 4,4).
Ha sete colui che può dissetare chi
cerca la felicità
e il bene, come aveva detto al
tempio.
L’ultimo giorno, quello solenne
della festa, Gesù stava in piedi e
proclamava a gran voce: “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva.
Colui che crede in me,
come disse la Scrittura; dal suo
ventre sgorgheranno fiumi
di acqua viva” (GV 7,37-38).
Ha sete della mia fede, della
nostra fede.
LE ULTIME PAROLE.
Sono quattro versioni diverse,
molto diverse, forse troppo.
Quali parole ha pronunciato Gesù
sulla croce?
Quali sono state le sue ultime
parole?
Ogni evangelista dà la sua
versione.
Forse Gesù le ha pronunciate in
tempi diversi, non lo sappiamo.
Ogni evangelista, però, ha ritenuto
quelle che più lo hanno colpito.
Marco è diretto e asciutto, come al
suo solito:
“Ma Gesù, emesso un
grande grido, spirò”
(MC 15,37).
Gesù grida.
Il suo è un ultimo agghiacciante
grido di dolore, che svela
la sua partecipazione assoluta al
destino degli uomini.
Un grido che è un disperato soffio
di vita,
impressionante, messo in bocca a
Dio.
Ecco, Dio ora conosce tutto, anche
il nulla.
Come se sapesse tutto del niente, e
niente del tutto che ha creato.
Restiamo interdetti, senza parole, davanti
alla misura di questo
dono senza misura.
Il nostro ragionamento entra in
corto circuito,
davanti all’ampiezza di questo
mistero.
Dio conosce la disperazione, perché
nessun uomo
possa sentirsi abbandonato.
Ha preso l’ultimo posto, perché
nessuno possa sentirsi ultimo.
Matteo approfondisce e dilata la
riflessione. (MT 27,45-49).
Gesù cita un salmo, il ventidue. Lo
grida.
A volte anche un grido diventa
preghiera.
Gesù conosce i salmi, lo hanno
accompagnato nella sua crescita
interiore, nella presa di
consapevolezza della sua identità.
Li ha ascoltati, cantati come ninna
nanna dalla Madre, quand’era
piccolo, li ha recitati nella
sinagoga di Nazareth, in età adulta.
Ha pregato con la Parola stessa di
Dio, ha fatto scaturire dal di dentro la
Parola che lungamente aveva assaporato
durante la meditazione personale.
Prega, Gesù, le sue ultime parole
sono un grido di angoscia,
una richiesta d’aiuto.
Un’accusa verso Dio, ma detta con
le Parole stesse di Dio.
Dio non ha bisogno di applausi o di
carezze, o di timori reverenziali.
Accetta ogni parola, ogni grido,
ogni bestemmia,
se esprimono verità e richiesta di
aiuto.
Gesù muore pregando.
È un’accusa, la sua, una disperata
richiesta di aiuto,
ma è usata come una preghiera.
Chiede a Dio perché non c’è, perché
non si fa presente.
Vorrei fosse così anche per me.
Vorrei poter dire, come ultima
parola, quell’Abbà,
che ha così lungamente riscaldato
il mio cuore bucato.
E la preghiera è un interrogativo; Dio
si chiede perché Dio
l’abbia abbandonato.
Come se, per un attimo Dio diventasse
incredulo.
Incredulo per quanta solitudine
l’uomo può sperimentare,
solitudine che Dio, per sempre,
assume.
Da ora, e per sempre, nessun Cristo
morirà disperato.
Nessuno può più perdersi, ora che
Dio si è perso.
La folla pensa che Gesù invochi Elia.
Sarebbe un bel finale, degno di un
film americano;
Gesù che scende dalla croce per
mezzo di Elia.
È già venuto Elia, ma anche il
Battista, e hanno
fatto fuori anche lui, non siamo
ridicoli.
Luca, che si è informato, sceglie
un’altra delle affermazioni di Gesù.
E Gesù, gridando a gran voce: “Padre, nelle tue mani raccomando
il mio spirito” (LC 23,46).
Luca conferma che Gesù muore
pregando.
Si affida, si dona, sa bene in chi
ha posto la sua fiducia e il suo destino.
Lo dice ad alta voce, vuole che
tutti sappiano che fra
Lui e il Padre c’è un legame di
fiducia totale, di dono di sé.
Ma è Giovanni, al solito, a dare un
colpo d’ali,
forse perché era sotto la croce.
L’ultima parola di Cristo in croce
non è un grido,
né un salmo di disperazione o uno
di fiducia.
È l’affermazione di una missione
compiuta, quella affidatagli dal Padre.
Quando ebbe preso l’aceto, Gesù
disse: “Tutto è compiuto” (GV 19,30).
Ciò che andava fatto è stato fatto,
ora sta al Padre continuare.
Abbiamo tutti una missione da
compiere, una missione d’amore che Dio
ci affida al momento della nostra
nascita, un tesoro nascosto da scoprire
e da condividere.
Non pensate subito a grandi opere,
o a scoperte straordinarie; a volte sono
piccole le cose che danno senso
alla vita e che salvano il mondo.
Ecco; Gesù ora, ha
terminato il suo percorso.
Ciò che poteva fare è
stato fatto.
È tempo di morire.
Finalmente! SPIRÒ.
Ha lottato duramente per parecchie
ore, ma il suo corpo è debilitato,
prostrato, non vuole più
combattere.
La terribile macchina della croce
ha sortito il suo effetto; la respirazione
è affannosa, i polmoni sono stretti
dai muscoli irrigiditi, le gambe non
riescono più a sollevarsi per
placare la fame d’aria, il cuore cede, Gesù muore.
Ma Gesù emise di nuovo un forte
grido ed esalò lo spirito (MT 27,50).
Muore; restituisce lo spirito che
ci tiene in vita,
quel soffio che ci rende partecipi
di Dio.
Ora esce, esala.
Giovanni dice; lo rende, lo dona.
Lo Spirito, che è dono di Dio, ci è
donato sulla croce,
ultimo dono di Gesù ai credenti.
Anche morendo, Gesù compie un’opera
di vita, una nuova creazione.
La sua non è una fine, ma un nuovo
cosmo che sta per prendere vita.
IL VELO.
Gesù è morto.
Nel tempio, decine di sacerdoti, a
ritmo sostenuto, sgozzano decine
di migliaia di agnelli, per
offrirli al Signore e restituirli ai proprietari
che li avrebbero cotti al fuoco di
brace e mangiati insieme alle erbe
amare, un agnello per famiglia, da
consumare tutto, senza avanzarne.
Anche l’Agnello di Dio, ora, pende,
senza vita.
Sono Marco e Matteo che riferiscono
il particolare, all’apparenza insignificante.
Allora il velo del tempio si
squarciò in due, dall’alto fino al basso (MC 15,38).
Il tempio era un complesso sistema
di edifici, infilati l’uno dentro l’altro
come un gioco di scatole cinesi.
Al centro, nel luogo più
inaccessibile, troneggiava il Santo dei Santi, un
alto edificio con una sola apertura,
circondato da una serie di cortili
e di alte mura.
Al suo interno si trovavano due
ambienti; un atrio e il Santo vero e proprio,
che al tempo di Salomone, custodiva
l’arca dell’alleanza contenente le tavole
della legge, il bastone di Aronne e
un po’ di manna.
Da tempo, tutto ciò era stato
depredato, e il Santo dei Santi
era vuoto, con grande stupore dei romani
che lo violarono.
Ma era comunque il luogo
inaccessibile, il luogo della gloria di Dio,
abitato dalla sua presenza.
Luogo cui poteva accedere solo il
sommo sacerdote, una volta
all’anno, per versare il sangue del
sacrificio, il giorno dell’espiazione.
Quel luogo era diviso dall’atrio da
un pesante tendaggio,
lungo dal soffitto al pavimento.
Quel velo, annotano gli
evangelisti, si strappò, dall’alto in basso,
da Dio all’uomo, dal mistero
all’evidenza.
Dio non è più inaccessibile, è
osteso, evidente, appeso.
Dio non è più misterioso, non
dimora in un luogo inaccessibile,
non è più altrove, è qui,
raggiungibile, incontrabile,
lo possiamo vedere, sfiorare,
accarezzare.
Il capovolgimento è compiuto; il
sommo sacerdote volge lo
sguardo al Santuario, al Santo dei
Santi, definitivamente vuoto.
Così come la nube della presenza di
Dio abbandonò il tempio
per seguire il popolo deportato in
esilio, ora, e per sempre,
Dio abbandona il tempio di pietra
per condividere la morte dei malfattori.
La croce, ora, è il tempio.
Quell’atroce strumento di tortura e
di morte, ora,
è il luogo della gloria di Dio.
Lo diventa perché altare della
manifestazione, della misura dell’amore
di Dio, lo diventa perché ostende e
realizza pienamente l’assoluto di Dio.
CONVERSIONI.
Tutto è compiuto.
Gesù ha dato tutto, goccia dopo
goccia, stilla dopo stilla. Tutto!
Chi ha assistito esprime sentimenti
diversi.
I sadducei, di feroce
soddisfazione, certi di avere fatto una cosa giusta.
I discepoli, di silenziosa
disperazione.
Alcuni presenti, di turbamento e di
conversione. E noi?
Il primo a testimoniare stupore è
il centurione romano.
Un ufficiale abituato alla
violenza, che serviva Roma
anche in quei frangenti così
spietati e sgradevoli.
Non sappiamo nulla di lui; ha
gestito il picchetto di soldati di complemento
per la crocifissione, ha osservato
l’agonia dei condannati.
Marco ci dice che si è posto di
fronte a Gesù,
lo ha lungamente osservato, è
rimasto turbato, scosso.
Ne ha visti morire, di malfattori.
Li ha visti urlare come delle
bestie scannate, contorcersi, nudi, intorno
ai chiodi insanguinati, li ha
sentiti piangere, bestemmiare, singhiozzare
come dei bambini.
Ha fatto l’abitudine a quello
spettacolo atroce, a quella morte oscena.
Gesù no, non ha inveito, ha pronunciato
parole di perdono,
è morto come mai egli ha visto
morire un crocifisso.
E il centurione che gli stava di
fronte, vistolo spirare gridando a quel modo,
esclamò: “Davvero
quest’uomo era Figlio di Dio!” (MT 15,39).
La sua professione di fede è la professione
di fede della comunità di Marco.
Siamo chiamati a riconoscere in
Gesù il Figlio di Dio non quando le cose
vanno bene, ma ora, quando la
divinità è nascosta, mascherata, offuscata.
Siamo chiamati a credere che quel
poveraccio
sfigurato e spezzato è il creatore
del mondo.
È Dio, non perché perdente, ma per
come è morto, donandosi fino in fondo,
vivendo ciò che ha detto nei brevi
anni della sua vita pubblica.
Siamo tutti bravi a parlare, tutti
santi e moralisti, quando si tratta di dare consigli.
Ma quando siamo messi a dura prova,
allora esce
fuori il meglio o il peggio di noi
stessi.
Gesù testimonia che è esattamente
ciò che ha detto di essere.
La sua è una morte coerente,
esemplare, inattesa, luminosa.
È poco probabile che il centurione,
abbia pronunciato quelle esatte parole.
Con maggior precisione Luca
riporta.
Il centurione, vedendo l’accaduto,
glorificava Dio:
“Certamente quest’uomo
era giusto”
(LC 23,47).
La morte del giusto, il clima di
perdono che è riuscito a
portare in quell’inferno, dice
Luca, rendono gloria a Dio.
Il pagano romano invoca Dio e lo
pensa presente, vedendo quella morte.
I nostri gesti, compiuti con
giustizia, la nostra capacità di perdono,
la nostra benevolenza, rendono
gloria a Dio,
avvicinano le persone al mistero
della redenzione.
La nostra vita di fede illumina
anche chi ci sta accanto,
se vissuta con autenticità e
passione.
LA FOLLA.
La folla manipolata, quella che,
all’ingresso di Gesù a Gerusalemme
gridava Osanna; quella che, sospinta
dai sadducei e dai capi religiosi ha
richiesto la crocifissione di Gesù,
quella che, silenziosa e muta, assiste
alla morte del profeta, ora
reagisce in maniera diversa.
Ha preso consapevolezza di sé, è
tornata sui propri passi,
non è più condotta da altri.
La folla, ora, è meditabonda e
silenziosa.
Anche tutti quelli che
erano convenuti per questo spettacolo, davanti a
questi fatti se ne
tornano a casa battendosi il petto (LC 23,48).
Hanno partecipato ad uno
spettacolo, una manifestazione.
Come la folla radunata
dall’imperatore al Colosseo assisteva
ai giochi, ai massacri fra
gladiatori, alle lotte fra uomini
e belve; un’orgia di violenza, di
sangue, di follia.
Ma questo spettacolo è stato
inatteso, diverso, completamente diverso.
Meditando il mistero della croce,
anche noi possiamo tornare sui nostri
passi percuotendoci il petto, cioè
rianimando il nostro cuore, scuotendolo,
allargandolo alla misura di Dio.
Tutti noi possiamo assistere sulla
via Crucis,
allo spettacolo di un Dio che muore
per amore.
E convertirci. Io per primo.
LE DONNE.
Sia Marco sia Luca annotano un
particolare sui discepoli; tutti i suoi
amici e le donne che lo avevano
seguito fin dalla Galilea se ne stavano
lontano, osservando tutto ciò che
accadeva (LC 23,49).
Non tutti sono fuggiti.
Alcuni, anche se da lontano, hanno
continuato a seguire Gesù.
Nel momento della prova può
succedere di allontanarsi
dal Signore, di essere lontani.
L’importante è non perdere di vista
il Signore,
seguirlo, anche solo con la coda
dell’occhio.
Per sapere dove l’hanno messo e
tornare da Lui,
anche se lo consideriamo, ormai, un
cadavere.
Fratello in crisi, che fatichi a
credere, che sei stato masticato, come
gli apostoli, segui il Signore,
anche se da lontano, non andartene.
TERREMOTI.
Matteo esagera, si allarga, e sa di
farlo.
State sereni; la sua è
un’annotazione teologica, non storica.
Richiama i segni degli ultimi
tempi, della manifestazione
di Dio al popolo di Israele, e
allora, come fanno i pescatori
che raccontano della loro pesca,
esagera un pò. (MT 27,51-53).
Il linguaggio che usa ha a che fare
con i profeti apocalittici, è come se
Matteo dicesse; davvero il Messia è
venuto, e si rivela morendo in
croce, anche il cosmo riconosce la
sua presenza.
Mi piace, calcare la mano,
meditando la passione, anche a noi può
succedere di subire un terremoto
interiore, di veder spaccare in noi
la pietra che ci impedisce di
gioire, di uscire dai sepolcri in cui ci
siamo sepolti, di lasciar venir
fuori il santo che c’è in ciascuno di noi.
La presenza del Signore, credetemi,
è una potenza, una forza che
costruisce, che scuote, che
rianima, che sbalordisce.
SANGUE E ACQUA.
L’ora del tramonto si avvicina, e
con esso l’inizio solenne della
festa di pasqua.
Non si possono lasciare i
condannati in croce, la cosa contravviene
alla legge (Deuteronomio
21,22-23), bisogna accelerare la morte.
Il metodo è semplice e crudele; con
un colpo di bastone alla tibia,
i soldati frantumano le ossa delle
gambe, impedendo al condannato
di rialzarsi a prendere aria.
La morte per asfissia sopraggiunge
in pochi minuti.
Giovanni descrive minuziosamente
l’orrenda procedura. (GV 19,31-37).
Arrivati da Gesù, i soldati vedono
che è senza vita.
Per sicurezza, un soldato gli
assesta un colpo di grazia,
un colpo di lancia dato quasi in
orizzontale, sotto il costato,
a destra, un colpo che,
normalmente, trapassava il cuore, e subito ne uscì,
sangue ed acqua che richiama la
salvezza e la redenzione,
la croce e il battesimo.
LA SEPOLTURA.
Mi immagino il volto di Nicodemo e
di Giuseppe di Arimatea che
sorreggono il cadavere, uno dal
capo, l’altro dai piedi; dietro al Cristo,
le statue di Giovanni, della
Maddalena, di Maria e di una discepola
esprimono disorientamento e dolore.
Cristo no, è il centro immobile
della composizione.
Tutto è compiuto.
Mentre scrivo socchiudo gli occhi e
ripenso alla scena, mi ritrovo al Calvario.
Sento l’odore del temporale in
arrivo e del sangue.
La folla se n’è andata in tutta
fretta per non prendersi l’acquazzone, i soldati
calano senza riguardo i cadaveri per
gettarli nella fossa comune.
Gesù no, passa prima dalle braccia
della Madre!
La Madre strige il Figlio esamine.
Una scena fortissima, straziante,
intensa.
Quanto silenzio, quanto dolore,
quanta forza!
I romani avevano l’orribile
consuetudine di lasciare i cadaveri appesi
alla croce, in preda agli animali e
ai corvi, soprattutto quelli condannati
per lesa maestà; un terribile monito
per tutti i sudditi.
La concessione del corpo ai
famigliari era un’eccezione, fatta per
manifestare la generosità di Roma; troppo
buoni, perché: “In Cina,
i famigliari del condannato a morte
devono pagare il prezzo della
pallottola con cui si procede
all’esecuzione, se vogliono il corpo”.
In Giudea, però, le cose
funzionavano diversamente; non c’era nessuna
intenzione di forzare la mano, di
accentuare i dissidi, perciò i corpi erano
restituiti ai famigliari che ne
facevano richiesta, tanto più in quella
vigilia di pasqua.
Il tutta fretta, perciò, i
famigliari, aiutati dai soldati, devono schiodare
i piedi del condannato, deporlo in
un lenzuolo e provvedere alla sepoltura.
È Giuseppe d’Arimatea a trovare il
coraggio.
È un influente membro del Sinedrio,
insieme a Nicodemo.
Non è riuscito a salvare Gesù dalla
condanna e ora vuole,
almeno, dargli una sepoltura degna.
Entra da Pilato, piuttosto
impressionato che un membro del Sinedrio
contragga l’impurità alla vigilia della
pasqua entrando da un pagano,
pur non essendo un famigliare del
condannato, e chiede il corpo del Nazareno.
Pilato è stupito della velocità
della morte di Gesù,
e concede la sepoltura privata.
Giuseppe compra un lenzuolo, una
sindone di prezioso lino, e fa deporre
Gesù in una tomba adiacente al
Golgota, la tomba che ha fatto preparare
per sé, una tomba preziosa, di un
uomo importante, scavata nella roccia e
protetta da una pesante chiusura in
pietra.
Come quella che chiude
il nostro cuore!
Contrae l’impurità per la seconda
volta, toccando un cadavere.
Non avrà più tempo per purificarsi.
Non celebrerà la pasqua.
Non ne ha neppure voglia, ora che
il suo cuore è gonfio di dolore.
Non ha da preoccuparsi, Giuseppe
d’Arimatea;
fra pochi giorni potrà celebrare
una Pasqua nuova.
E rivedere il suo Maestro.
Ci sono dei momenti, nella vita, in
cui il nostro cuore è impietrito,
insensibile, raggelato, in cui non abbiamo
più nulla da offrire al Signore,
in cui abbiamo l’impressione che
Dio, nella nostra vita, sia morto e
sepolto; in quei momenti non ci
resta che offrire il nostro cuore,
freddo come una tomba, e accogliere
il Cristo perché lo riscaldi.
L’ultimo regalo fatto a Gesù è una
tomba scavata nella pietra.
L’ultimo, disperato, straziante
gesto di affetto di un discepolo
che pensava di avere trovato in
Gesù la novità della fede,
la pienezza della vita, il sorriso
di Dio.
Giuseppe non ha potuto salvare il
suo Maestro.
Non i suoi denari, non la sua
influenza, non la sua cultura, l’hanno salvato.
Con il cuore pesante, non gli resta
che offrire la sua tomba.
Non ha da preoccuparsi, Giuseppe; fra
tre giorni gli verrà restituita, intatta.
Gli lascio un solo suggerimento; è
bene che si guardi in giro e che trovi
un’altra tomba; quella che ospita
temporaneamente il cadavere di Dio
sarà luogo di culto e di
contraddizione, per millenni.
I romani ricostruendo Gerusalemme
rasa al suolo dalle truppe di Tito,
penseranno bene di edificare su di
essa un tempio dedicato a Venere,
per impedire ai discepoli del
Nazareno di radunarsi in quel luogo.
La regina Elena, madre
dell’imperatore cristiano Costantino, farà
abbattere il tempio e ritrovare la
tomba, la cui memoria era stata
conservata preziosamente per due
secoli dalla comunità locale.
Il sepolcro non ha bisogno dello
splendore, ne della
dignità che vorremmo attribuirgli
devotamente.
La tomba che non è riuscita a
contenere Dio,
non ha bisogno delle nostre
devozioni.
Ma è lì, coperta di marmi e stoffe,
un piccolo luogo al centro di una
grande cupola pericolante, a
ricordare a tutti che Dio non è
stato sconfitto.
No, la tomba, a Giuseppe
d’Arimatea, non verrà più restituita.
Per quel che gli importa.
Giovanni inserisce nel racconto
anche la presenza di Nicodemo,
un importante rabbì fariseo che
cerca Gesù,
anche se di notte, per non
sbilanciarsi troppo.
Come abbiamo già visto, Nicodemo
cercherà in qualche modo di proteggere
Gesù, di chiedere per Lui un
procedimento giusto, senza ottenerlo.
Ora che Gesù è morto, Nicodemo non
ha più paura di esporsi,
anche di fronte ai suoi confratelli
di fede e al Sinedrio.
Perde la faccia volentieri, per
testimoniare il suo affetto per il Maestro.
Venne anche Nicodemo, il
quale già prima era andato da Lui di notte,
portando una mistura di
mirra e di aloe di circa centro libbre (GV 19,39).
Alcuni storici, storcono il naso;
non era affatto abituale,
in Israele, imbalsamare un cadavere
e la quantità
degli unguenti (trenta chili!) è
davvero sproporzionata.
Probabilmente la grande mole di
mirra e aloe servivano
ad evitare temporaneamente la
decomposizione
del corpo di Gesù, essendo degli
antisettici naturali,
per poter in seguito provvedere ai
riti di lavaggio
e di purificazione, impediti dalla
fretta della sepoltura.
Come sempre Giovanni è uno storico
affidabile,
pur sovrapponendo gli eventi e la
loro interpretazione.
Da parte mia, ho una sola
annotazione da fare a Nicodemo;
gli onori, ai profeti, è meglio
farli da vivi, che da morti.
Troppe persone si schierano dopo,
troppi profeti sono
riconosciuti come tali dopo la loro
morte (spesso tragica).
Cerchiamo di essere coerenti, per
favore.
La pietra è posta dinanzi al
sepolcro,
per impedire agli animali di
violare il corpo di Gesù.
Dal tempio arriva il suono di
richiamo che annuncia l’inizio
della festa, tutti rientrano in
casa per accendere le luci di quel
sabato particolare, che coincide con
la festa di pasqua.
Nicodemo e Giuseppe non
parteciperanno alla festa,
probabilmente, essendosi
contaminati con un cadavere.
Così come gli apostoli, fuggiti e
nascosti nelle campagne attorno
alla città.
Non celebrerà la pasqua neppure
Giovanni, rifugiatosi con la Madre
di Gesù, nella città alta, negli
alloggi dei sacerdoti.
Pilato, cenando alla fortezza
Antonia, o al Pretorio,
penserà alla bella soddisfazione
presa con il Sinedrio e
proverà disagio ricordando quel
Galileo un po’ filosofo.
La gente, in casa, canterà la
benedizione, mentre un bambino porrà
la domanda rituale; cosa
festeggiamo oggi?
E il capo famiglia racconterà la
fuga dal faraone del popolo guidato da Mosè.
Gesù, cadavere, giace nell’oscurità
di una tomba scavata nella roccia.
Fine della storia, fine
dell’illusione, fine di una brillante carriera di profeta.
Fine di un sogno.
Fine di un normale movimento
religioso moderno.
Fine! O forse no. Il dopo è un’altra storia!
Ed allora aspettiamo con
trepidazione il giorno dopo il Sabato
aiutandoci con la preghiera. Fausto
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