giovedì 13 aprile 2017

LA NOTTE DEL GETZEMANI.
Chiudo gli occhi, prego!
Vedo Gesù, in mezzo agli ulivi, lo sento pregare.
Sto a distanza, come hanno fatto gli apostoli.
È la notte del giovedì santo.
Immagino lo stato d’animo del Rabbì, non è difficile; 
basta aprire il cuore.
Sono turbato, emozionato e commosso.
Allora iniziamo meditando il racconto di Marco.
(MC 14,32-42).
La cena si è conclusa.
Gesù, con i suoi, discende la scalinata verso il Cedron, attraversa il fiume
in secca, costeggiando gruppi di pellegrini che bivaccano in attesa della
pasqua, e si dirige verso un podere di proprietà di un conoscente, o parente.
È abituale, questa passeggiata; Gesù fa questo tragitto quando va dai suoi
amici a Betania e, fanno intendere gli evangelisti, quando, spesso, si ritira
in questo luogo solitario, prospiacente il tempio, per pregare.
Ma il suo stato d’animo, oggi, è completamente diverso.
Non è la prima volta che Gesù si ritira a pregare (MC 1,22; 6,46), la sua vita
di preghiera è ben testimoniata dai vangeli, in particolare da quello di Luca.
Gesù prende con se Pietro, Giacomo e Giovanni, i discepoli della
prima ora, quelli che lo hanno conosciuto all’inizio, quando Gesù
era ospitato a Cafarnao, sul lago, nella casa di Cefa.
Nei momenti più intensi e particolari, o in quelli che richiedono
un numero più ristretto di testimoni rispetto al gruppo dei Dodici,
Gesù vuole proprio loro tre accanto.
Nel Vangelo di Marco, la presenza dei tre è legata a qualche evento
straordinario e basilare nella comprensione di chi sia veramente Gesù.
Quando risuscita la figlia di Giairo (MC 5,37), manifesta la sua
potenza sulla morte, testimoniando che Egli è la vita.
Nella trasfigurazione (MC 9,2-8), Gesù anticipa la
Gloria della risurrezione e svela la sua identità profonda.
Infine, nella profezia della caduta di Gerusalemme (MC 13,3),
Gesù annuncia il suo ritorno nella Gloria, nella pienezza dei tempi.
Anche noi siamo invitati a far parte del gruppo ristretto dei tre,
 a seguire Gesù nei momenti più intensi.
Qui al Getsemani, ancora, Gesù chiede ai tre di seguirlo, e Marco
svela l’inatteso volto di un Dio che si spaventa, che è pieno di angoscia,
che condivide, senza falsità, i tratti più deboli della natura umana.
Chi è Gesù. Si chiede Marco nel suo Vangelo.
È il Signore della vita, colui che manifesta la sua vera natura,
colui che tornerà nella Gloria.
Ma anche colui che vive la sua umanità acquisita totalmente,
senza parentesi, senza vantaggi.
Il discepolo è chiamato a seguire Gesù sulla via della Gloria che,
però, passa attraverso la notte del Getsemani.
Il desiderio, il bisogno del Signore, che chiede amicizia e vicinanza,
ci svela il volto autentico di Dio, che non è immutabile e impassibile ma,
in Gesù, sperimenta tutta la fragilità dell’umanità.
I discepoli, nel corso della storia, hanno capito di Gesù questa
verità straordinaria; in Lui coabitano, senza confondersi,
la pienezza dell’umanità e la pienezza della divinità.
Gesù non è un grande uomo pieno di intuizioni spirituali.
Gesù non è un involucro che contiene Dio.
Gesù è totalmente uomo, eccetto il peccato che, in effetti,
rappresenta la non—umanità, e totalmente Dio.
Queste due dimensioni in Lui coabitano, ponendosi a servizio
del Regno e dell’annuncio del vero volto di Dio.
Riguardo alle cose di Dio, Gesù ha la piena conoscenza,
perché Lui e il Padre sono una cosa sola.
Riguardo alle cose degli uomini, Gesù, come noi,
ha una conoscenza parziale e limitata.
Gesù non finge di avere paura, non conosce il suo futuro,
se non affidandosi alle mani del Padre.
Probabilmente Gesù non si aspetta una fine del genere.
L’angoscia che prende Gesù non è finta, non è immotivata, non è inspiegabile.
È l’angoscia dell’uomo di fronte alla propria morte.
Peggio. Davanti alla propria morte ingiusta e violenta.
Peggio. Davanti al fallimento della propria vita, che forse è quello
che ha fatto più male a Gesù. Marco lo sa.
Dice che Gesù è colto da terrore e spavento, e la sua anima è triste
fino alla morte.
Gesù inizia a pregare e prova sbalordimento, è atterrito, impietrito,
sconcertato.
I verbi usati da Marco, fanno notare i biblisti, descrivono il massimo
dell’intensità possibile, un’angoscia estrema, uno stupore assoluto.
Gesù è atterrito, scosso, sconvolto.
La preghiera gli fa prendere coscienza dell’abisso che ha di fronte.
Non sempre però la preghiera porta con sé la pace.
A volte scombussola la nostra vita.
Non per questo Gesù smette di pregare.
Cosa teme il Signore? Il dolore fisico?
Forte, terribile, atroce, ma pur sempre limitato nel tempo?
Cosa teme, di cosa ha paura?
Del senso di fallimento che lo assale, per aver
sbagliato strategia nell’annuncio del Regno?  NO!
Gesù ha paura dell’inutilità del suo sacrificio.
Perché mai la sua morte dovrebbe cambiare le cose?
Chi se ne accorgerà?
Siamo sinceri; gli apostoli si stanno dimostrando ben al di sotto delle
legittime aspettative, la folla gli ha girato le spalle, i capi dei sacerdoti
e i sadducei lo considerano un pericolo, i farisei un arrogante.
La più grande paura di Gesù, l’ultima tentazione di Cristo,
è la prospettiva dell’inutilità del suo sacrificio.
Migliaia di uomini sono morti crocifissi a Gerusalemme,
sotto l’impero romano.
Di quanti di loro conosciamo il nome? Di pochi, quasi di nessuno.
Il grande rischio che Dio sta correndo è la dimenticanza, finire, forse,
nel ricordo vago di un manipolo di esagitati, diventare una delle tante,
troppe vittime del gioco politico e del potere lungo la storia, un numero
da statistica, un caso esemplare.
Per far capire al popolo chi comanda.
Il quel momento, in quel preciso momento,
Gesù sa che la sua opera sta per essere annientata.
E che può, per sempre, essere dimenticata.
Molti di noi, credo, in un sussulto di orgoglio e di eroismo,
sarebbero disposti a donare la propria vita.
A patto di finire sui giornali e di vedersi dedicare,
eventualmente, un bel monumento in una piazza cittadina.
Gesù affronta la sua fine, evitabile, (basterebbe fuggire),
consapevole di voler andare fino in fondo.
Perché vuole andare fino in fondo? Perché la croce?  Che senso ha?
Altro è dire, altro è morire! Altro è predicare, altro è morire!
Altro è essere buoni quando tutti applaudono, altro perdonare appeso alla croce!
La croce è la suprema manifestazione dell’amore di Dio agli uomini.
Fino a questo punto siamo amati.
La croce mostra la serietà assoluta dell’amore di Dio per noi.
Capirà l’umanità?
Capirà che Dio si consegna alla volontà degli uomini,
visto che gli uomini non vogliono consegnarsi alla volontà di Dio?
Credo proprio di no!
L’angoscia di Gesù si fonda sulla consapevolezza
che il suo sacrificio potrebbe rivelarsi inutile.
È un rischio, il suo, il più terribile.
La sua anima è triste fino alla morte.
La sua anima è triste da morire. Da morirne.
A chi, fra noi, non è mai successo?
Di vivere un momento di tenebra, di scoraggiamento,
di depressione che ci fa morire pur essendo ancora vivi?
Di sperimentare un fallimento affettivo, una malattia,
una delusione lavorativa, una crisi economica, e di non farcela?
Questa immagine di Gesù che confida ai suoi una tristezza
mortale mi impressiona, mi scuote nel profondo.
Anche Dio ha sperimentato l’angoscia.
Ma questa angoscia non l’ha fermato, non l’ha schiantato, lo ha
portato a superare il suo desiderio di fuga e ad andare fino in fondo.
Gesù soffre per obbedienza, non gli passa neanche
per la mente di non obbedire.
Amici che state leggendo, se siete tristi fino a sentirvi morire
dentro, Dio sa di cosa parlate.
Siamo soli, davanti al dolore estremo.
Dio non è un analgesico, non è un anestetico.
Ma è presente e vicino, solidale, si fa prossimo, resta con noi e veglia.
Siamo noi invece che ci addormentiamo.
Quanto incoraggia avere accanto, nei momenti del dolore, un amico!
Il dolore resta, ma la solitudine si attenua!
A Gesù è negata anche quest’ultima, debolissima consolazione.
Quanto menefreghismo c’è in noi.
Agli apostoli, pur invitati a vegliare, sono schiantati; le emozioni della
giornata, l’ora tarda; la cena abbondante impediscono loro di restare svegli,
mettiamo pure, anche, il non aver capito quello che stava succedendo.
Non c’è nulla di più pericoloso del sonno dell’anima.
Ci impedisce di vedere cosa accade dentro di noi e intorno a noi.
E il nostro mondo è un mondo che ci anestetizza, riempiendoci di cose
da fare, di persone da incontrare, di obbiettivi da raggiungere.
Perciò, ci manca uno spazio interiore per potere restare svegli.
E Luca aggiunge: “Poi, alzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli
e li trovò addormentati, a motivo della tristezza, (LC 22,45).
Il nostro spirito può essere assopito a causa della tristezza,
dello scoraggiamento, dello sconforto.
Una depressione, un lutto non superato, una visione troppo
pessimistica delle cose ci portano ad un atteggiamento di sonno
spirituale che ci impedisce di vedere la presenza di Dio.
Per quanto possibile, occorre coltivare la gioia nei nostri cuori,
fare in modo che la tristezza non ci spenga.
Gesù chiede agli apostoli vicinanza, conforto, amicizia.
È bello pensare alla preghiera come una compagnia di Dio,
come un incoraggiamento all’uomo che soffre.
È bello pensare che la preghiera non è solo chiedere,
ma anche esserci e donarsi.
L’invito che Gesù ancora rivolge a tutti noi è quello di vegliare,
di non lasciarci assopire dal sonno della vita.
Gesù torna, dopo la terza volta.
I suoi non hanno retto, pazienza, sarà forse per un’altra volta, forse.
Dio non ama la sofferenza e non la cerca.
La sofferenza mette a dura prova la fede e resta una delle principali
obiezioni alla volontà di Dio.
Come può un Dio buono permettere il dolore?
E, in particolare, il dolore dell’innocente?
Perché Dio non interviene a favore dell’oppresso, del perseguitato?
Gli adulti soffrono, spesso, in conseguenza delle proprie scelte.
Ma i bambini, che sono innocenti? Siamo onesti.
Quando accusiamo Dio della sofferenza che viviamo,
dovremmo prima farci un bell’esame di coscienza.
Dio non ferma le guerre perché siamo noi a doverle fermare.
Dio non sfama magicamente i bambini che muoiono di fame,
perché siamo noi a dover ridistribuire le risorse.
(In Europa si spende in prodotti dietetici quanto l’Etiopia
spenda per sfamarsi!). E allora, di chi è la colpa?
Dio non sceglie quando una persona deve morire; non si alza al mattino
e, in vestaglia e assonnato, si mette dinanzi a una gigantesca tastiera con
sei milioni di bottoncini, schiacciandoli a caso.
Dio ci tratta da adulti, pensa che l’uomo sia in grado di vivere
in pace, di essere solidale, di vivere sobriamente.
Vogliamo guardare al problema dell’obesità.
Certo, un po’ di umiltà non guasterebbe, al genere umano.
La natura ha il suo ciclo, nasce, cresce e muore.
E anche noi siamo così, come ogni creatura, viviamo un ciclo di vita
più o meno lunga, nasciamo, cresciamo, ci ammaliamo, moriamo.
Scusate; qualcuno può dirmi se prima di venire al mondo, ha
fatto un contratto con il Signore, di quanto sarà lunga la sua vita?
Eppure, diversamente dalle altre creature,
l’uomo non accetta la propria morte, si ribella.
Che mistero il cuore dell’uomo!
Questa ribellione, in un certo senso, rivela la sua dignità, è prova
della sua natura divina, del suo volere, sempre, andare oltre.
Ma perché Dio non interviene direttamente?
Perché ci tratta da adulti, dicevamo, e perché la creazione ha una
sua armonia, una sua logica, che Dio stesso rispetta e non stravolge.
E perché Dio rispetta la nostra libertà.
Quando una sera, una moglie disperata mi manifestava la sua
sofferenza per una improvvisa separazione e mi diceva: “Prego
tanto, ma perché Dio non interviene?”.
Ho sorriso: anche Dio fa quel che può, ho risposto.
Se tuo marito ostinatamente tiene chiuso il cuore, come può Dio parlargli?
Alcuni, purtroppo, ancora oggi, pensano che la
sofferenza sia una punizione di Dio.
Gesù ha definitivamente sciolto il legame peccato/malattia, colpa/punizione,
smentendo la diceria che vedeva negli ammalati dei maledetti, dei puniti,
adoperandosi per guarirli prima dai loro sensi di colpa, poi dalle loro infermità.
Gesù sa bene che la malattia e la morte non sono una punizione divina;
i giudei morti sotto il crollo della torre di Siloe o per mano di Pilato, non
erano particolarmente malvagi, (LC 13,1-5), e la colpa della loro morte
è da ricercare nell’imperizia del progettista e nell’arroganza del prefetto,
non in Dio.
Ma, aggiunge Gesù, davanti a questi fatti il discepolo è chiamato
a tenersi pronto a qualunque evento, a cercare l’altrove.
Ma qui Gesù va oltre.
Dio non interviene a togliere il dolore. Lo assume su di sé.
Il Getsemani ci rivela un Dio che non cancella la sofferenza, la condivide.
Lo vogliamo davvero, un Dio così? Sinceramente non lo so!
Tre volte Gesù chiede agli apostoli di pregare.
Pregare per condividere con Gesù la gioia e il dolore del
mondo può essere una gran bella scoperta.
Però Matteo aggiunge un particolare.
Gesù chiede ai suoi, e a noi, di vegliare e di pregare
per non entrare in tentazione.
La preghiera, in certe occasioni, ci è indispensabile
per non entrare nella tentazione.
È difficile pregare, oggi onestamente.
Molte persone che ho incontrato, mi hanno manifestato
la loro fatica a trovare tempi e parole per pregare.
La liturgia delle ore è impegnativa, il rosario non a tutti piace,
la messa quotidiana è impraticabile da chi lavora e ha famiglia.
Così molti non trovano il modo di praticare una preghiera
coinvolgente, soddisfacente, che li faccia crescere.
Ma la stragrande maggioranza del popolo cristiano, non capisce la
necessità di una pratica di preghiera costante e quotidiana.
Nei momenti di festa va bene, magari nei momenti drammatici
della vita si ricorre a tutte le preghiere conosciute.
Ma, in fondo, perché pregare?
Gesù, nel Getsemani, ce ne offre la ragione principale; per non
entrare in tentazione. Quale tentazione?
La peggiore del nostro tempo; quella della dimenticanza.
I ritmi lavorativi e di vita sono così frenetici da
impedirci di rientrare in noi stessi.
Il dramma della nostra cristianità è, semplicemente,
quella di avere perso Cristo.
Bombardati da mille informazioni, spesso inutili, siamo ingombri
di pensieri e di cose da fare e rischiamo di giungere, esausti,
alla fine delle nostre giornate, senza avere avuto alcun confronto
con la nostra interiorità.
Il sale della nostra vita, la fede, rischia di perdere il sapore e,
così, diventiamo insipidi.
La preghiera diventa, allora, l’opportunità quotidiana minima di ricordarci
chi siamo, e chi è Dio, cos’è la vita, e cosa siamo chiamati a vivere.
Come se, alzando un tombino sul marciapiede della nostra città,
ci accorgessimo che sotto scorre l’oceano.
Abbiamo urgente bisogno di preghiera, di silenzio,
di meditazione, di spessore, di verità.
Abbiamo bisogno della Parola, come il pane.
Anche solo per cinque minuti al giorno, lo spazio interiore di preghiera
e riflessione ci è necessario per non cadere nel sonno dell’oblio,
della stanchezza esistenziale, dell’intasamento emozionale.
L’invito che Gesù rivolge alla Chiesa resta attuale e pieno di forza;
vegliamo per non entrare nella tentazione di lasciarci vivere.
Eccolo qui, il tempo opportuno.
L’avversario non giunge mai quando siamo in piena forma,
al pieno delle nostre capacità spirituali e di discernimento.
Giunge nel momento più difficile, quando siamo deboli, fragili, confusi.
Noi vorremmo una vita spirituale in discesa,
una santità senza scosse, un discepolato perfetto, pulito.
Che noia la tentazione! Che fastidio i nostri limiti!
Come vorremmo presentarci a Gesù con il nostro
ego spirituale tirato a lucido!
Gesù non la pensa così: “Quando lo spirito immondo esce da un uomo,
se ne va per luoghi aridi cercando sollievo, ma non ne trova.
Allora dice; ritornerò alla mia abitazione, da cui sono uscito.
E tornato la trova vuota, spazzata e adorna.
Allora va, si prende sette altri spiriti peggiori ed entra a
prendervi dimora; e la nuova condizione di quell’uomo
diventa peggiore della prima (MT 12,43-45).
A volte è meglio imparare a convivere con i propri limiti e le proprie
povertà, che permettono di restare nell’umiltà.
Una cosa è certa; l’avversario ci prende nel momento
di maggiore fatica interiore.
L’avversario trova Gesù solo, affaticato, deluso, scoraggiato, e lo assale.
Dopo decenni di idiozie dette sul demonio, di film deliranti,
è difficile parlare serenamente dell’avversario.
Eppure c’è, e agisce.
È l’ombra, la parte oscura dentro di noi, quella che distrugge, scoraggia,
avvilisce, deprime, porta a compiere gesti di autolesionismo.
Si insinua nel pensiero, è ragionevole, è convincente.
Perché andare a farsi massacrare? A cosa serve?
I suoi stanno dormendo, la missione è fallita, deve riconoscerlo, Gesù!
Forse aveva ragione l’avversario, nel deserto; è stato troppo ingenuo
il Signore, pensando di convertire l’umanità con le parole e il sorriso.
Ben altro ci vuole!
Prodigi, miracoli eclatanti, compromessi!
Ora Gesù raccoglie ciò che ha seminato; il nulla.
Perché andare a farsi uccidere? È inutile!
Nella prova, se perseveriamo nella preghiera, può succedere che il
Signore ci mandi degli angeli a consolarci.
Possono essere amici che telefonano per invitarci a cena, un fratello
nella fede che ci promette preghiera, un piccolo segno durante la giornata.
L’importante è avere il cuore aperto, orante, che sappia riconoscere i
piccoli, discreti segni della presenza consolante e incoraggiante di Dio.
Coraggio allora, amici, in questa notte di buio facciamo compagnia
a Gesù con la nostra preghiera. Fausto.



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