LA NOTTE DEL GETZEMANI.
Chiudo gli occhi, prego!
Vedo Gesù, in mezzo agli ulivi, lo
sento pregare.
Sto a distanza, come
hanno fatto gli apostoli.
È la notte del giovedì
santo.
Immagino lo stato d’animo del
Rabbì, non è difficile;
basta aprire il cuore.
Sono turbato, emozionato e
commosso.
Allora iniziamo meditando il
racconto di Marco.
(MC 14,32-42).
La cena si è conclusa.
Gesù, con i suoi, discende la
scalinata verso il Cedron, attraversa il fiume
in secca, costeggiando gruppi di
pellegrini che bivaccano in attesa della
pasqua, e si dirige verso un podere
di proprietà di un conoscente, o parente.
È abituale, questa passeggiata;
Gesù fa questo tragitto quando va dai suoi
amici a Betania e, fanno intendere
gli evangelisti, quando, spesso, si ritira
in questo luogo solitario, prospiacente
il tempio, per pregare.
Ma il suo stato d’animo, oggi, è
completamente diverso.
Non è la prima volta che Gesù si
ritira a pregare (MC 1,22; 6,46), la sua vita
di preghiera è ben testimoniata dai
vangeli, in particolare da quello di Luca.
Gesù prende con se Pietro, Giacomo
e Giovanni, i discepoli della
prima ora, quelli che lo hanno
conosciuto all’inizio, quando Gesù
era ospitato a Cafarnao, sul lago,
nella casa di Cefa.
Nei momenti più intensi e
particolari, o in quelli che richiedono
un numero più ristretto di
testimoni rispetto al gruppo dei Dodici,
Gesù vuole proprio loro tre
accanto.
Nel Vangelo di Marco, la presenza
dei tre è legata a qualche evento
straordinario e basilare nella
comprensione di chi sia veramente Gesù.
Quando risuscita la figlia di
Giairo (MC 5,37), manifesta la sua
potenza sulla morte, testimoniando
che Egli è la vita.
Nella trasfigurazione (MC 9,2-8), Gesù anticipa la
Gloria della risurrezione e svela
la sua identità profonda.
Infine, nella profezia della caduta
di Gerusalemme (MC 13,3),
Gesù annuncia il suo ritorno nella
Gloria, nella pienezza dei tempi.
Anche noi siamo invitati a far
parte del gruppo ristretto dei tre,
a seguire Gesù nei momenti più intensi.
Qui al Getsemani, ancora, Gesù
chiede ai tre di seguirlo, e Marco
svela l’inatteso volto di un Dio
che si spaventa, che è pieno di angoscia,
che condivide, senza falsità, i
tratti più deboli della natura umana.
Chi è Gesù. Si
chiede Marco nel suo Vangelo.
È il Signore della vita, colui che
manifesta la sua vera natura,
colui che tornerà nella Gloria.
Ma anche colui che vive la sua
umanità acquisita totalmente,
senza parentesi, senza vantaggi.
Il discepolo è chiamato a seguire
Gesù sulla via della Gloria che,
però, passa attraverso la notte del
Getsemani.
Il desiderio, il bisogno del
Signore, che chiede amicizia e vicinanza,
ci svela il volto autentico di Dio,
che non è immutabile e impassibile ma,
in Gesù, sperimenta tutta la
fragilità dell’umanità.
I discepoli, nel corso della
storia, hanno capito di Gesù questa
verità straordinaria; in Lui
coabitano, senza confondersi,
la pienezza dell’umanità e la
pienezza della divinità.
Gesù non è un grande uomo pieno di
intuizioni spirituali.
Gesù non è un involucro che
contiene Dio.
Gesù è totalmente uomo, eccetto il
peccato che, in effetti,
rappresenta la non—umanità, e totalmente Dio.
Queste due dimensioni in Lui
coabitano, ponendosi a servizio
del Regno e dell’annuncio del vero
volto di Dio.
Riguardo alle cose di Dio, Gesù ha
la piena conoscenza,
perché Lui e il Padre sono una cosa
sola.
Riguardo alle cose degli uomini,
Gesù, come noi,
ha una conoscenza parziale e
limitata.
Gesù non finge di avere paura, non
conosce il suo futuro,
se non affidandosi alle mani del
Padre.
Probabilmente Gesù non si aspetta
una fine del genere.
L’angoscia che prende Gesù non è
finta, non è immotivata, non è inspiegabile.
È l’angoscia dell’uomo di fronte
alla propria morte.
Peggio. Davanti alla
propria morte ingiusta e violenta.
Peggio. Davanti al
fallimento della propria vita, che forse è quello
che ha fatto più male a Gesù. Marco lo sa.
Dice che Gesù è colto da terrore e
spavento, e la sua anima è triste
fino alla morte.
Gesù inizia a pregare e prova
sbalordimento, è atterrito, impietrito,
sconcertato.
I verbi usati da Marco, fanno
notare i biblisti, descrivono il massimo
dell’intensità possibile,
un’angoscia estrema, uno stupore assoluto.
Gesù è atterrito, scosso, sconvolto.
La preghiera gli fa prendere
coscienza dell’abisso che ha di fronte.
Non sempre però la preghiera porta
con sé la pace.
A volte scombussola la nostra vita.
Non per questo Gesù smette di
pregare.
Cosa teme il Signore? Il dolore
fisico?
Forte, terribile, atroce, ma pur
sempre limitato nel tempo?
Cosa teme, di cosa ha paura?
Del senso di fallimento che lo
assale, per aver
sbagliato strategia nell’annuncio
del Regno? NO!
Gesù ha paura dell’inutilità del
suo sacrificio.
Perché mai la sua morte dovrebbe
cambiare le cose?
Chi se ne accorgerà?
Siamo sinceri; gli apostoli si
stanno dimostrando ben al di sotto delle
legittime aspettative, la folla gli
ha girato le spalle, i capi dei sacerdoti
e i sadducei lo considerano un
pericolo, i farisei un arrogante.
La più grande paura di Gesù,
l’ultima tentazione di Cristo,
è la prospettiva dell’inutilità del
suo sacrificio.
Migliaia di uomini sono morti
crocifissi a Gerusalemme,
sotto l’impero romano.
Di quanti di loro conosciamo il
nome? Di pochi, quasi di nessuno.
Il grande rischio che Dio sta
correndo è la dimenticanza, finire, forse,
nel ricordo vago di un manipolo di
esagitati, diventare una delle tante,
troppe vittime del gioco politico e
del potere lungo la storia, un numero
da statistica, un caso esemplare.
Per far capire al popolo chi
comanda.
Il quel momento, in quel preciso
momento,
Gesù sa che la sua opera sta per
essere annientata.
E che può, per sempre, essere
dimenticata.
Molti di noi, credo, in un sussulto
di orgoglio e di eroismo,
sarebbero disposti a donare la
propria vita.
A patto di finire sui giornali e di
vedersi dedicare,
eventualmente, un bel monumento in
una piazza cittadina.
Gesù affronta la sua fine,
evitabile, (basterebbe fuggire),
consapevole di voler andare fino in
fondo.
Perché vuole andare fino in fondo? Perché la croce?
Che senso ha?
Altro è dire, altro è morire! Altro è predicare, altro è morire!
Altro è essere buoni quando tutti
applaudono, altro perdonare appeso alla croce!
La croce è la suprema
manifestazione dell’amore di Dio agli uomini.
Fino a questo punto siamo amati.
La croce mostra la serietà assoluta
dell’amore di Dio per noi.
Capirà l’umanità?
Capirà che Dio si consegna alla
volontà degli uomini,
visto che gli uomini non vogliono
consegnarsi alla volontà di Dio?
Credo proprio di no!
L’angoscia di Gesù si fonda sulla
consapevolezza
che il suo sacrificio potrebbe
rivelarsi inutile.
È un rischio, il suo, il
più terribile.
La sua anima è triste
fino alla morte.
La sua anima è triste da
morire. Da morirne.
A chi, fra noi, non è mai successo?
Di vivere un momento di tenebra, di
scoraggiamento,
di depressione che ci fa morire pur
essendo ancora vivi?
Di sperimentare un fallimento
affettivo, una malattia,
una delusione lavorativa, una crisi
economica, e di non farcela?
Questa immagine di Gesù che confida
ai suoi una tristezza
mortale mi impressiona, mi scuote
nel profondo.
Anche Dio ha sperimentato
l’angoscia.
Ma questa angoscia non l’ha
fermato, non l’ha schiantato, lo ha
portato a superare il suo desiderio
di fuga e ad andare fino in fondo.
Gesù soffre per obbedienza, non gli
passa neanche
per la mente di non obbedire.
Amici che state leggendo, se siete
tristi fino a sentirvi morire
dentro, Dio sa di cosa parlate.
Siamo soli, davanti al dolore
estremo.
Dio non è un analgesico, non è un
anestetico.
Ma è presente e vicino, solidale,
si fa prossimo, resta con noi e veglia.
Siamo noi invece che ci
addormentiamo.
Quanto incoraggia avere accanto, nei
momenti del dolore, un amico!
Il dolore resta, ma la solitudine
si attenua!
A Gesù è negata anche quest’ultima,
debolissima consolazione.
Quanto menefreghismo c’è in noi.
Agli apostoli, pur invitati a
vegliare, sono schiantati; le emozioni della
giornata, l’ora tarda; la cena
abbondante impediscono loro di restare svegli,
mettiamo pure, anche, il non aver
capito quello che stava succedendo.
Non c’è nulla di più pericoloso del
sonno dell’anima.
Ci impedisce di vedere cosa accade
dentro di noi e intorno a noi.
E il nostro mondo è un mondo che ci
anestetizza, riempiendoci di cose
da fare, di persone da incontrare, di
obbiettivi da raggiungere.
Perciò, ci manca uno spazio
interiore per potere restare svegli.
E Luca aggiunge: “Poi, alzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli
e li trovò addormentati,
a motivo della tristezza,
(LC 22,45).
Il nostro spirito può essere
assopito a causa della tristezza,
dello scoraggiamento, dello
sconforto.
Una depressione, un lutto non
superato, una visione troppo
pessimistica delle cose ci portano
ad un atteggiamento di sonno
spirituale che ci impedisce di
vedere la presenza di Dio.
Per quanto possibile, occorre
coltivare la gioia nei nostri cuori,
fare in modo che la tristezza non
ci spenga.
Gesù chiede agli apostoli
vicinanza, conforto, amicizia.
È bello pensare alla preghiera come
una compagnia di Dio,
come un incoraggiamento all’uomo
che soffre.
È bello pensare che la preghiera
non è solo chiedere,
ma anche esserci e donarsi.
L’invito che Gesù ancora rivolge a
tutti noi è quello di vegliare,
di non lasciarci assopire dal sonno
della vita.
Gesù torna, dopo la terza volta.
I suoi non hanno retto, pazienza,
sarà forse per un’altra volta, forse.
Dio non ama la sofferenza e non la
cerca.
La sofferenza mette a dura prova la
fede e resta una delle principali
obiezioni alla volontà di Dio.
Come può un Dio buono
permettere il dolore?
E, in particolare, il
dolore dell’innocente?
Perché Dio non interviene a favore
dell’oppresso, del perseguitato?
Gli adulti soffrono, spesso, in
conseguenza delle proprie scelte.
Ma i bambini, che sono innocenti?
Siamo onesti.
Quando accusiamo Dio della
sofferenza che viviamo,
dovremmo prima farci un bell’esame
di coscienza.
Dio non ferma le guerre perché
siamo noi a doverle fermare.
Dio non sfama magicamente i bambini
che muoiono di fame,
perché siamo noi a dover
ridistribuire le risorse.
(In Europa si spende in prodotti
dietetici quanto l’Etiopia
spenda per sfamarsi!). E allora, di chi è la colpa?
Dio non sceglie quando una persona
deve morire; non si alza al mattino
e, in vestaglia e assonnato, si mette
dinanzi a una gigantesca tastiera con
sei milioni di bottoncini,
schiacciandoli a caso.
Dio ci tratta da adulti, pensa che
l’uomo sia in grado di vivere
in pace, di essere solidale, di
vivere sobriamente.
Vogliamo guardare al problema
dell’obesità.
Certo, un po’ di umiltà non
guasterebbe, al genere umano.
La natura ha il suo ciclo, nasce,
cresce e muore.
E anche noi siamo così, come ogni
creatura, viviamo un ciclo di vita
più o meno lunga, nasciamo, cresciamo,
ci ammaliamo, moriamo.
Scusate; qualcuno può dirmi se
prima di venire al mondo, ha
fatto un contratto con il Signore,
di quanto sarà lunga la sua vita?
Eppure, diversamente dalle altre
creature,
l’uomo non accetta la propria
morte, si ribella.
Che mistero il cuore
dell’uomo!
Questa ribellione, in un certo
senso, rivela la sua dignità, è prova
della sua natura divina, del suo
volere, sempre, andare oltre.
Ma perché Dio non interviene
direttamente?
Perché ci tratta da adulti,
dicevamo, e perché la creazione ha una
sua armonia, una sua logica, che
Dio stesso rispetta e non stravolge.
E perché Dio rispetta la nostra
libertà.
Quando una sera, una moglie
disperata mi manifestava la sua
sofferenza per una improvvisa
separazione e mi diceva: “Prego
tanto, ma perché Dio non
interviene?”.
Ho sorriso: anche Dio fa quel che
può, ho risposto.
Se tuo marito ostinatamente tiene
chiuso il cuore, come può Dio parlargli?
Alcuni, purtroppo, ancora oggi,
pensano che la
sofferenza sia una punizione di
Dio.
Gesù ha definitivamente sciolto il
legame peccato/malattia, colpa/punizione,
smentendo la diceria che vedeva
negli ammalati dei maledetti, dei puniti,
adoperandosi per guarirli prima dai
loro sensi di colpa, poi dalle loro infermità.
Gesù sa bene che la malattia e la
morte non sono una punizione divina;
i giudei morti sotto il crollo
della torre di Siloe o per mano di Pilato, non
erano particolarmente malvagi, (LC 13,1-5), e la colpa della loro morte
è da ricercare nell’imperizia del
progettista e nell’arroganza del prefetto,
non in Dio.
Ma, aggiunge Gesù, davanti a questi
fatti il discepolo è chiamato
a tenersi pronto a qualunque
evento, a cercare l’altrove.
Ma qui Gesù va oltre.
Dio non interviene a togliere il
dolore. Lo assume su di sé.
Il Getsemani ci rivela un Dio che
non cancella la sofferenza, la condivide.
Lo vogliamo davvero, un Dio così? Sinceramente
non lo so!
Tre volte Gesù chiede agli apostoli
di pregare.
Pregare per condividere con Gesù la
gioia e il dolore del
mondo può essere una gran bella
scoperta.
Però Matteo aggiunge un particolare.
Gesù chiede ai suoi, e a noi, di
vegliare e di pregare
per non entrare in tentazione.
La preghiera, in certe occasioni,
ci è indispensabile
per non entrare nella tentazione.
È difficile pregare, oggi
onestamente.
Molte persone che ho incontrato, mi
hanno manifestato
la loro fatica a trovare tempi e
parole per pregare.
La liturgia delle ore è
impegnativa, il rosario non a tutti piace,
la messa quotidiana è impraticabile
da chi lavora e ha famiglia.
Così molti non trovano il modo di
praticare una preghiera
coinvolgente, soddisfacente, che li
faccia crescere.
Ma la stragrande maggioranza del
popolo cristiano, non capisce la
necessità di una pratica di
preghiera costante e quotidiana.
Nei momenti di festa va bene, magari
nei momenti drammatici
della vita si ricorre a tutte le
preghiere conosciute.
Ma, in fondo, perché pregare?
Gesù, nel Getsemani, ce ne offre la
ragione principale; per non
entrare in tentazione. Quale tentazione?
La peggiore del nostro tempo; quella della dimenticanza.
I ritmi lavorativi e di vita sono
così frenetici da
impedirci di rientrare in noi
stessi.
Il dramma della nostra cristianità
è, semplicemente,
quella di avere perso Cristo.
Bombardati da mille informazioni,
spesso inutili, siamo ingombri
di pensieri e di cose da fare e
rischiamo di giungere, esausti,
alla fine delle nostre giornate,
senza avere avuto alcun confronto
con la nostra interiorità.
Il sale della nostra vita, la fede,
rischia di perdere il sapore e,
così, diventiamo insipidi.
La preghiera diventa, allora,
l’opportunità quotidiana minima di ricordarci
chi siamo, e chi è Dio, cos’è la
vita, e cosa siamo chiamati a vivere.
Come se, alzando un tombino sul
marciapiede della nostra città,
ci accorgessimo che sotto scorre
l’oceano.
Abbiamo urgente bisogno di
preghiera, di silenzio,
di meditazione, di spessore, di
verità.
Abbiamo bisogno della Parola, come
il pane.
Anche solo per cinque minuti al
giorno, lo spazio interiore di preghiera
e riflessione ci è necessario per non
cadere nel sonno dell’oblio,
della stanchezza esistenziale,
dell’intasamento emozionale.
L’invito che Gesù rivolge alla
Chiesa resta attuale e pieno di forza;
vegliamo per non entrare nella
tentazione di lasciarci vivere.
Eccolo qui, il tempo
opportuno.
L’avversario non giunge mai quando
siamo in piena forma,
al pieno delle nostre capacità
spirituali e di discernimento.
Giunge nel momento più difficile, quando
siamo deboli, fragili, confusi.
Noi vorremmo una vita spirituale in
discesa,
una santità senza scosse, un
discepolato perfetto, pulito.
Che noia la tentazione! Che
fastidio i nostri limiti!
Come vorremmo presentarci a Gesù
con il nostro
ego spirituale tirato a lucido!
Gesù non la pensa così: “Quando lo spirito immondo esce da un uomo,
se ne va per luoghi aridi
cercando sollievo, ma non ne trova.
Allora dice; ritornerò
alla mia abitazione, da cui sono uscito.
E tornato la trova vuota,
spazzata e adorna.
Allora va, si prende
sette altri spiriti peggiori ed entra a
prendervi dimora; e la
nuova condizione di quell’uomo
diventa peggiore della
prima (MT 12,43-45).
A volte è meglio imparare a
convivere con i propri limiti e le proprie
povertà, che permettono di restare
nell’umiltà.
Una cosa è certa; l’avversario ci
prende nel momento
di maggiore fatica interiore.
L’avversario trova Gesù solo,
affaticato, deluso, scoraggiato, e lo assale.
Dopo decenni di idiozie dette sul
demonio, di film deliranti,
è difficile parlare serenamente dell’avversario.
Eppure c’è, e agisce.
È l’ombra, la parte oscura dentro
di noi, quella che distrugge, scoraggia,
avvilisce, deprime, porta a
compiere gesti di autolesionismo.
Si insinua nel pensiero, è
ragionevole, è convincente.
Perché andare a farsi massacrare?
A cosa serve?
I suoi stanno dormendo, la missione
è fallita, deve riconoscerlo, Gesù!
Forse aveva ragione l’avversario,
nel deserto; è stato troppo ingenuo
il Signore, pensando di convertire l’umanità
con le parole e il sorriso.
Ben altro ci vuole!
Prodigi, miracoli
eclatanti, compromessi!
Ora Gesù raccoglie ciò che ha
seminato; il nulla.
Perché andare a farsi uccidere? È inutile!
Nella prova, se
perseveriamo nella preghiera, può succedere che il
Signore ci mandi degli
angeli a consolarci.
Possono essere amici che
telefonano per invitarci a cena, un fratello
nella fede che ci
promette preghiera, un piccolo segno durante la giornata.
L’importante è avere il
cuore aperto, orante, che sappia riconoscere i
piccoli, discreti segni
della presenza consolante e incoraggiante di Dio.
Coraggio allora, amici, in questa
notte di buio facciamo compagnia
a Gesù con la nostra preghiera.
Fausto.
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