giovedì 1 aprile 2021

Il Vangelo del Venerdì 2 Aprile 2021

 

Venerdì Santo.

Passione del Signore nostro Gesù Cristo.

Prima lettura.

Egli è stato trafitto per le nostre colpe.

Dal libro del profeta Isaìa (52,13-53,12)

Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente.

Come molti si stupirono di lui-tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto

e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo-, così si meraviglieranno di lui

molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto

mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito.

Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?

A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?

È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida.

Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per

poterci piacere.

Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno

davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.

Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori;

e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.

Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità.

Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo

stati guariti.

Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada;

il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.

Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto

al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.

Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità?

Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.

Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse

commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca.

Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.

Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza,

vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.

Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza;

il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.

Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché

ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre

egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

Parola di Dio.

Seconda lettura.

Cristo imparò l'obbedienza e divenne causa di salvezza per tutti coloro

che gli obbediscono.

Dalla lettera agli Ebrei (4,14-16; 5,7-9)

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i

cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.

Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre

debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.

Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia

e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.

[Cristo, infatti,] nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con

forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno

abbandono a lui, venne esaudito.

Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne

causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

Parola di Dio.

Vangelo.

Passione del Signore.

Dal Vangelo secondo Giovanni (18,1-19,42) anno dispari.

-Catturarono Gesù e lo legarono.

In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove

c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli.

Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era

trovato là con i suoi discepoli.

Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie

fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi.

Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi

e disse loro: «Chi cercate?».

Gli risposero: «Gesù, il Nazareno».

Disse loro Gesù: «Sono io!».

Vi era con loro anche Giuda, il traditore.

Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra.

Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?».

Risposero: «Gesù, il Nazareno».

Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io.

Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la

parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato».

Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del

sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro.

Quel servo si chiamava Malco.

Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre

mi ha dato, non dovrò berlo?».

-Lo condussero prima da Anna.

Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù,

lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa,

che era sommo sacerdote quell’anno.

Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo

uomo muoia per il popolo».

Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo.

Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù

nel cortile del sommo sacerdote.

Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta.

Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla

portinaia e fece entrare Pietro.

E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli

di quest’uomo?».

Egli rispose: «Non lo sono».

Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo,

e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava.

Il sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento.

Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga

e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto.

Perché interroghi me?

Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto».

Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù,

dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?».

Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male.

Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?».

Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.

-Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono!

Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi.

Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?».

Egli lo negò e disse: «Non lo sono».

Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva

tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?».

Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.

-Il mio regno non è di questo mondo.

Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio.

Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e

poter mangiare la Pasqua.

Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?».

Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato».

Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!».

Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno».

Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte

doveva morire.

Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?».

Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?».

Pilato disse: «Sono forse io Giudeo?

La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».

Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo

mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai

Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».

Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?».

Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re.

Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare

testimonianza alla verità.

Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?».

E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna.

Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per

voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?».

Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!».

Barabba era un brigante.

-Salve, re dei Giudei!

Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare.

E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero

addosso un mantello di porpora.

Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!».

E gli davano schiaffi.

Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché

sappiate che non trovo in lui colpa alcuna».

Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora.

E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».

Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!».

Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa».

Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire,

perché si è fatto Figlio di Dio».

All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura.

Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?».

Ma Gesù non gli diede risposta.

Gli disse allora Pilato: «Non mi parli?

Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?».

Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato

dato dall’alto.

Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».

-Via! Via! Crocifiggilo!

Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà.

Ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare!

Chiunque si fa re si mette contro Cesare».

Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale,

nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà.

Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno.

Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!».

Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!».

Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?».

Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare».

Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.

-Lo crocifissero e con lui altri due.

Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio,

in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno

dall’altra, e Gesù in mezzo.

Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù

il Nazareno, il re dei Giudei».

Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso

era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco.

I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re

dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”».

Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».

-Si sono divisi tra loro le mie vesti.

I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero

quattro parti-una per ciascun soldato-, e la tunica.

Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.

Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca».

Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e

sulla mia tunica hanno gettato la sorte».

E i soldati fecero così.

-Ecco tuo figlio! Ecco tua madre!

Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre

di Clèopa e Maria di Màgdala.

Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse

alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!».

Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!».

E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.

Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse

la Scrittura, disse: «Ho sete».

Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto,

in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca.

Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!».

E, chinato il capo, consegnò lo spirito.

(Qui si genuflette e di fa una breve pausa)

-E subito ne uscì sangue e acqua.

Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce

durante il sabato-era infatti un giorno solenne quel sabato-, chiesero a Pilato

che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via.

Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati

crocifissi insieme con lui.

Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe,

ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.

Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice

il vero, perché anche voi crediate.

Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato

alcun osso».

E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui

che hanno trafitto».

-Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi.

Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto,

per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù.

Pilato lo concesse.

Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo-quello che in

precedenza era andato da lui di notte-e portò circa trenta chili di una mistura di

mirra e di áloe.

Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi,

come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura.

Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un

sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto.

Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e dato che il sepolcro

era vicino, posero Gesù.

Parola del Signore.

Meditazione personale sul Vangelo di oggi.

Il <<processo>> è finito, ognuno ha avuto ciò che desiderava; Pilato, inaspettatamente,

una pubblica dichiarazione di affetto verso Cesare da parte dei sommi sacerdoti;

Caifa, dopo un’estenuante duello sul filo del rasoio, la condanna per crocifissione

del Nazareno; Erode un’inattesa attenzione da parte del prefetto.

Gesù è una piccola rotella in un complesso mondo, in cui ognuno ha le sue

buone ragioni per farlo fuori.

Dio si usa, quando serve, altrimenti è meglio sbarazzarsene.

Pilato allora decretò che fosse eseguita la loro richiesta.

Rilasciò quello che era stato messo in prigione per sommossa e omicidio, e che

quelli richiedevano, ma consegnò Gesù alla loro volontà.

Gli uomini non fanno la volontà di Dio.

Gesù, allora, è consegnato alla volontà degli uomini.

Se non avessimo più di duemila anni di predicazione e di Via Crucis alle spalle,

rabbrividiremmo, leggendo questa annotazione di Luca!

La storia degli uomini è anche segnata dal tentativo di convincere le divinità

a piegarsi ai nostri desideri, alle nostre necessità.

La passione ci svela un Dio che accondiscende alla volontà degli uomini, che,

però, è una volontà di morte.

Gesù viene condotto al patibolo perché il volto di Dio che annuncia e rivela

è intollerabile, disturba, scandalizza.

Troppo compassionevole, troppo generoso, troppo amorevole, il suo Dio.

La religione, fino ad allora usata come strumento per mantenere l’ordine costituito,

esce dagli schemi rigidi in cui gli uomini religiosi l’hanno costretta, per diventare

un’esperienza personale, interiore e comunitaria.

Con l’amore di un Dio benevolo e sorridente. Un delirio.

Preferiamo tenerci il volto corrucciato di un Dio antipatico ma potente,

indifferente ma schierato con le nostre ragioni, all’occorrenza.

Gesù va eliminato, non c’è dubbio.

Un profeta abitato dallo Spirito, che ha compiuto solo opere di bene, che ha

smascherato l’ipocrisia nascosta dietro alla devozione senza fede, che ha riletto

con passione e verità la Parola data da Dio agli uomini, riportandola alla sua

origine, è certamente più pericoloso di Barabba, omicida e sobillatore.

I giudei, presero dunque in consegna Gesù.

Egli, portando la croce da sé, uscì verso il luogo detto del Cranio, in ebraico

Gòlgota.

Pilato consegna Gesù a Caifa; si forma un piccolo drappello, composto da soldati

romani e, forse, da soldati del tempio.

Gesù, duramente provato dalla flagellazione che, ricordiamo, poteva portare alla

morte, è caricato del patibolo, una trave che gli è posta sopra le spalle sanguinanti

e legata ai polsi.

A questa trave, una volta arrivati al patibolo, il condannato è inchiodato con due

chiodi, probabilmente passati nel polso, conficcati nel legno e ripiegati, per poi

essere innalzato, sollevato da quattro soldati, e appoggiato sopra un palo verticale

precedentemente fissato, alto non più di due metri.

Il luogo dove Gesù è condotto è il Gòlgota, una cava di pietra in disuso addossata

alla porta ovest della città.

Era abituale trovare delle cave di pietra intorno a Gerusalemme; quella del Gòlgota

è abbandonata; probabilmente la pietra non è di buona qualità, come rivelano gli scavi

sottostanti il Santo Sepolcro, e qualcuno l’ha riadattata per scavare delle preziose tombe.

Il Gòlgota perciò confina con una serie di ricche tombe scavate nella roccia e

circondate da un giardino.

Il tragitto che Gesù compie non è lungo; dal palazzo di Erode al Gòlgota ci sono

poche centinaia di metri.

Lo segue una folla di persone; chi lo ha condotto per essere giudicato e vuole essere

sicuro della sua morte, alcuni discepoli, fra cui l’evangelista Giovanni, alcuni curiosi.

La crocifissione avviene fuori della città; dentro le mura, infatti, sarebbe

impossibile, renderebbe impuro il tempio.

Il sommo sacerdote Caifa deve correre al tempio prima del tramonto; le minuziose norme

di purificazione che lo riguardano non devono essere infrante per nulla al mondo;

certamente non esce dalla città e, se assiste all’esecuzione di Gesù, lo fa dall’alto delle mura.

L’idea che Caifa, da lì a poche ora, indosserà i solenni paramenti per uccidere

l’agnello pasquale, mi mette i brividi.

È come se un prete pedofilo, rovinasse un ragazzo e poi andasse a prepararsi

per celebrare l’Eucaristia.

Assiste alla morte di Dio, e pensa di onorarlo offrendogli un agnellino, dopo

avergli massacrato il Figlio.

Spesso nella sua predicazione, Gesù ha parlato di portare la croce, un modo di dire,

forse, derivato dall’esperienza degli abitanti di Gerusalemme che assistevano a

numerose esecuzioni, con i condannati che attraversavano la città portando il patibolo.

Gesù, usando anche l’immagine del giogo del bue, indica la fatica dell’essere

discepoli, l’impegno che comporta convertirsi alla visione di Dio che Egli inaugura,

lo sforzo per adeguarsi alla logica del Regno.

Credere, ciò, comporta una morte a se stessi, una fatica, ma anche una liberazione.

E, invece, questo modo di dire è stato foriero di mille interpretazioni;

e di mille sensi di colpa.

Voglio ancora ribattere un’idea per me fondamentale, visto che Gesù è morto per

proclamare, e che non smetterò di ripetere, a costo di sembrare un paranoico.

Dio non manda le croci, non le ama e ne farebbe volentieri a meno.

La sofferenza, la malattia, i litigi, la depressione, un fallimento lavorativo,

non dipendono da Dio, ma da noi e dagli altri.

Da noi, quando ci facciamo mille giri di testa su cosa vorremmo o dovremmo

essere, e siamo sempre scontenti di noi stessi e della nostra vita.

Dagli altri, quando si divertono a farci tribolare per invidia o per malvagità.

O, ancora, dalla congiuntura internazionale che ha mandato sul lastrico l’azienda

in cui lavoro, dall’inquinamento atmosferico, che è all’origine del mio cancro,

da questa pandemia che ci ha messo letteralmente in crisi e così via.

Gesù parla del discepolato come fatica da assumere, non di un Dio sadico che,

avendola portata Lui, decide di caricarci di una croce per vedere quando crolliamo!

Dio non ci manda la croce e, potendolo, anche Lui ne avrebbe fatto volentieri a meno.

Ma se la croce arriva, o perché altri ci caricano o perché noi stessi ce la costruiamo,

allora bisogna portarla guardando avanti, senza farsi schiacciare.

Conosco devoti, non voi, gli altri, che quando sentono parlare della croce di Gesù

cominciano, davanti a Dio che muore, a lamentarsi dei propri malanni o dei dispetti ricevuti.

Portare la croce non significa alzarsi ogni mattina, piallarla, carteggiarla e verniciarla!

Per quanto dipende da noi, evitiamo di caricarci di croci che non rendono in alcun

modo gloria a Dio e se, invece, ne siamo caricati, allora portiamola uniti a Cristo.

Come Simone! Il Cireneo!

Mentre lo conducevano fuori per crocifiggerlo, costrinsero un passante che

tornava dai campi, Simone di Cirene, padre di Alessandro e Rufo, a portare la

croce di Lui.

Lo condussero, così, al luogo detto Gòlgota, che significa luogo del Cranio.

Gesù non ce la fa proprio; la tensione interiore, la notte insonne, l’interrogatorio,

la flagellazione, gli scherni, il peso del patibolo!

Cade sul selciato e fatica a rialzarsi.

Allora un soldato prende un uomo a caso dalla folla, uno che torna dal lavoro e

che si ferma a vedere cosa succede; (mai fermarsi a curiosare, può succedere anche

di prendere le colpe), slegano la croce e la pongono sulle spalle di Simone di Cirene,

uno sconosciuto di passaggio, (non sempre sono parenti e amici ad aiutarti).

Non un amico, un discepolo, un compagno di avventura; uno sconosciuto.

Prendono uno che compie un gesto forzato, senza entusiasmo, senza generosità,

imprecando in cuor suo, timoroso, anche di essere anch’egli scambiato per un delinquente.

Un temporaneo compagno di malasorte, come un vicino di letto in ospedale, o alla

mensa dei poveri, uno che ha in comune con te solo la disperazione. Eppure.

Non sappiamo nulla di Simone.

Non sappiamo se quel quarto d’ora passato a portare la croce di Gesù sia stato

qualcosa di più di un brutto momento da raccontare, il giorno dopo, ai vicini di casa.

Così è la croce; non desiderata, arriva quando meno te la aspetti, alla fine di una

faticosa giornata di lavoro.

No, Dio non ti manda nessuna croce, nel caso di Simone sono i soldati romani

che gliela impongono.

Ma quel suo gesto obbligato, in qualche modo, l’ha scosso, interrogato, cambiato.

Marco, raccontando il gesto di Simone, non ne parla come di uno sconosciuto, ma

come del padre di Alessandro e Rufo, due persone a lui note, probabilmente due

discepoli che frequentano la comunità di Gerusalemme.

Il gesto di Simone è stato una benedizione per lui e la sua famiglia.

Quando ci troviamo a portare la croce, pensiamo che stiamo aiutando Cristo

a portarla, e che, così facendo, lo aiutiamo a salvare il mondo, manifestando

la misura dell’amore di Dio.

E quel gesto, forzato, non bello, non elegante, può fiorire nella nostra vita

interiore, e in quella di chi amiamo.

Sulla strada che conduce fuori dalla città, Luca ci racconta un curioso episodio,

denso e significativo, quello delle donne piangenti.

In passato molti commentatori hanno sottolineato la misericordia del Signore nei

confronti di queste donne, immaginate come devote discepole affrante dal dolore.

Bello, poetico, finalmente qualcuno che prova compassione davanti all’indurito

dolore del Nazareno.

E invece no.

Mi ha sempre lasciato perplesso questa interpretazione.

Poi, qualche anno fa, leggendo il testo delle meditazioni alla Via Crucis al Colosseo

scritte dall’allora Cardinal Ratzinger, mi sono rasserenato; la pensiamo allo stesso modo.

No, quelle donne non sono delle affrante discepole, ma una compagnia della buona

morte chiamata, forse, figlie di Gerusalemme, che accompagnava i condannati a morte,

e che piangevano lacrime su chi, normalmente, non aveva nessuno che piangeva per lui.

Il loro, è un pio atto di devozione e di compassione. Falso!

Gesù non vuole lacrime finte, vuole la conversione dei cuori, non ama l’apparenza,

vuole la sostanza, non le opere caritative fatte una volta all’anno, ma un cuore

compassionevole sempre, non ha bisogno di una claque che faccia partire l’applauso,

ma di discepoli che seguono il Maestro nel dono di sé.

Gesù è gravemente ferito, esausto, eppure trova la forza di reagire.

Le sue parole sono taglienti; non ho bisogno delle vostre lacrime, tenetele per i

vostri mariti, che hanno permesso di uccidere un innocente, conservatele per quando

la violenza genererà violenza, e il vento seminato diverrà tempesta e tutto crollerà.

Gesù fa un servizio alla verità, scuote queste pie donne dell’aristocrazia religiosa,

dal loro mondo dorato per riportarle con i piedi per terra.

Piedi che pestano sangue.

Non sempre chi ti dà una carezza ti vuole bene e chi uno schiaffo ti vuole

male, ricordiamocelo.

A volte, anche una frase forte, uno schiaffo morale, può testimoniare un grande affetto.

Il corteo ha finito il suo percorso, sono arrivati alla cava, al Gòlgota.

Gesù viene spogliato della tunica, lo cinge un perizoma di cotone o lino,

che non gli viene tolto.

Abitualmente, nell’impero romano, si era crocifissi nudi, ultimo segno di disprezzo,

come le povere vittime della follia nazista che erano spogliate prima di entrare

nelle camere a gas, per avere un lavoro di meno da compiere!

In Giudea pare di no; Roma non aveva interesse a compiere gesti che la cultura

locale avrebbe considerato provocatori.

Gesù è pronto per essere inchiodato e innalzato.

Volevano anche dargli del vino aromatizzato con mirra, ma Egli non lo prese.

Matteo parla di vino mischiato con fiele, Marco di vino mischiato con mirra, ma la

sostanza non cambia; è un blando anestetico, una misera forma di compassione per

stordire il condannato durante la crocifissione, momento molto doloroso che comportava,

fra le altre cose, la frattura di alcune ossa del polso e del legamento del pollice.

Gesù rifiuta la bevanda, probabilmente vuole restare lucido fino in fondo.

Vuole mantenere la consapevolezza e la coscienza di sé per ciò che sta compiendo.

Non è facile raggiungere la consapevolezza e la coscienza delle cose che si

vivono, nella vita.

La fede, quella vera, ci può aiutare molto in questo percorso.

Più spesso, durante i momenti di dolore siamo completamente storditi e poco lucidi,

e rischiamo di prendere delle decisioni avventate.

Gesù ha piena consapevolezza di ciò che accade.

I suoi carnefici, secondo Lui, no.

È Luca a riferire questo particolare che mette i brividi.

Quando giunsero sul posto, detto luogo del Cranio, là crocifissero Lui e i due

malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra.

Gesù disse: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”.

Siamo al momento più tragico; i condannati sono slegati, distesi, in terra, due soldati

tengono fermo il disgraziato mentre un terzo, con un grosso martello, gli conficca

un chiodo lungo una ventina di centimetri, poi viene fatto alzare e tirato su per le

gambe e incastrato al braccio verticale.

A questo punto gli si piegano le gambe e un altro chiodo è conficcato unendo

i piedi, tenuti sovrapposti.

La posizione del crocifisso è innaturale e dolorosa; la maggior parte del peso del

corpo è sostenuto dai polsi, trafitti dai chiodi; la posizione irrigidisce i muscoli

pettorali che, contraendosi, impediscono di respirare correttamente.

Istintivamente il crocifisso fa leva sui piedi per alzarsi di qualche centimetro

e respirare, per poi ricadere, sopraffatto dal dolore dei piedi trafitti.

Una tortura inaudita.

In quel momento, mentre è inchiodato e innalzato, Gesù pronuncia la frase più

forte dell’intera passione: “Padre perdonali, non sanno quello che fanno”.

Non solo li perdona; li giustifica, anche.

Non è vero; sanno benissimo quello che fanno, ma il Signore sovrabbonda di

grazia, è capace di capire le ragioni (malvage) dei suoi assassini.

Gesù perdona chi lo sta uccidendo, come ha chiesto di fare ai suoi discepoli.

Ama i suoi nemici.

Questa è la misura senza misura dell’amore di Dio.

È difficile perdonare, difficile perdonarsi.

Non si può dimenticare; il perdono non è un’amnesia.

E il perdono non riguarda l’emozione, ma la volontà; possiamo perdonare ma

restare turbati quando incontriamo chi ci ha fatto del male.

E non si perdona perché migliori, o perché l’altro cambi con il nostro perdono;

si perdona perché figli del Padre che fa piovere sopra i giusti e i malvagi.

Perdoniamo perché noi abbiamo bisogno di perdonare, non perché l’altro si

meriti il perdono.

Ed è meglio perdonare come si riesce, senza aspettare un perdono perfetto.

Provo disagio quando alcuni cronisti si avvicinano ai genitori di una vittima e

parlano di perdonare; come è anche solo immaginabile pensare di perdonare

l’omicida di tuo figlio il giorno dopo il funerale!

Ci vogliono anni per maturare la decisione di andare oltre, di augurare a chi ti

ha ferito non il male, ma la conversione.

Anni, eccetto che per Gesù, che ha già maturato il perdono.

Dio perdona sempre, senza porre condizioni, sperando nella conversione di chi perdona.

Dev’essere un particolare importante se tutti parlano della tunica.

Gesù viene spogliato delle vesti, ovvio.

Perché dirlo, allora?

E perché con così tanta insistenza?

Probabilmente gli evangelisti indugiano sul particolare della divisione delle

vesti perché colpiti dal fatto che un salmo, il ventidue, ne parla.

O forse, per sottolineare il disprezzo dei soldati che prendono la veste, intrisa

di sangue, inutilizzabile, per stracciarla in quattro parti.

Sono due le vesti, quindi; una tunica preziosa, di qualità, tessuta tutta d’un pezzo,

e un mantello, che viene fatto a pezzi dai soldati.

La tunica resta intatta. Che significa?

I Padri della Chiesa hanno visto in questa tunica l’immagine della Chiesa che

non deve essere divisa per nessuna ragione.

I discepoli corrono il rischio di stracciare l’unità, prezioso dono di Cristo

morente in croce.

Forse alle tensioni nate fra la comunità di Gerusalemme,

legata a Giacomo, più conservatore, e quella fondata da Saulo?

Non lo sappiamo.

Certo è che il dono prezioso dell’unità, più e più volte lacerato nel corso

della storia, va conservato.

In parrocchia, nei movimenti, nella Diocesi, quando lasciamo prevalere la

divisione, lo scontro, ricordiamoci che stiamo lacerando la tunica di Cristo.

Ecco, Gesù è appeso, pende dalla Croce.

Gli evangelisti spostano l’attenzione da Lui a chi lo circonda; la folla, i capi, i soldati.

Il luogo della crocifissione è vicino all’ingresso della città e la folla numerosa,

che affretta il passo per entrare, visto il repentino cambiamento del tempo,

vede questi disgraziati e commenta.

Il popolo sta a guardare; è stato coinvolto, in precedenza, per spingere Pilato

a crocifiggere Gesù.

Gli è stato fatto credere di essere essenziale, in realtà il popolo è stato manovrato

da interessi politici e religiosi e, ora, è inerme, assiste.

Quanto possiamo essere manipolati!

Per incitare una nazione a scatenare una guerra, o ad acquistare un prodotto,

o a eleggere un candidato politico; il popolo, la “gente”, come si dice oggi,

è coinvolta solo se serve e, quasi sempre, è usata per raggiungere finalità

personali e private, non il bene comune.

Noi ne abbiamo la prova in questo anno, a causa della pandemia, siamo

costantemente manipolati da giornali e televisione, nonché anche da medici

dediti a terrorizzarci in TV ogni santo giorno.

Il discepolo, invece, non fa parte di una folla, ma di una Chiesa, un popolo di

radunati-da-Dio, di convocati, chiamati a essere protagonisti della storia di Dio,

a fare gli attori, non le comparse.

Forse pochi lo sanno che, alla domenica quando andiamo ad assistere alla Santa Messa,

siamo noi i protagonisti, il celebrante all’inizio della celebrazione dell’Eucaristia

ci chiede di poterlo fare, ci chiede il nostro consenso, siamo noi che celebriamo la

Santa Messa e non lo sappiamo, lui la presiede, ma i protagonisti siamo noi.

Quanta grazia!

La folla è stata usata; ora assiste alle conseguenze della propria barbarie, inerme, spenta.

Tutti i presenti sono d’accordo.

I capi del popolo giudaico, i soldati romani, il ladro; per mostrare di essere il Cristo,

Gesù deve salvare se stesso.

Per dimostrare di essere Dio, Gesù deve fare l’egoista.

È giusto; Dio non è forse il sommo egoista bastante a se stesso?

Il totalmente realizzato, il compiuto, l’inarrivabile?

Allora, per dimostrare di essere il Figlio di Dio, Gesù deve salvare se stesso!

No, invece, Gesù non salverà sé.

Salva me, salva tutti noi.

La sconcertante novità del cristianesimo è la scoperta di un Dio che vive in

relazione all’altro, che non è il motore immobile, ma che è Trinità, comunione,

relazione, festa e famiglia.

Gesù non salva se stesso; salva l’umanità, donando se stesso.

E ci apre una prospettiva sconosciuta e inattesa della vera identità di Dio.

Matteo è meno raffinato, ma altrettanto efficace.

La folla, i sacerdoti, i ladroni, sbeffeggiano Gesù, lo ridicolizzano.

Non ha potenza, non ha efficacia la sua profezia, non è capace nemmeno di salvarsi,

altro che distruggere il tempio!

A Gesù è proposta una specie di compromesso; non sono bastati i tanti miracoli

compiuti, le parole, i gesti.

Deve ancora compiere un miracolo, il più eclatante; scendere dalla croce: “Il Cristo,

il Re d’Israele, scenderà ora dalla croce, affinchè vediamo e crediamo”.

A quel punto, certo, tutti si convertiranno.

Per convertirsi, la folla chiede a Gesù di evitare la croce.

Buffo, potevano evitargliela loro, la croce.

Invece lo hanno crocifisso per vedere se scende dalla croce.

Contraddizione della stupidità umana!

Gesù non ama la croce, non l’ha desiderata, l’ha assunta, non ha potuto evitarla.

Come le tante persone che si trovano inchiodate a una croce senza scegliere, senza

poter fuggire, (una malattia, un lutto, una depressione), Gesù non scende, non fugge,

non vuole sconti, accetta fino in fondo di condividere il destino degli sconfitti e

degli ultimi, dei perdenti di tutti i tempi.

Al condannato veniva appeso al collo una tavola in legno, riportante la ragione

della condanna a morte.

Nel caso di Gesù questo cartello è posto sopra la croce, dal che gli storici

deducono che la croce fosse nella forma che tutti conosciamo, non a “T” detto

Tau, come abitualmente era.

Giovanni, però, fa una precisazione riguardante il titolo della condanna.

È l’ultimo schiaffo di Pilato al Sinedrio, una spietata burla nei confronti dei

sacerdoti; hanno voluto che il Nazareno fosse condannato a morte per il reato

di lesa maestà, visto che si era spacciato per Messia, cioè per il re dei giudei.

Bene; che tutti sappiano, allora, che Gesù è, appunto il re dei giudei.

Il cartello appeso sopra la croce è un’offesa ai giudei che passano; ma come,

quel poveraccio è il loro re?

E Roma mette in croce il loro re?

A quel punto Caifa capisce la gaffe che ha fatto, va da Pilato per convincerlo

a togliere il titolo.

Come il gatto fa con il topo, Pilato, ovviamente, si rifiuta.

La scritta è in tre lingue, per essere ben letta da tutti (aramaico, latino e greco).

Giovanni, ancora una volta, osa svelare la trama che ha fatto comprendere gli

eventi agli uomini; davvero Gesù è il Re dei giudei, e questa regalità, ora, sarà

riconosciuta da tutti i popoli.

Ecco il nostro Re, discepoli, il nostro sovrano; invece del trono, ha una croce,

non indossa una corona preziosa, ma una fatta di spine, non uno scettro, ma una

canna con cui è stato percosso.

Ecco il nostro Re; talmente sfigurato e irriconoscibile da necessitare di un cartello

che lo identifichi.

Un perdente. Un folle.

Uno che ha bisogno di tutto.

Chiedo; lo vogliamo davvero un Dio così?

Sul serio? Ne dubito!

Noi che cerchiamo un Dio che ci appoggi, che ci sostenga, potente, efficace,

interventista, lo vogliamo davvero un Dio così?

Pensiamoci bene, e riflettiamo su quello che andiamo a leggere.

Ora è arrivato il momento del buon ladrone!

È una delle figure più simpatiche e conosciute dell’intero Vangelo; uno dei

condannati assieme a Gesù, secondo Luca, invece di insultarlo e di chiedere

un aiuto, elemosina un ricordo.

Una pagina struggente, straordinariamente, tenerissima.

Chiama Gesù per nome, senza aggiungere titoli.

È l’unico caso in tutti i Vangeli in cui si usa il nome di Gesù senza alcuna aggiunta.

È l’esperienza nuda e cruda dell’umanità del Signore; sulla croce Egli si è

spogliato di ogni veste regale, di ogni titolo, di ogni ruolo.

La sofferenza è un’esperienza che annulla le differenze.

E il ladro lo riconosce come tale, come uomo che soffre.

Non chiede salvezza; le sue mani grondano sangue, non vuole una soluzione

all’ultimo secondo.

È turbato il ladro, perché vede un innocente che muore!

Ha un alto senso della giustizia; tutto sommato lui si merita quella fine,

quel Nazareno no.

Zittisce il compagno che insulta Gesù e gli chiede un ricordo.

Abbiamo paura di essere dimenticati, di non contare, di passare nella nostra

vita terrena senza lasciare alcuna traccia.

La Bibbia ci rassicura.

Sion diceva: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato.

Forse che la donna si dimentica del suo lattante, cessa dall’aver compassione

del figlio delle sue viscere?

Anche se esse si dimenticassero, io non ti dimenticherò.

Ecco, ti ho descritta sulle palme delle mie mani, le tue mura sono sempre

al mio cospetto”.

Il ladro, come ogni uomo, chiede un ricordo.

Accetta, Gesù, e gli promette di più; gli promette il paradiso.

Secondo la tradizione, il ladro si chiama Disma, e nell’ultimo istante della sua vita

è riuscito a scroccare la grazia del perdono al Signore, ecco la misericordia di Dio.

Il paradiso, nel Vangelo, è la beatitudine dell’esperienza di Dio, il farne esperienza.

Il ladro, il reietto, il peccatore, il violento, sperimenta la presenza di Dio.

È la misericordia che dilaga, nel Vangelo di Luca; il ladro sperimenta in anticipo la salvezza.

Perché! Perché ha creduto.

Dio desidera la nostra salvezza, quando lo capiremo?

Desidera il nostro bene, senza porre condizioni.

Del ladro non abbiamo conservato il nome, ma solo quell’aggettivo, buono,

che ne delinea il carattere.

Buon ladrone, nel senso di ladrone con il cuore compassionevole.

Ma buon ladrone anche nel senso di abile.

Gli è riuscito il colpo più spettacolare della sua carriera; ha rubato il paradiso.

Ed ecco la Madre.

I minuti passano, poi le ore.

I lamenti dei condannati diminuiscono, la loro voce si affievolisce.

Non hanno nemmeno la forza di lamentarsi, il dolore ormai li stordisce, tutto

il corpo si rattrappisce intorno a quei chiodi da cui pendono.

Anche la folla si dirada; si tratta di entrare in città per preparare la pasqua,

mentre nel tempio, da qualche ora, si sacrificano gli agnelli della pasqua.

I sacerdoti se ne sono andati, lasciando qualcuno a vedere l’epilogo, per

preparare la solenne liturgia nel tempio.

I soldati romani allentano la guardia.

Ad alcune persone, i famigliari più stretti, si permette di avvicinarsi ai condannati.

È questione di poche ore e tutto sarà finito.

Fra i presenti, i pochi presenti, c’è l’autore del quarto Vangelo, il Giovanni forse

sacerdote che ha ospitato Gesù durante la Cena.

Non ha da temere ripercussioni come gli altri discepoli della prima ora che sono

fuggiti a gambe levate; dev’essere un personaggio importante.

Ha assistito al processo, ha seguito Gesù al Gòlgota.

Ora sappiamo che, insieme a lui, c’è Maria, la Madre del Signore.

Quando è giunta a Gerusalemme?

Non lo sappiamo.

Sappiamo che, nel momento più terribile, è presente.

È difficile assistere alla morte di una persona che si ama.

Tragico, vedere la morte di un figlio.

Insostenibile, vedere la morte orribile di Gesù.

Maria è presente, sotto la croce, insieme ad alcune altre donne.

Nessun angelo a cantare la gloria di Dio, ora, nessuna rassicurante apparizione.

Eccola lì, la promessa di Dio.

Eccolo il Salvatore.

L’aveva accolto con timore e gioia, nel suo grembo, molti anni prima.

Gli aveva insegnato a camminare, a parlare, a pregare.

Lo aveva visto crescere, farsi uomo.

Aveva atteso con ansia la sua partenza, chiedendosi, davanti al suo

temporeggiare, se non si fosse sbagliata. Poi!

Arrivano le prime notizie da Cafarnao, da Cana, da Magdala.

Notizie portate in paese dai mercanti, che parlano del falegname divenuto profeta.

Poi Gerusalemme, le prime difficoltà, l’ostilità aperta dei sadducei e dei farisei.

Infine la notizia, giunta chissà come a Nazareth, dell’imminente arresto di Gesù.

Eccola, la Madre.

Dov’è, ora, la promessa di Dio? Dove?

Si era forse illusa?

Si era sognata una chiamata inesistente?

Scrive Giovanni. Le donne stanno.

Meglio; dimorano irremovibili, tengono duro, non cedono.

Maria, la Madre, dimora nella fede, non cede.

In quel momento, tutto il Regno di Dio è rappresentato da quelle poche donne

radunate intorno alla Madre.

C’è bisogno di donne, quando serve la costanza irremovibile.

Gesù, con un soffio di fiato, vede la Madre e Giovanni, e gliela affida.

Donna, dice.

Come a Cana, prima del miracolo, la chiama donna.

Non è più sua Madre, da tempo l’ha donata, come Lei ha donato Lui.

Si sono fatti dono reciproco.

Come dovrebbe essere in ogni relazione d’amore.

Secondo la tradizione Giovanni, da quel giorno, prese e portò con sé Maria.

Da quel giorno, ogni discepolo del Signore sa che può prendere Maria

con sé, come discreta presenza nel suo percorso di vita interiore.

Ed ecco la morte.

Il vento del mare sta portando nubi che si fanno minacciose, cariche di pioggia.

La gente che entra in città affretta il passo per non farsi sorprendere dal

temporale imminente.

Tutti gli evangelisti annotano questo repentino cambio di tempo.

Dall’ora sesta fino all’ora nona si fece buio su tutta la terra.

Il cielo si scurisce, come se anche la natura partecipasse all’agonia di Dio.

Tutto è nuvoloso e buio, come il cuore delle persone che hanno partecipato

alla crocifissione.

Si fa buio, da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio.

Quell’annotazione temporale è colma di speranza; ha un limite la tenebra,

non può albergare per sempre, nei nostri cuori.

Da mezzogiorno alle tre, ecco i confini entro cui può abitare la disperazione,

non un minuto di più.

Fratello che soffri, sorella dilaniata dalla solitudine e dalla depressione,

il tuo dolore ha un confine, non ti disperare.

Il silenzio è irreale, i condannati sono immobili, respirano a fatica, non dicono

una parola.

Anche chi piange, ormai, ha esaurito le lacrime.

I caldi colori della Giudea si sono stinti in un grigio sempre più scuro.

Gesù, con un soffio di voce, parla.

Ha sete!

Sete di amore, di pace, di giustizia, sete della nostra fede.

Solo sete!

Il nostro è un Dio assetato d’amore, come noi, sperimenta il limite di un

desiderio quasi sempre insoddisfatto, di uno slancio arrestato, di un anelito

senza soddisfazione.

Ha sete, come ha avuto sete aspettando che la fede della Samaritana lo dissetasse.

Ha sete colui che può dissetare chi cerca la felicità e il bene, come aveva detto al tempio.

L’ultimo giorno, quello solenne della festa, Gesù stava in piedi e proclamava

a gran voce: “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva.

Colui che crede in me, come disse la Scrittura; dal suo ventre sgorgheranno

fiumi di acqua viva”.

Ha sete della mia fede, della nostra fede.

Ed ecco le sue ultime Parole.

Sono quattro versioni diverse, molto diverse, forse troppo.

Quali parole ha pronunciato Gesù sulla croce?

Quali sono state le sue ultime parole?

Ogni evangelista dà la sua versione.

Forse Gesù le ha pronunciate in tempi diversi, non lo sappiamo.

Ogni evangelista, però, ha ritenuto quelle che più lo hanno colpito.

Marco è diretto e asciutto, come al suo solito: “Ma Gesù, emesso un grande

grido, spirò”.

Gesù grida.

Il suo è un ultimo agghiacciante grido di dolore, che svela la sua partecipazione

assoluta al destino degli uomini.

Un grido che è un disperato soffio di vita, impressionante, messo in bocca a Dio.

Ecco, Dio ora conosce tutto, anche il nulla.

Come se sapesse tutto del niente, e niente del tutto che ha creato.

Restiamo interdetti, senza parole, davanti alla misura di questo dono senza misura.

Il nostro ragionamento entra in corto circuito, davanti all’ampiezza di questo mistero.

Dio conosce la disperazione, perché nessun uomo possa sentirsi abbandonato.

Ha preso l’ultimo posto, perché nessuno possa sentirsi ultimo.

Matteo approfondisce e dilata la riflessione.

Gesù cita un salmo, il ventidue. Lo grida.

A volte anche un grido diventa preghiera.

Gesù conosce i salmi, lo hanno accompagnato nella sua crescita interiore,

nella presa di consapevolezza della sua identità.

Li ha ascoltati, cantati come ninna nanna dalla Madre, quand’era piccolo,

li ha recitati nella sinagoga di Nazareth, in età adulta.

Ha pregato con la Parola stessa di Dio, ha fatto scaturire dal di dentro la Parola

che lungamente aveva assaporato durante la meditazione personale.

Prega, Gesù, le sue ultime parole sono un grido di angoscia, una richiesta d’aiuto.

Un’accusa verso Dio, ma detta con le Parole stesse di Dio.

Dio non ha bisogno di applausi o di carezze, o di timori reverenziali.

Accetta ogni parola, ogni grido, ogni bestemmia, se esprimono verità e richiesta di aiuto.

Gesù muore pregando.

È un’accusa, la sua, una disperata richiesta di aiuto, ma è usata come una preghiera.

Chiede a Dio perché non c’è, perché non si fa presente.

Vorrei fosse così anche per me.

Vorrei poter dire, come ultima parola, quell’Abbà, che ha così lungamente

riscaldato il mio cuore bucato.

E la preghiera è un interrogativo; Dio si chiede perché Dio l’abbia abbandonato.

Come se, per un attimo Dio diventasse incredulo.

Incredulo per quanta solitudine l’uomo può sperimentare, solitudine che Dio,

per sempre, assume.

Da ora, e per sempre, nessun Cristo morirà disperato.

Nessuno può più perdersi, ora che Dio si è perso.

La folla pensa che Gesù invochi Elia.

Sarebbe un bel finale, degno di un film americano; Gesù che scende dalla croce

per mezzo di Elia.

È già venuto Elia, ma anche il Battista, e hanno fatto fuori anche lui, non siamo ridicoli.

Luca, che si è informato, sceglie un’altra delle affermazioni di Gesù.

E Gesù, gridando a gran voce: “Padre, nelle tue mani raccomando il mio

spirito”.

Luca conferma che Gesù muore pregando.

Si affida, si dona, sa bene in chi ha posto la sua fiducia e il suo destino.

Lo dice ad alta voce, vuole che tutti sappiano che fra Lui e il Padre c’è un

legame di fiducia totale, di dono di sé.

Ma è Giovanni, al solito, a dare un colpo d’ali, forse perché era sotto la croce.

L’ultima parola di Cristo in croce non è un grido, né un salmo di disperazione

o uno di fiducia.

È l’affermazione di una missione compiuta, quella affidatagli dal Padre.

Quando ebbe preso l’aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto” (Giovanni 19,30).

Ciò che andava fatto è stato fatto, ora sta al Padre continuare.

Abbiamo tutti una missione da compiere, una missione d’amore che Dio ci affida

al momento della nostra nascita, un tesoro nascosto da scoprire e da condividere.

Non pensate subito a grandi opere, o a scoperte straordinarie; a volte sono piccole

le cose che danno senso alla vita e che salvano il mondo.

Ecco; Gesù ora, ha terminato il suo percorso.

Ciò che poteva fare è stato fatto.

È tempo di morire. Finalmente!

E con un ultimo sospiro, Spirò!

Ha lottato duramente per parecchie ore, ma il suo corpo è debilitato, prostrato,

non vuole più combattere.

La terribile macchina della croce ha sortito il suo effetto; la respirazione è

affannosa, i polmoni sono stretti dai muscoli irrigiditi, le gambe non riescono

più a sollevarsi per placare la fame d’aria, il cuore cede, Gesù muore.

Ma Gesù emise di nuovo un forte grido ed esalò lo spirito (Matteo 27,50).

Muore; restituisce lo spirito che ci tiene in vita, quel soffio che ci rende partecipi di Dio.

Ora esce, esala.

Giovanni dice; lo rende, lo dona.

Lo Spirito, che è dono di Dio, ci è donato sulla croce, ultimo dono di Gesù ai credenti.

Anche morendo, Gesù compie un’opera di vita, una nuova creazione.

La sua non è una fine, ma un nuovo cosmo che sta per prendere vita.

Gesù è morto.

Nel tempio, decine di sacerdoti, a ritmo sostenuto, sgozzano decine di migliaia

di agnelli, per offrirli al Signore e restituirli ai proprietari che li avrebbero cotti

al fuoco di brace e mangiati insieme alle erbe amare, un agnello per famiglia,

da consumare tutto, senza avanzarne.

Anche l’Agnello di Dio, ora, pende, senza vita.

Sono Marco e Matteo che riferiscono il particolare, all’apparenza insignificante.

Allora il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto fino al basso (Marco 15,38).

Il tempio era un complesso sistema di edifici, infilati l’uno dentro l’altro come

un gioco di scatole cinesi.

Al centro, nel luogo più inaccessibile, troneggiava il Santo dei Santi, un alto

edificio con una sola apertura, circondato da una serie di cortili e di alte mura.

Al suo interno si trovavano due ambienti; un atrio e il Santo vero e proprio, che

al tempo di Salomone, custodiva l’arca dell’alleanza contenente le tavole della

legge, il bastone di Aronne e un po’ di manna.

Da tempo, tutto ciò era stato depredato, e il Santo dei Santi era vuoto, con

grande stupore dei romani che lo violarono.

Ma era comunque il luogo inaccessibile, il luogo della gloria di Dio, abitato dalla

sua presenza.

Luogo cui poteva accedere solo il sommo sacerdote, una volta all’anno,

per versare il sangue del sacrificio, il giorno dell’espiazione.

Quel luogo era diviso dall’atrio da un pesante tendaggio, lungo dal soffitto

al pavimento.

Quel velo, annotano gli evangelisti, si strappò, dall’alto in basso, da Dio

all’uomo, dal mistero all’evidenza.

Dio non è più inaccessibile, è osteso, evidente, appeso.

Dio non è più misterioso, non dimora in un luogo inaccessibile, non è più altrove,

è qui, raggiungibile, incontrabile, lo possiamo vedere, sfiorare, accarezzare.

Il capovolgimento è compiuto; il sommo sacerdote volge lo sguardo al Santuario,

al Santo dei Santi, definitivamente vuoto.

Così come la nube della presenza di Dio abbandonò il tempio per seguire il popolo

deportato in esilio, ora, e per sempre, Dio abbandona il tempio di pietra per

condividere la morte dei malfattori.

La Croce, ora, è il tempio.

Quell’atroce strumento di tortura e di morte, ora, è il luogo della gloria di Dio.

Lo diventa perché altare della manifestazione, della misura dell’amore di Dio,

lo diventa perché ostende e realizza pienamente l’assoluto di Dio.

Tutto è compiuto.

Gesù ha dato tutto, goccia dopo goccia, stilla dopo stilla. Tutto!

Chi ha assistito esprime sentimenti diversi.

I sadducei, di feroce soddisfazione, certi di avere fatto una cosa giusta.

I discepoli, di silenziosa disperazione.

Alcuni presenti, di turbamento e di conversione. E noi?

Il primo a testimoniare stupore è il centurione romano.

Un ufficiale abituato alla violenza, che serviva Roma anche in quei frangenti

così spietati e sgradevoli.

Non sappiamo nulla di lui; ha gestito il picchetto di soldati di complemento

per la crocifissione, ha osservato l’agonia dei condannati.

Marco ci dice che si è posto di fronte a Gesù, lo ha lungamente osservato,

è rimasto turbato, scosso.

Ne ha visti morire, di malfattori.

Li ha visti urlare come delle bestie scannate, contorcersi, nudi, intorno ai chiodi

insanguinati, li ha sentiti piangere, bestemmiare, singhiozzare come dei bambini.

Ha fatto l’abitudine a quello spettacolo atroce, a quella morte oscena.

Gesù no, non ha inveito, ha pronunciato parole di perdono, è morto come mai

egli ha visto morire un crocifisso.

E il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare gridando a quel modo,

esclamò: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”.

La sua professione di fede è la professione di fede della comunità di Marco.

Siamo chiamati a riconoscere in Gesù il Figlio di Dio non quando le cose

vanno bene, ma ora, quando la divinità è nascosta, mascherata, offuscata.

Siamo chiamati a credere che quel poveraccio sfigurato e spezzato è il

creatore del mondo.

È Dio, non perché perdente, ma per come è morto, donandosi fino in fondo,

vivendo ciò che ha detto nei brevi anni della sua vita pubblica.

Siamo tutti bravi a parlare, tutti santi e moralisti, quando si tratta di dare consigli.

Ma quando siamo messi a dura prova, allora esce fuori il meglio o il peggio

di noi stessi.

Gesù testimonia che è esattamente ciò che ha detto di essere.

La sua è una morte coerente, esemplare, inattesa, luminosa.

È poco probabile che il centurione, abbia pronunciato quelle esatte parole.

Con maggior precisione Luca riporta.

Il centurione, vedendo l’accaduto, glorificava Dio: “Certamente quest’uomo

era giusto”.

La morte del giusto, il clima di perdono che è riuscito a portare in quell’inferno,

dice Luca, rendono gloria a Dio.

Il pagano romano invoca Dio e lo pensa presente, vedendo quella morte.

I nostri gesti, compiuti con giustizia, la nostra capacità di perdono, la nostra

benevolenza, rendono gloria a Dio, avvicinano le persone al mistero della redenzione.

La nostra vita di fede illumina anche chi ci sta accanto, se vissuta con

autenticità e passione.

La folla manipolata, quella che, all’ingresso di Gesù a Gerusalemme gridava

Osanna; quella che, sospinta dai sadducei e dai capi religiosi ha richiesto la

crocifissione di Gesù, quella che, silenziosa e muta, assiste alla morte del profeta,

ora reagisce in maniera diversa.

Ha preso consapevolezza di sé, è tornata sui propri passi, non è più condotta da altri.

La folla, ora, è meditabonda e silenziosa.

Anche tutti quelli che erano convenuti per questo spettacolo, davanti a

questi fatti se ne tornano a casa battendosi il petto (Luca 23,48).

Hanno partecipato ad uno spettacolo, una manifestazione.

Come la folla radunata dall’imperatore al Colosseo assisteva ai giochi, ai massacri

fra gladiatori, alle lotte fra uomini e belve; un’orgia di violenza, di sangue, di follia.

Ma questo spettacolo è stato inatteso, diverso, completamente diverso.

Meditando il mistero della croce, anche noi possiamo tornare sui nostri passi

percuotendoci il petto, cioè rianimando il nostro cuore, scuotendolo, allargandolo

alla misura di Dio.

Tutti noi possiamo assistere sulla via Crucis, allo spettacolo di un Dio che

muore per amore.

E convertirci. Io per primo, amici.

Sia Marco sia Luca annotano un particolare sui discepoli; tutti i suoi amici e

le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea se ne stavano lontano,

osservando tutto ciò che accadeva (Luca 23,49).

Non tutti sono fuggiti.

Alcuni, anche se da lontano, hanno continuato a seguire Gesù.

Nel momento della prova può succedere di allontanarsi dal Signore, di essere lontani.

L’importante è non perdere di vista il Signore, seguirlo, anche solo con la

coda dell’occhio.

Per sapere dove l’hanno messo e tornare da Lui, anche se lo consideriamo,

ormai, un cadavere.

Fratello in crisi, che fatichi a credere, che sei stato masticato, come gli apostoli,

segui il Signore, anche se da lontano, non andartene.

Matteo esagera, si allarga, e sa di farlo.

State sereni; la sua è un’annotazione teologica, non storica.

Richiama i segni degli ultimi tempi, della manifestazione di Dio al popolo

di Israele, e allora, come fanno i pescatori che raccontano della loro pesca,

esagera un pò.

Il linguaggio che usa ha a che fare con i profeti apocalittici, è come se Matteo

dicesse; davvero il Messia è venuto, e si rivela morendo in croce, anche il

cosmo riconosce la sua presenza.

Mi piace, calcare la mano, meditando la passione, anche a noi può succedere di

subire un terremoto interiore, di veder spaccare in noi la pietra che ci impedisce

di gioire, di uscire dai sepolcri in cui ci siamo sepolti, di lasciar venir

fuori il santo che c’è in ciascuno di noi.

La presenza del Signore, credetemi, è una potenza, una forza che costruisce,

che scuote, che rianima, che sbalordisce.

Ciò che Matteo descrive come evento messianico è evento che può scatenarsi

nel discepolo che assiste allo spettacolo, guardando di fronte Gesù che muore,

come il centurione.

L’ora del tramonto si avvicina, e con esso l’inizio solenne della festa di pasqua.

Non si possono lasciare i condannati in croce, la cosa contravviene alla legge,

bisogna accelerare la morte.

Il metodo è semplice e crudele; con un colpo di bastone alla tibia, i soldati

frantumano le ossa delle gambe, impedendo al condannato di rialzarsi a prendere aria.

La morte per asfissia sopraggiunge in pochi minuti.

Giovanni descrive minuziosamente l’orrenda procedura.

Arrivati da Gesù, i soldati vedono che è senza vita.

Per sicurezza, un soldato gli assesta un colpo di grazia, un colpo di lancia dato quasi

in orizzontale, sotto il costato, a destra, un colpo che, normalmente, trapassava il cuore.

Molti studiosi, quasi tutti anatomopatologi, hanno cercato di interpretare il racconto

di Giovanni, per capire cosa sia successo.

Gesù, morto, ha iniziato il processo di coagulazione del sangue, che divide la

parte liquida da quella solida.

Il soldato colpisce una zona di accumulo del sangue, forse il pericardio, o la pleura,

che si svuota come un palloncino riempito d’acqua, lasciando vedere il siero

(l’acqua) e la parte ematica (il sangue).

Giovanni lascia intendere che quella divisione, sangue e acqua, ha una rilevanza,

richiama la salvezza e la redenzione, la croce e il battesimo.

La solennità con cui Giovanni racconta l’intera scena è un invito ad andare al di

là degli eventi; quella a cui abbiamo assistito non è la morte di un poveraccio ucciso

per interessi politici e religiosi, ma il compimento delle profezie riguardanti il Messia.

Il particolare della tunica, delle ossa non spezzate e della fuoriuscita del sangue e

dell’acqua sono, per Giovanni, la manifestazione della profezia riguardante il Messia.

Solo chi conosce la Scrittura e ha il cuore aperto al soffio dello Spirito, sembra

dire Giovanni, può accorgersi di chi sia veramente quell’uomo trafitto.

Così accade anche oggi; solo chi ha il coraggio di seguire Gesù nelle sue ultime ore,

senza fuggire come il giovinetto scandalizzato nell’orto, o come i discepoli, ma

dimorando sotto la croce, può capire chi è veramente colui che pende dalla croce.

E inorridire. O cadere in ginocchio.

Ecco tutto è compiuto.

Dio si è definitivamente donato.

Mi immagino il volto di Nicodemo e di Giuseppe di Arimatea che sorreggono il

cadavere, uno dal capo, l’altro dai piedi; dietro al Cristo, le statue di Giovanni,

della Maddalena, di Maria e di una discepola esprimono disorientamento e dolore.

Cristo no, è il centro immobile della composizione.

Tutto è compiuto.

Mentre scrivo socchiudo gli occhi e ripenso alla scena, mi ritrovo al Calvario.

Sento l’odore del temporale in arrivo e del sangue.

La folla se n’è andata in tutta fretta per non prendersi l’acquazzone, i soldati

calano senza riguardo i cadaveri per gettarli nella fossa comune.

Gesù no, passa prima dalle braccia della Madre!

La Madre strige il Figlio esamine.

Una scena fortissima, straziante, intensa.

Quanto silenzio, quanto dolore, quanta forza!

I romani avevano l’orribile consuetudine di lasciare i cadaveri appesi alla croce,

in preda agli animali e ai corvi, soprattutto quelli condannati per lesa maestà;

un terribile monito per tutti i sudditi.

La concessione del corpo ai famigliari era un’eccezione, fatta per manifestare

la generosità di Roma; troppo buoni, perché: “In Cina, i famigliari del condannato

a morte devono pagare il prezzo della pallottola con cui si procede all’esecuzione,

se vogliono il corpo”.

In Giudea, però, le cose funzionavano diversamente; non c’era nessuna intenzione

di forzare la mano, di accentuare i dissidi, perciò i corpi erano restituiti ai famigliari

che ne facevano richiesta, tanto più in quella vigilia di pasqua.

In tutta fretta, perciò, i famigliari, aiutati dai soldati, devono schiodare i piedi del

condannato, deporlo in un lenzuolo e provvedere alla sepoltura.

Una procedura terribile; il corpo del condannato è irrigidito dalla contrazione tetanica

dei muscoli, e il corpo si può trasportare come se fosse irrigidito, in catalessi.

Una volta calato con il patibolo, il cadavere è portato nei pressi della tomba,

dove gli sono schiodati i polsi.

La presenza, in una tomba ritrovata a Gerusalemme, di uno scheletro con il chiodo

dei piedi ancora conficcato nelle ossa, la dice lunga sulla delicatezza di tale procedura.

Marco, cioè Pietro, (sappiamo che Marco ha scritto il suo Vangelo ascoltando quello

che gli diceva Pietro), ci fa un resoconto dettagliato della sepoltura di Gesù.

È Giuseppe d’Arimatea a trovare il coraggio.

È un influente membro del Sinedrio, insieme a Nicodemo.

Non è riuscito a salvare Gesù dalla condanna e ora vuole, almeno, dargli una

sepoltura degna.

Entra da Pilato, piuttosto impressionato che un membro del Sinedrio contragga

l’impurità alla vigilia della pasqua entrando da un pagano, pur non essendo un

famigliare del condannato, e chiede il corpo del Nazareno.

Pilato è stupito della velocità della morte di Gesù, e concede la sepoltura privata.

Giuseppe compra un lenzuolo, una sindone di prezioso lino, e fa deporre Gesù

in una tomba adiacente al Gòlgota, la tomba che ha fatto preparare per sé, una tomba

preziosa, di un uomo importante, scavata nella roccia e protetta da una pesante

chiusura in pietra.

Come quella che chiude il nostro cuore!

Contrae l’impurità per la seconda volta, toccando un cadavere.

Non avrà più tempo per purificarsi.

Non celebrerà la pasqua.

Non ne ha neppure voglia, ora che il suo cuore è gonfio di dolore.

Non ha da preoccuparsi, Giuseppe d’Arimatea; fra pochi giorni potrà celebrare

una Pasqua nuova.

E rivedere il suo Maestro.

Ci sono dei momenti, nella vita, in cui il nostro cuore è impietrito, insensibile,

raggelato, in cui non abbiamo più nulla da offrire al Signore, in cui abbiamo

l’impressione che Dio, nella nostra vita, sia morto e sepolto; in quei momenti

non ci resta che offrire il nostro cuore, freddo come una tomba, e accogliere

il Cristo perché lo riscaldi.

L’ultimo regalo fatto a Gesù è una tomba scavata nella pietra.

L’ultimo, disperato, straziante gesto di affetto di un discepolo che pensava di avere

trovato in Gesù la novità della fede, la pienezza della vita, il sorriso di Dio.

Giuseppe non ha potuto salvare il suo Maestro.

Non i suoi denari, non la sua influenza, non la sua cultura, l’hanno salvato.

Con il cuore pesante, non gli resta che offrire la sua tomba.

Non ha da preoccuparsi, Giuseppe; fra tre giorni gli verrà restituita, intatta.

Gli lascio un solo suggerimento; è bene che si guardi in giro e che trovi un’altra

tomba; quella che ospita temporaneamente il cadavere di Dio sarà luogo di culto

e di contraddizione, per millenni.

I romani ricostruendo Gerusalemme rasa al suolo dalle truppe di Tito, penseranno

bene di edificare su di essa un tempio dedicato a Venere, per impedire ai discepoli

del Nazareno di radunarsi in quel luogo.

La regina Elena, madre dell’imperatore cristiano Costantino, farà abbattere il

tempio e ritrovare la tomba, la cui memoria era stata conservata preziosamente

per due secoli dalla comunità locale.

Il sepolcro non ha bisogno dello splendore, nè della dignità che vorremmo

attribuirgli devotamente.

La tomba che non è riuscita a contenere Dio, non ha bisogno delle nostre devozioni.

Ma è lì, coperta di marmi e stoffe, un piccolo luogo al centro di una grande

cupola pericolante, a ricordare a tutti che Dio non è stato sconfitto.

No, la tomba, a Giuseppe d’Arimatea, non verrà più restituita.

Per quel che gli importa.

Giovanni inserisce nel racconto anche la presenza di Nicodemo, un importante

rabbì fariseo che cerca Gesù, anche se di notte, per non sbilanciarsi troppo.

Come abbiamo già visto, Nicodemo cercherà in qualche modo di proteggere

Gesù, di chiedere per Lui un procedimento giusto, senza ottenerlo.

Ora che Gesù è morto, Nicodemo non ha più paura di esporsi, anche di fronte

ai suoi confratelli di fede e al Sinedrio.

Perde la faccia volentieri, per testimoniare il suo affetto per il Maestro.

Venne anche Nicodemo, il quale già prima era andato da Lui di notte, portando

una mistura di mirra e di aloe di circa centro libbre.

Alcuni storici, storcono il naso; non era affatto abituale, in Israele, imbalsamare

un cadavere e la quantità degli unguenti (trenta chili!) è davvero sproporzionata.

Probabilmente la grande mole di mirra e aloe servivano ad evitare temporaneamente

la decomposizione del corpo di Gesù, essendo degli antisettici naturali, per poter

in seguito provvedere ai riti di lavaggio e di purificazione, impediti dalla fretta

della sepoltura.

Come sempre Giovanni è uno storico affidabile, pur sovrapponendo gli eventi

e la loro interpretazione.

Da parte mia, ho una sola annotazione da fare a Nicodemo; gli onori, ai profeti,

è meglio farli da vivi, che da morti.

Troppe persone si schierano dopo, troppi profeti sono riconosciuti come tali

dopo la loro morte (spesso tragica).

Cerchiamo di essere coerenti, per favore.

La pietra è posta dinanzi al sepolcro, per impedire agli animali di violare il corpo di Gesù.

Dal tempio arriva il suono di richiamo che annuncia l’inizio della festa, tutti rientrano in

casa per accendere le luci di quel sabato particolare, che coincide con la festa di pasqua.

Nicodemo e Giuseppe non parteciperanno alla festa, probabilmente, essendosi

contaminati con un cadavere.

Così come gli apostoli, fuggiti e nascosti nelle campagne attorno alla città.

Non celebrerà la pasqua neppure Giovanni, rifugiatosi con la Madre di Gesù, nella

città alta, negli alloggi dei sacerdoti.

Pilato, cenando alla fortezza Antonia, o al Pretorio, penserà alla bella soddisfazione

presa con il Sinedrio e proverà disagio ricordando quel Galileo un pò filosofo.

La gente, in casa, canterà la benedizione, mentre un bambino porrà la domanda

rituale; cosa festeggiamo oggi?

E il capo famiglia racconterà la fuga dal faraone del popolo guidato da Mosè.

Gesù, cadavere, giace nell’oscurità di una tomba scavata nella roccia.

Fine della storia, fine dell’illusione, fine di una brillante carriera di profeta.

Fine di un sogno.

Fine di un normale movimento religioso moderno.

Fine! O forse no.

Il dopo è un’altra storia!

Ora dobbiamo solo fare silenzio, meditazione e preghiera, amici, Fausto.    

Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il

tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua

volontà come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a

noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri

debitori, e non ci indurre in tentazione,

ma liberaci dal male. Amen.

Ave, o Maria, piena di grazia, il Signore è con te.
Tu sei benedetta fra le donne e benedetto il frutto

del tuo seno, Gesù.
Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori,
adesso e nell'ora della nostra morte. Amen.
Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo.

Come era nel principio, ora, e sempre,

nei secoli dei secoli. Amen.

Buona preghiera amici, aspettando la Risurrezione, Fausto.

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