Giovedì Santo, Triduo Pasquale.
Cena del Signore.
Prima lettura.
Prescrizioni per la
cena pasquale.
Dal libro dell'Èsodo
(12,1-8.11-14)
In quei giorni, il
Signore disse a Mosè e ad Aronne in terra d'Egitto: «Questo
mese sarà per voi
l'inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell'anno.
Parlate a tutta la
comunità d'Israele e dite: "Il dieci di questo mese ciascuno
si procuri un agnello
per famiglia, un agnello per casa.
Se la famiglia fosse
troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più
prossimo alla sua
casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come
dovrà essere l'agnello
secondo quanto ciascuno può mangiarne.
Il vostro agnello sia
senza difetto, maschio, nato nell'anno; potrete sceglierlo
tra le pecore o tra le
capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese:
allora tutta
l'assemblea della comunità d'Israele lo immolerà al tramonto.
Preso un po' del suo
sangue, lo porranno sui due stipiti e sull'architrave delle
case nelle quali lo
mangeranno.
In quella notte ne
mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno
con àzzimi e con erbe
amare.
Ecco in qual modo lo
mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi,
il bastone in mano; lo
mangerete in fretta.
È la Pasqua del
Signore!
In quella notte io
passerò per la terra d'Egitto e colpirò ogni primogenito nella
terra d'Egitto, uomo o
animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell'Egitto.
Io sono il Signore!
Il sangue sulle case
dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò
il sangue e passerò
oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io
colpirò la terra
d'Egitto.
Questo giorno sarà per
voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore:
di generazione in
generazione lo celebrerete come un rito perenne"».
Parola di Dio.
Seconda lettura.
Ogni volta che
mangiate questo pane e bevete al calice,
voi annunciate la
morte del Signore.
Dalla prima lettera di
san Paolo apostolo ai Corìnzi (11,23-26)
Fratelli, io ho
ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore
Gesù, nella notte in
cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo
spezzò e disse:
«Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo
aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la
nuova alleanza nel mio
sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
Ogni volta infatti che
mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la
morte del Signore,
finché egli venga.
Parola di Dio.
Vangelo.
Li amò sino alla
fine.
Dal Vangelo secondo Giovanni
(13,1-15) anno dispari.
Prima della festa di
Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da
questo mondo al Padre,
avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.
Durante la cena,
quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di
Simone Iscariota, di
tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto
nelle mani e che era
venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose
le vesti, prese un
asciugamano e se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell'acqua
nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad
asciugarli con
l'asciugamano di cui si era cinto.
Venne dunque da Simon
Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?».
Rispose Gesù: «Quello
che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo».
Gli disse Pietro: «Tu
non mi laverai i piedi in eterno!».
Gli rispose Gesù: «Se
non ti laverò, non avrai parte con me».
Gli disse Simon
Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!».
Soggiunse Gesù: «Chi
ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i
piedi ed è tutto puro;
e voi siete puri, ma non tutti».
Sapeva infatti chi lo
tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».
Quando ebbe lavato
loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse
loro: «Capite quello
che ho fatto per voi?
Voi mi chiamate il
Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono.
Se dunque io, il
Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete
lavare i piedi gli uni
agli altri.
Vi ho dato un esempio,
infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».
Parola del Signore.
Meditazione personale
sul Vangelo di oggi.
La stanza al piano superiore
Leggendo i racconti della
passione, si parla di un’altra casa, oltre a Betania,
in cui Gesù si è sentito accolto
in quelle ultime ore.
Una casa particolare, rimasta
segreta, ampia e spaziosa, addobbata con tappeti,
fa notare Marco, preparata
apposta per Gesù.
Gesù che si appresta a morire.
La città è in fibrillazione per
la pasqua ormai imminente, la più solenne delle
feste ebraiche.
Migliaia di pellegrini sono
saliti a Gerusalemme.
Gli apostoli ignari, ancora
gongolano per gli eventi della risurrezione di Lazzaro.
L’ingresso trionfale a
Gerusalemme li ha caricati a mille.
L’idea che la situazione possa
precipitare, ora, neppure li sfiora.
Un pò come succede a noi, quando,
tutto va bene siamo sereni, pieni di vita
e pensiamo solo a divertirci, per
poi appena arriva qualche problema, cadere
nella disperazione.
Gesù dice che, dobbiamo essere
sempre pronti.
Solo Gesù sa. E Giuda.
Le cose non stanno affatto
andando bene; i sadducei stanno cercando
un’occasione per ucciderlo.
I farisei sono urtati dalle sue
continue provocazioni.
La folla che lo ha acclamato e
seguito in Galilea, qui in Giudea non si lascia
coinvolgere più di tanto.
I suoi apostoli, teneri, non
hanno capito nulla, poveretti.
Gesù sa che la sua missione è
fallita.
L’uomo non accetta il nuovo volto
di Dio.
Odio e incomprensione stanno
crescendo.
I sadducei vogliono risolvere in
fretta l’affare Gesù, soprattutto dopo l’eclatante
e inopportuna risurrezione di
Lazzaro.
Presto prima di pasqua.
Gesù sa che quelle potrebbero
essere le ultime ore.
Prende una decisione; lascia
Betania e decide di cercare un luogo a Gerusalemme
dove celebrare una cena.
Una cena d’addio, pensa.
I suoi, invece, non sanno proprio
di cosa si tratti.
La gente, dentro le mura, è tutta
presa dai preparativi.
Si tratta in quell’ultimo giorno
prima di pasqua, di togliere tutto il lievito
presente entro le mura, come
chiesto a Mosè, (Esodo 13,7).
Tutto ciò che può fermentare,
deve essere trovato ed eliminato.
Il lievito è il simbolo del male,
il simbolo dell’orgoglio, dell’arroganza, che va bruciato
per poter celebrare il passaggio;
il lievito è l’immagine dell’inclinazione cattiva.
Per i sette giorni seguenti, non
si potrà mangiare pane lievitato, nelle case degli ebrei,
come prescrive la Torah,
(Deuteronomio 16,3-4).
Anche Gesù, considerato lievito
malvagio, dev’essere tolto di mezzo e allontanato
dalla città per non contaminare
la pasqua. (MC 14,12-16).
L’agnello pasquale va consumato
dentro le mura della città, i pellegrini sono autorizzati
a mangiarlo fuori, visto il gran
numero di persone giunte a Gerusalemme.
Si tratta di trovare una sala
adatta, una stanza pronta.
Gesù manda due discepoli e affida
loro il compito di contattare una persona,
un tale, conosciuto dai
discepoli.
Chi è questo tale?
Alcuni scrittori giungono a
immaginare che la grande stanza addobbata sia di
proprietà di un discepolo di
Gesù, appartenente alla classe sacerdotale,
che abita nella città alta.
Forse addirittura, si tratta di
Giovanni l’evangelista, in passato identificato con
Giovanni l’apostolo.
Che Giovanni evangelista non sia
Giovanni l’apostolo, fratello di Giacomo,
spiegherebbe molte cose.
Il fatto che il suo Vangelo sia
quasi esclusivamente ambientato a Gerusalemme,
fa pensare che sia originario
della città e non della Galilea come l’apostolo, che non
dica una parola degli eventi in
cui sono coinvolti Pietro, Giacomo e Giovanni come
riferito dai Sinottici, la sua
straordinaria conoscenza della scrittura, la presenza,
nel prologo, di alcuni temi in
uso alla riflessione rabbinica che ne fanno non un
pescatore, ma, piuttosto, un
dottore della legge, la facilità con cui entra nella casa
del sommo sacerdote Anna e vi fa
entrare Pietro, (GV 18,15-16) e, soprattutto,
il fatto che il quarto
evangelista non si identifichi affatto con l’apostolo Giovanni,
sono elementi che rinforzano
questa tesi; Giovanni evangelista perciò,
non è Giovanni l’apostolo.
La sua presenza accanto a Gesù
durante la cena, più vicino di Pietro, si giustifica
bene se egli è il proprietario
della casa che li ospita.
È la casa di Giovanni
l’evangelista, sacerdote del tempio?
È possibile!
Mi piace pensarlo e ci sono degli
indizi che sostengono questa tesi.
Mi piace moltissimo la versione
di Matteo, in cui i discepoli dicono alla persona
Designata; il Maestri dice: “Il
mio tempo è vicino; vorrei celebrare la pasqua
insieme ai miei discepoli presso
di te” (MT 26,18).
Perché nessuno degli evangelisti
ricorda il nome del proprietario della splendida
stanza alta, addobbata, che
diventerà anche il rifugio per gli apostoli dopo la
crocifissione è, forse, la stanza
della Pentecoste?
È un luogo importante,
essenziale, conosciuto dalla primitiva comunità!
Forse perché è un particolare
senza importanza annotano alcuni.
Azzardo un’ipotesi; se d’avvero è
la stanza di un sacerdote, e questo sacerdote
è l’evangelista Giovanni, forse
non era opportuno svelarne l’identità.
O forse perché l’invito ad
addobbare la stanza alta è rivolto a ciascuno di noi,
ad ogni discepolo.
Gesù desidera celebrare la pasqua
presso ciascuno di noi, nella nostra vita,
nella nostra stanza interiore.
La fede non è un evento che ci
sfiora, che ci sta accanto, che ci vede partecipanti
part-time, l’evento delle feste
comandate e della domenica, da tirare fuori quando serve.
È finito il tempo in cui Dio si
nascondeva misteriosamente altrove.
Egli è presente nella
quotidianità, incontrabile, riconoscibile, accessibile.
Meglio; manifesta il suo
desiderio di stare con noi, di stare con me, con te, con tutti voi.
Abbiamo allora, una stanza
addobbata in cui accogliere il Signore, nella nostra vita?
Un luogo, un tempo, un
atteggiamento che gli permetta di celebrare il dono della sua vita?
Può essere un tempo di preghiera
quotidiana, un ritiro annuale in una casa spirituale,
un pellegrinaggio in un luogo
santo, non una gita, l’abitudine a meditare la Parola
e chiederci cosa Lui vuole dirci
e, da dirci, ne ha tante delle cose.
Il grande dramma del nostro tempo
è che lamentiamo l’assenza di Dio.
Ma non ci facciamo trovare.
Forse è per questo che mi sono
preso il virus, per farmi veramente trovare, perché
devo stare con il Signore nella
mia stanza segreta e meditare con Lui, tutti gli eventi
che lo hanno scosso e, capirli.
Dio ci rende partecipi, si fa
nostro ospite, si dona totalmente, solo se lo vogliamo,
se lo invitiamo.
Perciò, lasciamoci incontrare!
La stanza è pronta, grande,
spaziosa.
Non è una cena pasquale, è la
cena pasquale.
La cena dell’addio, del dono e
delle consegne.
Ignari, gli apostoli non sanno
quello che sta per succedere.
Gesù rispetta la sequenza
prevista dal rito della cena pasquale, anche se nessun
evangelista parla di agnello o di
erbe amare.
Come è abituale in una cena di
festa.
Gesù benedice e ringrazia per il
pane, all’inizio del pasto.
Poi alla fine, si benedice e si
ringrazia bevendo il vino.
Gesù però cambia la gestualità e
le parole della preghiera di benedizione,
a cui tutti rispondono amen.
Lo fa sapendo che sta per dare se
stesso in cibo all’umanità.
Tutto è pronto, ora.
Gli apostoli chiacchierano, gli
eventi degli ultimi giorni li hanno galvanizzati.
Solo Giuda è scostante, di
malumore, sembra pensare ad altro.
Gesù li ascolta, il suo cuore è
gonfio, pieno di gioia per essere lì; ama teneramente
i suoi discepoli.
Scrive Giovanni: “Prima della
festa di pasqua, sapendo Gesù che era venuta la sua
ora per passare da questo mondo
al Padre; avendo amato i suoi che erano nel
mondo, li amò fino alla fine”,
(GV 13,1).
Gesù è disposto ad amare fino
alla fine.
Nel suo intimo, però,
l’inquietudine vigila.
Sa che è l’ultima cena.
Sa che tutto sta per finire.
Vuole ancora compiere un gesto,
l’ultimo.
Mettiamoci nei panni di Gesù.
Non storcete il naso, spesso ci
mettiamo nei panni di Dio, o no.
Gesù è vissuto per trent’anni
nell’anonimato, preparandosi alla sua missione,
assumendo la consapevolezza del
suo particolare rapporto con Dio, scoprendo
in sé la presenza di Dio in
maniera unica.
Il Verbo che lo abita illumina
anche la sua intelligenza; Egli sa di avere un
compito speciale, una missione
particolare.
Ha posto la sua vita al servizio
del Regno di Dio, è stato discepolo del Battista,
poi gli è passato davanti e, nel
deserto, ha scelto come proclamare il vero volto
del Padre; senza durezze, senza
trionfalismo, senza compromessi, ma affidandosi
unicamente alla Parola.
Il suo parlare è intenso, zelante
e colto, totalmente diverso da tutti e conquista le folle.
È tutto all’opposto di noi, che
la Parola sembra proprio ci interessi poco, basta
vedere quante persone vanno a
Messa quando addirittura è finita l’omelia.
Perché, la scusa è sempre pronta,
il prete non sa parlare bene, avete ragione mi
associo, allora è meglio entrare
nel momento cruciale della Messa.
No; tranquilli, non condivido.
E se invece fossimo noi, che non
ci impegniamo ad ascoltare, magari pensando alle
nostre varie cose?
Mi sa che è proprio così, è come
quando troviamo il poco tempo per pregare, ma la
nostra mente è piena di mille
cose e ci distoglie da quello che stiamo facendo.
Tranquilli, vi capisco, capita
anche a me certe volte.
Siamo in buona compagnia, allora.
Chiudiamo la parentesi,
ritorniamo al nostro Gesù.
Ha iniziato la sua predicazione
in Galilea, attorniato da alcuni amici e discepoli
con cui ha condiviso la tavola e
i sogni.
Il suo modo di parlare del Regno,
la sua tenerezza, la sua compassione, hanno
fatto breccia nel cuore delle
persone; mai nessuno ha parlato di Dio come
parla il Rabbino di Nazareth.
Appunto, Gesù.
La sua fama si diffonde a macchia
d’olio; ora parla davanti alle folle.
Parla di Dio, della legge, dei
precetti.
Intenso come un esseno, zelante
come un fariseo, colto come uno scriba, eppure
totalmente diverso da tutti.
Non è presuntuoso, non
infastidito dai poveri e dai piccoli, non arrogante.
Qualcuno dice che compie
miracoli, alcuni lo testimoniano, ma non vuole
pubblicità intorno a questi
eventi.
Sale a Gerusalemme, dove si
scontra con la durezza dei sadducei; anche i farisei
lo guardano con sospetto perché
li mette in difficoltà rispetto alle troppe, inutili
piccolezze dei comandamenti
orali.
Ci sono d’esempio le nostre
comunità parrocchiali.
La tensione cresce, Gesù è
guardato con sospetto.
Parla liberamente di Dio, lo considera
suo Padre, corregge la legge, svela un volto
di Dio inatteso e magnifico.
Dio è un Padre che ama i suoi
figli, che li tratta da adulti.
Dio è un pastore che cerca le
pecorelle smarrite e le carica sulle spalle.
Dio è un vignaiolo che affida
all’umanità la sua vigna preziosa.
Dio è un Padre misericordioso,
che aspetta i suoi figli peccatori per
perdonarli; ci ricordiamo, va e
non peccare più, la tua fede ti ha salvato.
Ma le parole non bastano.
I suoi collaboratori più stretti
sembrano non avere capito molto della situazione,
che sta precipitando.
Con quale stato d’animo Gesù
celebra quella cena, quel 6 Aprile dell’anno 30?
Forse con un senso di fallimento.
Come capita a tutti noi, prima o
poi.
È venuto per annunciare il vero
volto di Dio, perché Lui e il Padre sono
una cosa sola.
Ma l’uomo non ha capito.
La folla che lo acclama, chiede
sempre dei miracoli, come se fosse un
fenomeno da baraccone.
Questo capita anche ai nostri
tempi, tutti a correre nei vari Santuari in cerca del
miracolo, tanti vanno a
Medjugorje per toccare i veggenti nella speranza che
succeda qualche cosa di speciale.
Ma che senta dire, vado in quel
posto, per riempirmi di Dio, della sua Parola,
è una cosa rarissima.
I farisei, che condividevano
molte delle sue idee, lo guardano con sospetto,
hanno paura perchè è il solo che
osa contraddirli.
I sadducei e la classe
sacerdotale lo considerano un pericolo per la stabilità
del paese, o delle loro tasche;
per forza, parla sempre di condividere.
I suoi amici, i più fedeli, non
hanno colto la gravità della situazione e si
gongolano nel loro nuovo ruolo
spirituale.
Tutti, eccetto Giuda, che pensa
di accelerare i tempi, di farlo incontrare col
Sinedrio, e combina un pasticcio
assurdo.
Povero Giuda, ha dovuto
sobbarcarsi anche le nostre colpe, il tradimento.
Gesù ha fallito la sua missione;
l’uomo non cambierà mai.
Che fare allora?
Gesù chiede consiglio a chi lo
ascolta.
Cerca una luce, una strada da
percorrere, ma a nessuno interessa quello
che deve fare.
L’importante che non rompa
troppo.
Cosa deve fare ancora?
Gesù viene osannato come un dio.
Ecco la risposta di quelle
persone che solo dopo qualche giorno
urleranno crocifiggilo.
Idiozia dell’animo umano.
I vignaioli omicidi chiedono a
gran voce di giustiziare i vignaioli
omicidi; chiedono di essere
giustiziati.
Ecco l’imbecillità dell’essere
umano.
Sì, forse dovrebbe fare così;
arrabbiarsi, invocare il fuoco del cielo
o una legione di angeli con le
spade fiammeggianti.
Non alzerà la mano contro i
coloni, ma si farà immolare su un
patibolo per loro e per tutti.
No, non lo farà.
Colui che non spezza una canna
incrinata, tenterà un’ultima strada.
Donarsi, consegnarsi, osare.
A partire da ora.
È una cena pasquale, quella che
stanno vivendo.
Cena intensa, come quella rituale
della fuga del popolo schiavo dall’Egitto.
Gesù prende il pane, all’inizio
della cena, lo spezza e lo dona, come previsto
in occasione delle festività.
Alla fine prende il calice del
vino e, diversamente dal rituale, lo porge ai suoi discepoli,
(Marco invece sintetizza questi
due gesti ponendoli insieme, durante la cena).
E parla. (MC 14,22-25).
Aggiunge alle consuete parole di
benedizione, un’affermazione perentoria;
questo è il mio corpo, questo è
il mio sangue.
I discepoli sono sbalorditi,
sconcertati; di cosa parla, il Rabbì?
Gesù non usa parole a caso, sa
bene ciò che fa, crede profondamente in ciò che dice.
La sua passione inizia qui, la
sua crocifissione, il dono della sua vita, sono
anticipati, qui ora.
Matteo che scrive dopo Marco e
che è presente alla cena, aggiunge un particolare.
Quindi prese il calice, rese
grazie e lo passò a loro dicendo: “Bevetene tutti; questo
infatti è il mio sangue
dell’Alleanza, che sarà versato per molti in remissione
dei peccati”, (MT 26,27-28).
Il sangue che Gesù sta per
versare è un sangue di purificazione, per il perdono dei peccati.
Gesù svela la sua profonda
identità; Egli è l’Agnello pasquale che manca alla tavola
della cena.
Sconcertante; Gesù sta per essere
torturato fino alla morte, e si preoccupa della
salvezza dei suoi discepoli, del
perdono dei loro e dei nostri peccati.
L’hanno capito gli apostoli;
l’abbiamo capito noi?
Ho molti dubbi!
Luca, che scrive
contemporaneamente a Matteo, aggiunge una frase
fondamentale, certamente
proveniente da Paolo, detta da Gesù: “Questo
è il mio corpo che è dato per
voi.
Fate questo in memoria di me”,
(Luca 22,19).
Gesù da un ordine preciso ai suoi
discepoli; rifate questo gesto.
Non dice; ogni tanto ritrovatevi
e brindate alla mia memoria!
Usa una parola tecnica,
“zipparon”, che in ebraico significa, ”memoriale”,
e che rimanda alla ritualità
della pasqua ebraica.
Celebrare il “memoriale”, perciò
significa ripetere un gesto per rivivere
quella esperienza.
Gesù dice; se volete chi Io sia
presente, rifate questo gesto.
Ed è nata la S. Messa.
E così accade, ancora oggi.
In obbedienza al comando del
Signore.
E così è accaduto, fin dall’inizio.
La più antica testimonianza della
fedeltà a questo ordine, ce la fornisce San Paolo,
quando, rivolgendosi alla
comunità di Corinto, (siamo intorno al 55 d.C. pochi anni
dopo questa prima cena), scrive;
io ho ricevuto dal Signore quello che vi ho trasmesso;
che il Signore Gesù, nella notte
in cui fu tradito, prese del pane e, reso grazie, lo spezzò
e disse: “Questo è il corpo, che
è per voi; fate questo in memoria di me”.
Allo stesso modo, dopo aver
cenato, prese anche il calice dicendo: “Questo calice è la
nuova alleanza nel mio sangue;
fate questo, tutte le volte che ne bevete, in memoria di me”.
Quindi tutte le volte che voi
mangiate questo pane e bevete a questo calice, annunziate
la morte del Signore, finchè Egli
venga, (1° Corinzi 11,23-26).
Paolo si preoccupa che nessuno
lasci cadere lo straordinario dono dell’Eucaristia.
Che dire amici?
Possiamo discutere per ore sulla
qualità scadente delle nostre messe.
Sulla fragilità dei nostri preti.
Sulla mediocrità delle nostre
liturgie.
Non dimentichiamo mai, però, che
ciò che stiamo facendo è un gesto di obbedienza
al Signore, che continua a
consegnarsi, a rendersi presente, che ci crediamo o no,
che ce ne accorgiamo o no.
E questo basta e avanza.
Ecco perché a Collevalenza dietro
al Crocifisso dell’Amore Misericordioso,
Madre Speranza ha fatto mettere
l’Ostia: “Perché possiamo renderci convinti che
in ogni Santa Messa, Lui scende
misticamente a rinnovare il suo gesto d’Amore”.
Questo manca alle nostre
celebrazioni; la consapevolezza che Egli è presente,
che quel gesto è un dono d’amore
assoluto e sanguinante, definitivo e salvifico.
Luca scrive nel suo Vangelo;
prima della cena Gesù disse: “Ho desiderato
grandemente mangiare questa
pasqua con voi, prima di partire, perché
vi dico che non la mangerò più
finchè non sia compiuta
nel Regno di Dio” (Luca
22,15-16).
Quello che è chiaro, è che Gesù
sta mettendo tutto se stesso in questo gesto,
tutta la forza e l’amore di cui è
capace.
Niente a che vedere con il
precetto, l’abitudine, l’identità culturale.
Ma molto a che vedere con
l’Amore.
Se credi che Gesù è presente,
come fai a non esserci?
Come fa a non pesarti il fatto di
non essere alla cena?
Nella tormentata storia della
nostra Chiesa, la fedeltà a quest’ordine, il gesto della
cena, è costato la vita a molte
persone, ieri e oggi.
Tanti martiri hanno dato la loro
vita per celebrare l’Eucaristia, noi invece,
la celebriamo con insufficienza.
Prima della festa di pasqua,
sapendo Gesù che era venuta la sua ora per passare
da questo mondo al Padre, avendo
amato i suoi che erano nel mondo, li amò
fino alla fine, (GV 13,1).
Così Giovanni, in maniera
sorprendente e asciutta, inizia il racconto della cena.
Di cui non parla.
Giovanni va oltre i fatti,
raggiunge la sostanza; la cena pasquale è, per Gesù,
il modo di amare i suoi fino alla
fine.
Giovanni osa di più; l’intera
passione e il modo che Gesù ha di amare
i suoi fino alla fine, fino a
consumarsi, fino a scomparire.
L’ora è giunta; ciò che poteva
fare lo ha fatto, ha testimoniato e annunciato l’amore
del Padre, ha svelato la sua
Misericordia e la sua tenerezza, ha fondato e formato
la comunità che dovrà continuare
ad annunciare il Regno.
Ma le cose non si sono messe come
avrebbe sperato, e l’ostilità è cresciuta accanto a Lui.
Non resta che un ultimo gesto,
forte e simbolico.
È l’ora di compiere il passaggio;
pasqua, non significa forse, “passaggio”?
Per Israele, passaggio dalla
schiavitù alla libertà.
Per Gesù, passaggio da questo
mondo al Padre.
Per noi, passaggio dalla morte alla
vita, dalle tenebre alla luce.
Gesù li ama fino alla fine.
Ma potremmo tradurre, fino al
compimento, fino alla pienezza, fino alla perfezione,
fino al termine.
La croce, se correttamente
intesa, è perfetta manifestazione della misura dell’Amore
di Dio per noi.
Perché non c’è amore più grande
che dare la vita per i propri amici.
E per i nostri nemici, (Romani
5,8; GV 4,10).
Giovanni non parla della cena, ma
racconta un particolare che gli altri evangelisti
trascurano; quello della lavanda
dei piedi.
È un gesto intenso, sconcertante,
che, ancora oggi, provoca turbamento in chi legge,
figuriamoci in chi lo ha vissuto!
Gesù, il Maestro, compie il gesto
dei servi, per farci capire il modo di vivere di un cristiano.
L’abbiamo capito?
Da quello che vedo, credo di no!
Vero Pietro?
Beh, siamo in buona compagnia
allora, se non l’aveva capito nemmeno lui!
Perché Giovanni non parla della
cena?
Probabilmente, essendo il Vangelo
di Giovanni scritto alcuni decenni dopo gli
altri, l’evangelista trascura i
particolari conosciuti, riprendendo, invece, discorsi
e azioni tralasciate dagli altri.
Il suo, ricordiamocelo sempre,
non è un Vangelo in senso stretto; è quasi una
riflessione sul Vangelo, una
meditazione destinata ai discepoli più progrediti
nella vita spirituale.
A me è venuto in mente un’altra
ragione, meno teologica, perché mi piace interpretare.
La lavanda dei piedi è un
fortissimo richiamo al servizio, alla concretezza,
alla quotidianità.
Forse Giovanni ha avuto il tempo
di vedere delle comunità di discepoli crescere
nella vita interiore, diventare
dei grandi mistici, celebrare delle solenni liturgie.
Dimenticandosi però del fratello.
È un rischio continuo, già
segnalato, nella primitiva comunità cristiana,
da San Paolo e San Giacomo.
Come ancora accade a molte nostre
comunità parrocchiali; le persone si ritrovano
di Domenica, pregano devotamente,
e, appena conclusa la messa, vivono in totale
disarmonia con ciò che hanno
celebrato.
Giovanni parlando della lavanda
dei piedi, vuole forse dirci che non possiamo
celebrare con verità la cena del
Signore, se non ci laviamo i piedi gli uni gli altri.
Se non ci mettiamo al servizio
gli uni degli altri.
E arriviamo alla tentazione.
Giovanni, che è molto duro con
Giuda, ha un’annotazione che fa rabbrividire.
Durante la cena, quando il
diavolo aveva già posto in animo a Giuda di Simone
Iscariota di tradirlo, sapendo
che il Padre aveva messo tutto nelle sue mani e che
da Dio era uscito e a Dio
ritornava, si alzò da tavola, depose il mantello e,
preso un panno, se ne cinse, (GV
13,2-3).
È il diavolo a mettere in animo a
Giuda di tradire il Maestro.
Ma è Giuda che sceglie di
assecondare questa tentazione, perciò attenzione,
non diamo sempre la colpa al
diavolo di quello che combiniamo noi,
prendiamoci le nostre
responsabilità una buona volta.
L’uomo è splendidamente e
drammaticamente libero e la sua dignità si esprime
proprio nel dover scegliere e, di
conseguenza, nel poter sbagliare.
Esiste una dignità del peccatore,
quella di ammettere di avere commesso uno sbaglio.
E di portarne le conseguenze.
Il nostro mondo, ipocrita, nega
la possibilità del peccato, o lo ammette solo per
eventi macroscopici, ignorando
palesemente le tante piccole tentazioni a cui
soccombiamo quotidianamente.
Il peccato non esiste più, meno
male, era solo un’invenzione dei preti!
Solo se siete dei
narcotrafficanti o degli stupratori, peccate, tutto il resto sono piccolezze.
Evadere le tasse, inquinare,
mentire, assecondare la libidine, spettegolare (oggi si
dice gossip, fa meno
provinciale), parlare sboccatamente, vivere nell’egoismo,
usare toni maleducati e violenti,
sono tutti peccatucci insignificanti.
E intanto la civiltà occidentale
muore nei propri vizi.
Giuda ci ricorda la grandezza
dell’uomo; il diavolo suggerisce, ma l’uomo acconsente.
È sempre l’uomo, alla fine, che
decide se assecondare o meno la tentazione.
Giuda, come noi, è attore, non
autore del male, può scegliere di non viverlo.
Dentro ciascuno di noi c’è un
mentitore, un adultero, un assassino, un ladro.
Ma lo possiamo fermare, limitare,
bloccare. E convertire.
Giuda ha in mano il suo destino
e, lo getta alle ortiche.
Anche Gesù, dice Giovanni, ha
tutto nelle sue mani.
E lo mette a disposizione dei
discepoli, ne fa dono, si fa dono.
Gesù depone il mantello della sua
regalità, la divinità, la sua superiorità.
Se ne libera, se ne spoglia, per
testimoniare quanto amore ha per i discepoli.
Lui che è Dio, si fa uomo, perché
l’uomo possa farsi Dio.
Depone le sue vesti, resta nudo,
come sulla Croce.
Indossa un telo, che gli fa da
grembiule e da asciugatoio; è la sua veste
definitiva, quello del servo.
Lavarsi i piedi, come dicevamo
più sopra, è un gesto necessario per chi rientra a
casa dopo aver camminato con i
sandali sulle polverose strade della Giudea.
Se si era invitati in casa
altrui, era buona educazione, per il padrone di casa,
dare la possibilità all’ospite di
rinfrescarsi.
Le famiglie più ricche facevano
compiere questo gesto da un servo o da uno schiavo.
Un servo o uno schiavo non
giudeo.
Ma era anche il gesto intimo
dello sposo verso la sposa, o della madre verso il figlio.
Per ben otto volte, in pochi
versetti, Giovanni ricorda questo gesto, perché è il
cuore della passione.
La chiave interpretativa della
cena.
Gesù vuole fare questo gesto
spiegandone il significato; Lui che è Maestro, si fa
servo dei discepoli così che,
anche i discepoli si facciano servi gli uni degli altri.
Solo Pietro, al solito, non
capisce niente e rischia di rovinare la poesia del
momento, lui è così, arriva a
capire sempre dopo la spiegazione, perché è
troppo irruento nei suoi
interventi.
Versò quindi dell’acqua nel
catino e incominciò a lavare i piedi dei discepoli
e ad asciugarli con il panno del
quale si era cinto.
Arriva dunque da Simon Pietro.
Gli disse: “Signore, Tu mi lavi i
piedi?”.
Gli rispose Gesù: “Ciò che io
faccio, tu ora non lo sai; lo comprenderai in seguito”.
Gli disse Pietro: “Non mi laverai
i piedi. No mai!”.
Gli rispose Gesù: “Se Io non ti
lavo, non avrai parte con me”.
Gli disse Simon Pietro: “Signore,
non solo i piedi, ma anche le mani e il capo”.
Gesù soggiunse: “Chi ha fatto il
bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi,
ed è integralmente puro; e voi
siete puri, ma non tutti”.
Sapeva infatti chi stava per tradirlo;
per questo disse: “Non tutti siete puri”, (GV 13,4-7).
Mi correggo; non è vero che
Pietro non capisce nulla del gesto.
Lo capisce benissimo, perciò non
vuole farsi lavare i piedi dal Maestro.
Per non dover fare altrettanto.
Il gesto di umiltà di Pietro, che
non si ritiene degno di farsi lavare i piedi dal
Rabbì, nasconde, invece, una
grande arroganza.
Pietro vuole insegnare a Gesù
cosa è conveniente fare, vuole insegnare a Dio
come si fa a fare Dio.
Povero Pietro! Lo capisco!
Dio è talmente diverso, sempre
altrove, sempre a stupirci, che viene voglia
di correggerlo ogni tanto.
A chi verrebbe in mente di
immaginarsi, un Dio servo?
Un Dio umile? Un Dio timido?
Un Dio pronto a dare la sua vita
per i nemici?
Gesù ammonisce Pietro; per poter
avere parte con Lui, per poter-davvero-essere
configurati a Cristo, dobbiamo
seguirlo, anche nell’umiltà di chi si rende servo.
Capite?
Sì, Signore, capiamo benissimo
quello che hai fatto.
E ci spaventa.
Ci spaventa perché ci svela la
sua grandezza, e la nostra piccolezza.
Tu, Signore, sei il Dio che ha
creato l’Universo, e che dici di essere al
servizio della nostra felicità.
Non sei un Dio arrogante, e
potente, sommo egoista bastante a te stesso, ma un
Dio che ama totalmente i suoi
figli, da mettersi al loro servizio.
Non però a servizio dei loro
capricci e delle loro ambizioni, ma della loro
felicità più autentica.
No Signore, se vogliamo essere
tuoi discepoli, siamo chiamati a imitare il tuo
gesto di servizio, mettendoci gli
uni al servizio della felicità degli altri.
Senza cadere in una sindrome
depressiva, senza giocare a fare i cattolici
striscianti e umilissimi, senza
diventare lo zerbino dei piedi dei colleghi di
lavoro, ma con dignità e
consapevolezza, senza cedere ai ricatti di chi coltiva
i nostri sensi di colpa per
manipolarci.
Io discepolo, scelgo di far
diventare la mia vita un servizio, nello stile con cui
lavoro, mettendo a disposizione
le mie qualità per l’edificazione del Regno,
usando i miei talenti di ascolto,
di mediazione, di tolleranza, nella comunità,
facendo il possibile, in
famiglia, per aiutare, da adulto, me e le persone che
amo a ricercare la felicità tutta
intera.
Io discepolo, non devo aver
paura, o vergogna di parlare apertamente della mia fede.
Servi della felicità per scelta.
Per imitare il Maestro.
È l’unica volta, nel Vangelo di
Giovanni, in cui ricorre il sostantivo “Apostolo” ed
è usato per indicare di nuovo il
gesto del servizio; il vero Apostolo si riconosce dal
fatto che è servo.
Gesù poi, manifesta ancora una
volta la sua preoccupazione per Giuda.
Lui conosce chi ha scelto; Giuda
è e resta un discepolo, agli occhi di Gesù.
Gesù, in cuor suo, sa di non aver
sbagliato nello scegliere Giuda.
Gesù anticipa il senso del suo
patire, che ancora i discepoli ignorano; quando
vedranno ciò che sta per
accadere, la misura dell’Amore di Dio che si fa dono
senza misura, capiranno,
capiremo, che Gesù è Io sono, il nome stesso di Dio?
No! Fuggiremo pieni di
paura!
Questo è il nostro
peccato, non credere nel suo amore.
Per riuscirci, dobbiamo
solo pregare e meditare, buona Cena con il
Signore Gesù, amici,
Fausto.
Padre nostro che sei
nei cieli, sia santificato il
tuo nome, venga il tuo
regno, sia fatta la tua
volontà come in cielo
così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a
noi i nostri debiti
come anche noi li rimettiamo ai
nostri debitori, e non
abbandonarci alla tentazione,
ma liberaci dal male.
Amen.
Ave, o Maria, piena di
grazia, il Signore è con te.
Tu sei benedetta fra le donne e benedetto il frutto
del tuo seno, Gesù.
Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori,
adesso e nell'ora della nostra morte. Amen.
Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo.
Come era nel
principio, ora, e sempre,
nei secoli dei secoli.
Amen.
Buona giornata, Fausto.
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