Della Domenica delle
Palme.
Prima lettura dal libro
del profeta Isaìa (50,4-7)
Il Signore Dio mi
ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare
una parola allo
sfiduciato.
Ogni mattina fa
attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi
ha aperto l'orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi
sono tirato
indietro.
Ho presentato il
mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi
strappavano la
barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi
assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo
la mia faccia dura
come pietra, sapendo di non restare confuso.
Parola di Dio.
Seconda lettura dalla lettera
di san Paolo apostolo ai Filippèsi (2,6-11)
Cristo Gesù, pur
essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio
l'essere come Dio,
ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo,
diventando simile
agli uomini.
Dall'aspetto
riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente
fino alla morte e a
una morte di croce.
Per questo Dio lo
esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di
Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto
terra, e ogni
lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
Parola di Dio.
Dal Vangelo secondo Matteo
(21,1-11) anno A. Forma breve.
Quando furono vicini a
Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte
degli Ulivi, Gesù
mandò due discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio di
fronte a voi e subito troverete
un'asina, legata, e con essa un puledro.
Slegateli e
conduceteli da me.
E se qualcuno vi dirà
qualcosa, rispondete: Il Signore ne ha bisogno, ma li
rimanderà indietro
subito».
Ora questo avvenne
perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del
profeta: «Dite alla
figlia di Sion: Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su
un'asina e su un
puledro, figlio di una bestia da soma».I discepoli andarono
e fecero quello che
aveva ordinato loro Gesù: condussero l'asina e il puledro,
misero su di essi i
mantelli ed egli vi si pose a sedere.
La folla,
numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri
tagliavano rami dagli
alberi e li stendevano sulla strada.
La folla che lo
precedeva e quella che lo seguiva, gridava: «Osanna al figlio di Davide!
Benedetto colui che
viene nel nome del Signore!
Osanna nel più alto
dei cieli!».
Mentre egli entrava in
Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione
e diceva: «Chi è
costui?».
E la folla rispondeva:
«Questi è il profeta Gesù, da Nazareth di Galilea».
Parola del Signore.
Meditazione personale
sul Vangelo di oggi.
Gesù sale su di un asinello che
si inerpica deciso sul fianco della collina,
sulla strada che costeggia le
imponenti mura, per entrare nella città santa.
La gente lo riconosce, alcuni
bambini gli corrono incontro, alcuni tagliano
rami di palma e di ulivo,
qualcuno grida “osanna”.
Arriva il Messia, Gerusalemme,
arriva il tuo re.
Arriva dal monte degli ulivi,
perché di là sarebbe arrivata la salvezza,
cavalcando un puledro d’asina,
come profetizzato da Zaccaria.
Re da burla, potente che non si
prende sul serio, Gesù entra nella città
che uccide i profeti.
Me lo vedo, il Signore.
Siamo talmente abituati alla
morte di Dio, talmente riempiti di riflessioni
e meditazioni, e stanche prediche
sulla salvezza, da avere tutto chiaro,
tutto colto, tutto imparato.
Non ci serve null’altro.
Al più qualche emozione resa
possibile dalle nuove tecniche, dalla
modernità e dai prodigi della
tecnica, una cruenta passione come quella
di Gibson, ma nulla di più.
E assistiamo ancora una volta al
dono di Dio come se fosse una cosa dovuta,
un evento banale, quasi
abitudinario, presente ma debole, scontato ma inutile.
Peggio; ci fermiamo alla crosta,
ascoltiamo e diciamo parole di cui non
conosciamo veramente il
significato.
Gesù è morto per noi.
E nessuno sente il bisogno di
salvezza.
Egli è morto per i nostri
peccati.
E noi stiamo attenti a
sottolineare i peccati degli altri.
Ha donato se stesso.
E non sappiamo che farcene di
questo dono.
Avessimo il coraggio di tornare a
quei giorni, di riviverli, di lasciarci
interrogare e scuotere!
Avessimo il coraggio di osare
perforare i Vangeli, di toglierli dalla patina
di incenso che li avvolge per
guardare negli occhi il Nazareno che ha
deciso di donarsi fino in fondo.
Lo spettacolo è pronto, tutti i
protagonisti sono al loro posto.
Ha inizio la morte di Dio.
Gesù arriva alla fine dei suoi
intensi tre anni con un pugno di mosche in
mano; l’umanità non ha capito.
I suoi discepoli, preziosi e
amati, sono fermi alla contraddizione del potere
e della gloria e inchiodati al
proprio (evidente) limite; i capi religiosi avvertono
la forza destabilizzante della
sua predicazione; la folla segue il vento della moda.
Gesù non ha alcuna possibilità di
farcela, la sua scommessa è persa.
Non è servito, non è bastato, non
è sufficiente tutto l’amore che ha donato.
Forse aveva ragione l’avversario,
là nel deserto; troppo ingenuo questo modo di operare.
Davvero Dio pensava di trattare
con gli uomini alla pari?
Di aprire il loro cuore col
sorriso?
Di presentarsi vulnerabile?
La scelta da fare, ormai, è una
sola; andarsene, rinunciare, gettare la spugna.
Occuparsi-chissà-di un altro
mondo. Oppure!
Oppure lasciarsi travolgere,
sparire e morire.
Lasciare che le tenebre vincano,
lasciare che le cose prendano la loro piega, osare.
Osare fino a morire appeso ad una
croce, fino all’eccesso.
Altro è dire: “Dio vi ama!”,
altro morire.
Altro dire: “Il Padre vi
perdona!”, altro pendere, nudo, da un palo. E perdonare.
Una cosa è parlare, un’altra
morire. Urlando.
Capiranno, gli uomini?
O Dio sarà uno dei tanti
sconfitti della storia, dimenticati?
La posta in gioco è immensa;
l’esistenza stessa di Dio.
Quanti crocefissi sono morti
nella storia antica?
Cinquecentomila? Un milione?
Di quanti di loro ricordiamo il nome
e la vita? Di nessuno.
Il rischio che Dio corre in
questo gesto è quello di scomparire per sempre.
L’uomo avrebbe continuato ad
immaginarsi Dio con un volto proiettando
in esso i propri desideri. O le
proprie paure.
Gesù accetta, rischia, si dona.
Forse sarà tutto inutile, come
insinua l’avversario nell’orto degli ulivi.
Forse.
L’agonia di Gesù, nell’orto degli
ulivi, l’agonia che lo fa sudare sangue,
è tutta lì, in quella scelta.
Non nel dolore che Gesù deve
affrontare, non nel senso di abbandono da
parte dei suoi, no.
Il dolore, inaudito, che Gesù
prova, nasce dal dubbio dell’inutilità della
sua scelta definitiva.
L’avversario, che torna ora che è
giunta l’ora, cerca di scoraggiarlo: “è tutto inutile”.
Inutile; non vedi che ti stanno
venendo a prendere per arrestarti?
Inutile; i tuoi stanno dormendo,
non hanno capito la gravità della situazione.
Inutile; l’uomo non cambierà mai.
Gesù accetta, corre il rischio,
si dona. Morirà.
Lì, appeso alla croce, Dio è
evidente, inequivocabile, non vi è alcuna
possibilità di ambiguità.
Il cuore della passione di Cristo
è l’amore, non la violenza.
Gesù muore affidando al Padre il
proprio cuore, e donando a noi lo Spirito.
Dio è evidente; osteso, mostrato,
nudo.
Dio è così, amici; arreso.
A noi, ora, la prossima mossa.
Siateci, ci chiede.
Un invito sommesso, a chi legge
queste righe; siateci amici e io con voi.
Nella povertà delle nostre
assemblee, ritagliando spazio e tempo ai nostri
mille pressanti impegni, anche se
ora per colpa del virus sono limitati, siateci.
Dobbiamo esserci amici, anche se
non possiamo andare in Chiesa a causa
del contagio, possiamo esserci
nella intimità della nostra casa, possiamo
esserci chiusi in un delirante
colloquio con il Signore, aiutarlo, essergli vicino,
nei suoi momenti di abbandono del
Padre.
Sto cercando di aiutarvi in
questi giorni, con le mie meditazioni, per essere
un tutt’uno con Lui e, prepararci
alla sua e nostra risurrezione.
Sette giorni che ci
accompagneranno, spero, a ridire la nostra fede, a riscoprire
il dono, a cambiare la nostra
vita riempita finalmente di amore e, io farò la
mia parte con le mie riflessioni,
che da domani vi accompagneranno
fino alla Risurrezione..
Santa Domenica delle
Palme amici, Fausto.
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