Riviviamo le ultime ore
del Signore.
Il “processo” è finito, ognuno ha
avuto ciò che desiderava; Pilato, inaspettatamente,
una pubblica dichiarazione di
affetto verso Cesare da parte dei sommi sacerdoti;
Caifa, dopo un’estenuante duello
sul filo del rasoio, la condanna per crocifissione
del Nazareno; Erode un’inattesa
attenzione da parte del prefetto.
Gesù è una piccola rotella in un
complesso mondo, in cui ognuno ha le sue
buone ragioni per farlo fuori.
Dio si usa, quando serve,
altrimenti è meglio sbarazzarsene.
Pilato allora decretò che fosse
eseguita la loro richiesta.
Rilasciò quello che era stato
messo in prigione per sommossa e omicidio, e che
quelli richiedevano, ma consegnò
Gesù alla loro volontà.
Gli uomini non fanno la volontà
di Dio.
Gesù, allora, è consegnato alla
volontà degli uomini.
Se non avessimo più di duemila
anni di predicazione e di Via Crucis alle spalle,
rabbrividiremmo, leggendo questa
annotazione di Luca!
La storia degli uomini è anche
segnata dal tentativo di convincere le divinità a
piegarsi ai nostri desideri, alle
nostre necessità.
La passione ci svela un Dio che
accondiscende alla volontà degli uomini, che,
però, è una volontà di morte.
Gesù viene condotto al patibolo
perché il volto di Dio che annuncia e rivela
è intollerabile, disturba e
scandalizza.
Troppo compassionevole, troppo
generoso, troppo amorevole, il suo Dio.
La religione, fino ad allora
usata come strumento per mantenere l’ordine
costituito, esce dagli schemi rigidi
in cui gli uomini religiosi l’hanno costretta,
per diventare un’esperienza
personale, interiore e comunitaria.
Con l’amore di un Dio benevolo e
sorridente. Un delirio.
Preferiamo tenerci il volto
corrucciato di un Dio antipatico ma potente,
indifferente ma schierato con le
nostre ragioni, all’occorrenza.
Gesù va eliminato, non c’è
dubbio.
Un profeta abitato dallo Spirito,
che ha compiuto solo opere di bene, che ha
smascherato l’ipocrisia nascosta
dietro alla devozione senza fede, che ha riletto
con passione e verità la Parola
data da Dio agli uomini, riportandola alla sua
origine, è certamente più
pericoloso di Barabba, omicida e sobillatore.
Pilato consegna Gesù a Caifa; si
forma un piccolo drappello, composto da
soldati romani e, forse, da soldati
del tempio.
Gesù, duramente provato dalla
flagellazione che, ricordiamo, poteva portare
alla morte, è caricato del
patibolo, una trave che gli è posta sopra le spalle
sanguinanti e legata ai polsi.
A questa trave, una volta
arrivati al patibolo, il condannato è inchiodato con due
chiodi, probabilmente passati nel
polso, conficcati nel legno e ripiegati, per poi
essere innalzato, sollevato da
quattro soldati, e appoggiato sopra un palo verticale
precedentemente fissato, alto non
più di due metri.
Il luogo dove Gesù è condotto è
il Golgota, una cava di pietra in disuso
addossata alla porta ovest della
città.
Era abituale trovare delle cave
di pietra intorno a Gerusalemme; quella del
Golgota è abbandonata;
probabilmente la pietra non è di buona qualità, come
rivelano gli scavi sottostanti il
Santo Sepolcro, e qualcuno l’ha riadattata per
scavare delle preziose tombe.
Il Golgota perciò confina con una
serie di ricche tombe scavate nella roccia
e circondate da un giardino.
Il tragitto che Gesù compie non è
lungo; dal palazzo di Erode al Golgota ci
sono poche centinaia di metri.
Lo segue una folla di persone;
chi lo ha condotto per essere giudicato e vuole
essere sicuro della sua morte,
alcuni discepoli, fra cui l’evangelista Giovanni,
alcuni curiosi.
La crocifissione avviene fuori
della città; dentro le mura, infatti,
sarebbe impossibile, renderebbe
impuro il tempio.
Il sommo sacerdote Caifa deve
correre al tempio prima del tramonto; le minuziose
norme di purificazione che lo
riguardano non devono essere infrante per nulla
al mondo; certamente non esce
dalla città e, se assiste all’esecuzione di Gesù,
lo fa dall’alto delle mura.
L’idea che Caifa, da lì a poche
ora, indosserà i solenni paramenti per uccidere
l’agnello pasquale, mi mette i
brividi.
È come se un prete pedofilo,
rovinasse un ragazzo e poi andasse a prepararsi
per celebrare l’Eucaristia.
Assiste alla morte di Dio, e
pensa di onorarlo offrendogli un agnellino, dopo
avergli massacrato il Figlio.
Spesso nella sua predicazione,
Gesù ha parlato di portare la croce, un modo di
dire, forse, derivato
dall’esperienza degli abitanti di Gerusalemme che assistevano
a numerose esecuzioni, con i
condannati che attraversavano la città portando il patibolo.
Gesù, usando anche l’immagine del
giogo del bue, indica la fatica dell’essere
discepoli, l’impegno che comporta
convertirsi alla visione di Dio che Egli inaugura,
lo sforzo per adeguarsi alla
logica del Regno.
Credere, ciò, comporta una morte
a se stessi, una fatica, ma anche una liberazione.
E, invece, questo modo di dire è
stato foriero di mille interpretazioni;
e di mille sensi di colpa.
Voglio ancora ribattere un’idea
per me fondamentale, visto che Gesù è morto
per proclamare, e che non
smetterò di ripetere, a costo di sembrare un paranoico.
Dio non manda le croci, non le
ama e ne farebbe volentieri a meno.
La sofferenza, la malattia, i
litigi, la depressione, un fallimento lavorativo, non
dipendono da Dio, ma da noi e
dagli altri.
Da noi, quando ci facciamo mille
giri di testa su cosa vorremmo o dovremmo
essere, e siamo sempre scontenti
di noi stessi e della nostra vita.
Dagli altri, quando si divertono
a farci tribolare per invidia o per malvagità.
O, ancora, dalla congiuntura
internazionale che ha mandato sul lastrico l’azienda
in cui lavoro, dall’inquinamento
atmosferico, che è all’origine del mio cancro,
e così via.
Gesù parla del discepolato come
fatica da assumere, non di un Dio sadico che,
avendola portata Lui, decide di
caricarci di una croce per vedere quando crolliamo!
Dio non ci manda la croce e,
potendolo, anche Lui ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Ma se la croce arriva, o perché
altri ci caricano o perché noi stessi ce la costruiamo,
allora bisogna portarla guardando
avanti, senza farsi schiacciare.
Conosco devoti, non voi, gli
altri, che quando sentono parlare della croce di Gesù
cominciano, davanti a Dio che
muore, a lamentarsi dei propri malanni o dei
dispetti ricevuti.
Portare la croce non significa
alzarsi ogni mattina, piallarla, carteggiarla e verniciarla!
Per quanto dipende da noi,
evitiamo di caricarci di croci che non rendono in alcun
modo gloria a Dio e se, invece,
ne siamo caricati, allora portiamola uniti a Cristo.
Come Simone! Il Cireneo!
Lo condussero, così, al luogo
detto Golgota, che significa luogo del Cranio.
Gesù non ce la fa proprio; la
tensione interiore, la notte insonne, l’interrogatorio,
la flagellazione, gli scherni, il
peso del patibolo!
Cade sul selciato e fatica a
rialzarsi.
Allora un soldato prende un uomo
a caso dalla folla, uno che torna dal lavoro
e che si ferma a vedere cosa
succede; (mai fermarsi a curiosare, può succedere
anche di prendere le colpe),
slegano la croce e la pongono sulle spalle di Simone
di Cirene, uno sconosciuto di
passaggio, (non sempre sono parenti e amici ad aiutarti).
Non un amico, un discepolo, un
compagno di avventura; ma uno sconosciuto.
Prendono uno che compie un gesto
forzato, senza entusiasmo, senza generosità,
imprecando in cuor suo, timoroso,
anche di essere anch’egli scambiato per
un delinquente.
Un temporaneo compagno di
malasorte, come un vicino di letto in ospedale,
o alla mensa dei poveri, uno che
ha in comune con te solo la disperazione.
Non sappiamo nulla di Simone.
Non sappiamo se quel quarto d’ora
passato a portare la croce di Gesù sia stato
qualcosa di più di un brutto
momento da raccontare, il giorno dopo, ai vicini di casa.
Così è la croce; non desiderata,
arriva quando meno te la aspetti, magari proprio
alla fine di una faticosa
giornata di lavoro.
No, Dio non ti manda nessuna
croce, nel caso di Simone sono i soldati
romani che gliela impongono.
Ma quel suo gesto obbligato, in
qualche modo, l’ha scosso, interrogato, cambiato.
Il gesto di Simone è stato una
benedizione per lui e la sua famiglia.
Quando ci troviamo a portare la
croce, pensiamo che stiamo aiutando Cristo
a portarla, e che, così facendo,
lo aiutiamo a salvare il mondo, manifestando
la misura dell’amore di Dio.
E quel gesto, forzato, non bello,
non elegante, può fiorire nella nostra vita
interiore, e in quella di chi
amiamo.
Sulla strada che conduce fuori
dalla città, Luca ci racconta un curioso
episodio, denso e significativo,
quello delle donne piangenti.
In passato molti commentatori
hanno sottolineato la misericordia del Signore nei
confronti di queste donne,
immaginate come devote discepole affrante dal dolore.
Bello, poetico, finalmente qualcuno
che prova compassione davanti
all’indurito dolore del Nazareno.
E invece no.
Mi ha sempre lasciato perplesso
questa interpretazione.
Poi, qualche anno fa, leggendo il
testo delle meditazioni alla Via Crucis al
Colosseo scritte dall’allora
Cardinal Ratzinger, mi sono rasserenato;
la pensiamo allo stesso modo.
No, quelle donne non sono delle
affrante discepole, ma una compagnia della
buona morte chiamata, forse,
figlie di Gerusalemme, che accompagnava i
condannati a morte, e che
piangeva lacrime su chi, normalmente,
non aveva nessuno che piangeva
per lui.
Il loro, è un pio atto di
devozione e di compassione. Falso!
Gesù non vuole lacrime finte,
vuole la conversione dei cuori, non ama
l’apparenza, vuole la sostanza,
non le opere caritative fatte una volta all’anno,
ma un cuore compassionevole
sempre, non ha bisogno di una claque che faccia
partire l’applauso, ma di
discepoli che seguono il Maestro nel dono di sé.
Gesù è gravemente ferito,
esausto, eppure trova la forza di reagire.
Le sue parole sono taglienti; non
ho bisogno delle vostre lacrime, tenetele
per i vostri mariti, che hanno
permesso di uccidere un innocente, conservatele
per quando la violenza genererà
violenza, e il vento seminato diverrà tempesta
e tutto crollerà.
Gesù profetizza il crollo di
Gerusalemme?
Facile profezia; l’equilibrio
raggiunto dalla città è continuamente
messo in discussione dalle lotte
interne e dalle tensioni internazionali.
Gesù fa un servizio alla verità,
scuote queste pie donne dell’aristocrazia
religiosa, dal loro mondo dorato
per riportarle con i piedi per terra.
Piedi che pestano sangue.
Non sempre chi ti dà una carezza
ti vuole bene e chi uno schiaffo ti vuole
male, ricordiamocelo.
A volte, anche una frase forte,
uno schiaffo morale, può testimoniare
un grande affetto.
Il corteo ha finito il suo
percorso, sono arrivati alla cava, al Golgota.
Gesù viene spogliato della
tunica, lo cinge un perizoma di cotone o lino,
che non gli viene tolto.
Abitualmente, nell’impero romano,
si era crocifissi nudi, ultimo segno di
disprezzo, come le povere vittime
della follia nazista che erano spogliate
prima di entrare nelle camere a
gas, per avere un lavoro di meno da compiere!
In Giudea pare di no; Roma non
aveva interesse a compiere
gesti che la cultura locale
avrebbe considerato provocatori.
Gesù è pronto per essere
inchiodato e innalzato.
Volevano anche dargli del vino
aromatizzato con mirra, ma Egli non lo prese.
Matteo parla di vino mischiato
con fiele, Marco di vino mischiato con mirra,
ma la sostanza non cambia; è un
blando anestetico, una misera forma di
compassione per stordire il
condannato durante la crocifissione, momento
molto doloroso che comportava,
fra le altre cose, la frattura di alcune ossa
del polso e del legamento del
pollice.
Gesù rifiuta la bevanda,
probabilmente vuole restare lucido fino in fondo.
Vuole mantenere la consapevolezza
e la coscienza di sé per ciò che sta compiendo.
Non è facile raggiungere la
consapevolezza e la coscienza delle cose che si
vivono, nella vita.
La fede, quella vera, ci può
aiutare molto in questo percorso.
Più spesso, durante i momenti di
dolore siamo completamente
storditi e poco lucidi, e
rischiamo di prendere delle decisioni avventate.
Gesù ha piena consapevolezza di
ciò che accade.
I suoi carnefici, secondo Lui,
no.
È Luca a riferire questo
particolare che mette i brividi.
Quando giunsero sul posto, detto
luogo del Cranio, là crocifissero Lui e i due
malfattori, uno a destra e
l’altro a sinistra.
Siamo al momento più tragico; i
condannati sono slegati, distesi, in terra, due
soldati tengono fermo il
disgraziato mentre un terzo, con un grosso martello,
gli conficca un chiodo lungo una
ventina di centimetri, poi viene fatto
alzare e tirato su per le gambe e
incastrato al braccio verticale.
A questo punto gli si piegano le
gambe e un altro chiodo
è conficcato unendo i piedi,
tenuti sovrapposti.
La posizione del crocifisso è
innaturale e dolorosa; la maggior parte del peso
del corpo è sostenuto dai polsi,
trafitti dai chiodi; la posizione irrigidisce i
muscoli pettorali che,
contraendosi, impediscono di respirare correttamente.
Istintivamente il crocifisso fa
leva sui piedi per alzarsi di qualche centimetro
e respirare, per poi ricadere,
sopraffatto dal dolore dei piedi trafitti.
Una tortura inaudita.
In quel momento, mentre è
inchiodato e innalzato, Gesù pronuncia la frase
più forte dell’intera passione: “Padre
perdonali, non sanno quello che fanno”.
Non solo li perdona; li
giustifica, anche.
Non è vero; sanno benissimo
quello che fanno, ma il Signore sovrabbonda
di grazia, è capace di capire le
ragioni (malvage) dei suoi assassini.
Gesù perdona chi lo sta
uccidendo, come ha chiesto di fare ai suoi discepoli.
Ama i suoi nemici.
Questa è la misura senza misura
dell’amore di Dio.
È difficile perdonare, difficile
perdonarsi.
Non si può dimenticare; il
perdono non è un’amnesia.
E il perdono non riguarda
l’emozione, ma la volontà; possiamo perdonare ma
restare turbati quando
incontriamo chi ci ha fatto del male.
E non si perdona perché migliori,
o perché l’altro cambi con il nostro perdono;
si perdona perché figli del Padre
che fa piovere sopra i giusti e i malvagi.
Perdoniamo perché noi abbiamo
bisogno di perdonare, non perché l’altro
si meriti il perdono.
Ed è meglio perdonare come si
riesce, senza aspettare un perdono perfetto.
Provo disagio quando alcuni
cronisti si avvicinano ai genitori di una vittima
e parlano di perdonare; come è
anche solo immaginabile pensare di perdonare
l’omicida di tuo figlio il giorno
dopo il funerale!
Ci vogliono anni per maturare la
decisione di andare oltre,
di augurare a chi ti ha ferito
non il male, ma la conversione.
Anni, eccetto che per Gesù, che
ha già maturato il perdono.
Dio perdona sempre, senza porre
condizioni, sperando nella conversione
di chi perdona.
Ecco, Gesù è appeso, pende dalla
Croce.
Gli evangelisti spostano
l’attenzione da Lui a chi lo circonda;
la folla, i capi, i soldati.
Il popolo sta a guardare; è stato
coinvolto, in precedenza, per spingere
Pilato a crocifiggere Gesù.
Gli è stato fatto credere di
essere essenziale, in realtà il popolo è stato manovrato
da interessi politici e religiosi
e, ora, è inerme, assiste.
Quanto possiamo essere
manipolati!
Per incitare una nazione a
scatenare una guerra, o ad acquistare un prodotto,
o a eleggere un candidato
politico; il popolo, la “gente”, come si dice oggi,
è coinvolta solo se serve e,
quasi sempre, è usata per raggiungere finalità
personali e private, non il bene
comune.
Il discepolo, invece, non fa
parte di una folla, ma di una Chiesa, un popolo di
radunati-da-Dio, di convocati,
chiamati a essere protagonisti della storia di Dio,
a fare gli attori, non le
comparse.
Forse pochi lo sanno che, alla
domenica quando andiamo ad assistere alla
Santa Messa, siamo noi i
protagonisti, il celebrante all’inizio della celebrazione
dell’Eucaristia ci chiede di
poterlo fare, ci chiede il nostro consenso, siamo noi
che celebriamo la santa Messa e
non lo sappiamo, lui la presiede, ma i
protagonisti siamo noi.
Quanta grazia!
La folla è stata usata; ora
assiste alle conseguenze della propria barbarie, inerme, spenta.
Tutti i presenti sono d’accordo.
I capi del popolo giudaico, i
soldati romani, il ladro; per mostrare di essere il
Cristo, Gesù deve salvare se
stesso.
Per dimostrare di essere Dio,
Gesù deve fare l’egoista.
È giusto; Dio non è forse il
sommo egoista bastante a se stesso?
Il totalmente realizzato, il
compiuto, l’inarrivabile?
Allora, per dimostrare di essere
il Figlio di Dio, Gesù deve salvare se stesso!
No, invece, Gesù non salverà sé.
Salva me, salva tutti noi.
La sconcertante novità del
cristianesimo è la scoperta di un Dio che vive in
relazione all’altro, che non è il
motore immobile, ma che è Trinità,
comunione, relazione, festa e
famiglia.
Gesù non salva se stesso; salva
l’umanità, donando se stesso.
E ci apre una prospettiva
sconosciuta e inattesa della vera identità di Dio.
La folla, i sacerdoti, i ladroni,
sbeffeggiano Gesù, lo ridicolizzano.
Non ha potenza, non ha efficacia
la sua profezia, non è capace nemmeno di
salvarsi, altro che distruggere
il tempio!
A Gesù è proposta una specie di
compromesso; non sono bastati i tanti
miracoli compiuti, le parole, i
gesti.
Deve ancora compiere un miracolo,
il più eclatante; scendere dalla croce: “Il Cristo,
il Re d’Israele, scenderà ora
dalla croce, affinchè vediamo e crediamo”.
A quel punto, certo, tutti si
convertiranno.
Per convertirsi, la folla chiede
a Gesù di evitare la croce.
Buffo, potevano evitargliela
loro, la croce.
Invece lo hanno crocifisso per
vedere se scende dalla croce.
Contraddizione della stupidità
umana!
Gesù non ama la croce, non l’ha
desiderata, l’ha assunta, non ha potuto evitarla.
Come le tante persone che si
trovano inchiodate a una croce senza scegliere,
senza poter fuggire, (una
malattia, un lutto, una depressione), Gesù non scende,
non fugge, non vuole sconti, accetta
fino in fondo di condividere il destino degli
sconfitti e degli ultimi, dei
perdenti di tutti i tempi.
Al condannato veniva appeso al
collo una tavola in legno, riportante la ragione
della condanna a morte.
Nel caso di Gesù questo cartello
è posto sopra la croce.
Giovanni, però, fa una
precisazione riguardante il titolo della condanna.
È l’ultimo schiaffo di Pilato al
Sinedrio, una spietata burla nei confronti dei
sacerdoti; hanno voluto che il
Nazareno fosse condannato a morte per il reato di
lesa maestà, visto che si era
spacciato per Messia, cioè per il re dei giudei.
Bene; che tutti sappiano, allora,
che Gesù è, appunto il re dei giudei.
Il cartello appeso sopra la croce
è un’offesa ai giudei che passano; ma come, quel
poveraccio è il loro re?
E Roma mette in croce il loro re?
A quel punto Caifa capisce la
gaffe che ha fatto, va da Pilato per convincerlo
a togliere il titolo.
Come il gatto fa con il topo,
Pilato, ovviamente, si rifiuta.
La scritta è in tre lingue, per
essere ben letta da tutti (aramaico, latino e greco).
Uno sgarbo svela la trama che ha
fatto comprendere gli eventi agli uomini;
davvero Gesù è il Re dei giudei,
e questa regalità, ora, sarà riconosciuta
da tutti i popoli.
Ecco il nostro Re, discepoli, il
nostro sovrano; invece del trono, ha una croce,
non indossa una corona preziosa,
ma una fatta di spine, non uno scettro,
ma una canna con cui è stato
percosso.
Ecco il nostro Re; talmente
sfigurato e irriconoscibile da necessitare di un
cartello che lo identifichi.
Un perdente. Un folle. Uno che ha
bisogno di tutto.
Chiedo; lo vogliamo davvero un
Dio così? Sul serio? Ne dubito!
Noi che cerchiamo un Dio che ci
appoggi, che ci sostenga, potente, efficace,
interventista, lo vogliamo
davvero un Dio così?
Pensiamoci bene, e riflettiamo su
quello che andiamo a leggere.
Il buon ladrone, si
chiama Disma ed ha una bella storia!
È una delle figure più simpatiche
e conosciute dell’intero Vangelo; uno dei
condannati assieme a Gesù,
secondo Luca, invece di insultarlo e di chiedere
un aiuto, elemosina un ricordo.
Una pagina struggente,
straordinariamente, tenerissima.
Chiama Gesù per nome, senza
aggiungere titoli.
È l’unico caso in tutti i vangeli
in cui si usa il nome di Gesù senza alcuna aggiunta.
È l’esperienza nuda e cruda
dell’umanità del Signore; sulla croce Egli si è spogliato
di ogni veste regale, di ogni
titolo, di ogni ruolo.
La sofferenza è un’esperienza che
annulla le differenze.
E il ladro lo riconosce come
tale, come uomo che soffre.
Non chiede salvezza; le sue mani
grondano sangue, non vuole una soluzione
all’ultimo secondo.
È turbato il ladro, perché vede
un innocente che muore!
Ha un alto senso della giustizia;
tutto sommato lui si merita quella fine,
quel Nazareno no.
Zittisce il compagno che insulta Gesù e gli chiede un ricordo.
Abbiamo paura di essere dimenticati,
di non contare, di passare nella nostra vita
terrena senza lasciare alcuna
traccia.
Il ladro, come ogni uomo, chiede
un ricordo.
Accetta, Gesù, e gli promette di
più; gli promette il paradiso.
Secondo la tradizione, il ladro
si chiama Disma, e nell’ultimo istante della sua vita
è riuscito a scroccare la grazia
del perdono al Signore, ecco la misericordia di Dio.
Il paradiso, nel Vangelo, è la
beatitudine dell’esperienza di Dio, il farne esperienza.
Il ladro, il reietto, il
peccatore, il violento, sperimenta la presenza di Dio.
È la misericordia che dilaga, nel
Vangelo di Luca; il ladro sperimenta in
anticipo la salvezza.
Perché? Perché ha creduto.
Dio desidera la nostra salvezza,
quando lo capiremo?
Desidera il nostro bene, senza
porre condizioni.
Del ladro non abbiamo conservato
il nome, ma solo quell’aggettivo, buono,
che ne delinea il carattere.
Buon ladrone, nel senso di
ladrone con il cuore compassionevole.
Ma buon ladrone anche nel senso
di abile.
Gli è riuscito il colpo più
spettacolare della sua carriera; ha rubato il paradiso.
La Madre.
I minuti passano, poi le ore.
I lamenti dei condannati
diminuiscono, la loro voce si affievolisce.
Non hanno nemmeno la forza di
lamentarsi, il dolore ormai li stordisce, tutto
il corpo si rattrappisce intorno
a quei chiodi da cui pendono.
Anche la folla si dirada; si
tratta di entrare in città per preparare la pasqua,
mentre nel tempio, da qualche
ora, si sacrificano gli agnelli della pasqua.
I sacerdoti se ne sono andati,
lasciando qualcuno a vedere l’epilogo,
per preparare la solenne liturgia
nel tempio.
I soldati romani allentano la
guardia.
Ad alcune persone, i famigliari
più stretti, si permette di avvicinarsi ai condannati.
È questione di poche ore e tutto
sarà finito.
Fra i presenti, i pochi presenti,
c’è l’autore del quarto Vangelo, il Giovanni
forse sacerdote che ha ospitato
Gesù durante la Cena.
Non ha da temere ripercussioni
come gli altri discepoli della prima ora che sono
fuggiti a gambe levate;
dev’essere un personaggio importante.
Ha assistito al processo, ha
seguito Gesù al Golgota.
Ora sappiamo che, insieme a lui, c’è
Maria, la Madre del Signore.
Quando è giunta a Gerusalemme? Non
lo sappiamo.
Sappiamo che, nel momento più
terribile, è presente.
La Mamma non manca mai nei
momenti difficili.
È difficile assistere alla morte
di una persona che si ama.
Tragico, vedere la morte di un
figlio.
Insostenibile, vedere la morte
orribile di Gesù.
Maria è presente, sotto la croce,
insieme ad alcune altre donne.
Nessun angelo a cantare la gloria
di Dio, ora, nessuna rassicurante apparizione.
Eccola lì, la promessa di Dio. Eccolo
il Salvatore.
L’aveva accolto con timore e
gioia, nel suo grembo, molti anni prima.
Gli aveva insegnato a camminare,
a parlare, a pregare.
Lo aveva visto crescere, farsi
uomo.
Aveva atteso con ansia la sua
partenza, chiedendosi,
davanti al suo temporeggiare, se
non si fosse sbagliata. Poi.
Arrivano le prime notizie da
Cafarnao, da Cana, da Magdala.
Notizie portate in paese dai
mercanti, che parlano del falegname divenuto profeta.
Poi Gerusalemme, le prime
difficoltà, l’ostilità aperta dei sadducei e dei farisei.
Infine la notizia, giunta chissà
come a Nazaret, dell’imminente arresto di Gesù.
Eccola, la Madre.
Dov’è, ora, la promessa di Dio?
Dove?
Si era forse illusa?
Si era sognata una chiamata
inesistente?
In questo frangente, le donne
stanno.
Meglio; dimorano irremovibili,
tengono duro, non cedono.
Maria, la Madre, dimora nella
fede, non cede.
In quel momento, tutto il Regno
di Dio è rappresentato
da quelle poche donne radunate
intorno alla Madre.
C’è bisogno di donne, quando
serve la costanza irremovibile.
Gesù, con un soffio di fiato,
vede la Madre e Giovanni, e gliela affida.
Donna, dice.
Come a Cana, prima del miracolo,
la chiama donna.
Non è più sua Madre, da tempo
l’ha donata, come Lei ha donato Lui.
Si sono fatti dono reciproco.
Come dovrebbe essere in ogni
relazione d’amore.
Secondo la tradizione Giovanni,
da quel giorno, prese e portò con sé Maria.
Da quel giorno, ogni discepolo
del Signore sa che può prendere Maria
con sé, come discreta presenza
nel suo percorso di vita interiore.
La Morte.
Il vento del mare sta portando
nubi che si fanno minacciose, cariche di pioggia.
La gente che entra in città affretta
il passo per non farsi sorprendere dal
temporale imminente.
Tutti gli evangelisti annotano
questo repentino cambio di tempo.
Dall’ora sesta fino all’ora nona
si fece buio su tutta la terra.
Il cielo si scurisce, come se
anche la natura partecipasse all’agonia di Dio.
Tutto è nuvoloso e buio, come il
cuore delle persone che hanno partecipato
alla crocifissione.
Si fa buio, da mezzogiorno fino
alle tre del pomeriggio.
Quell’annotazione temporale è
colma di speranza; ha un limite la tenebra, non
può albergare per sempre, nei
nostri cuori.
Da mezzogiorno alle tre, ecco i
confini entro cui può abitare la disperazione,
non un minuto di più.
Fratello che soffri, sorella
dilaniata dalla solitudine e dalla depressione,
il tuo dolore ha un confine, non
ti disperare.
Il silenzio è irreale, i
condannati sono immobili, respirano a fatica, non dicono
una parola.
Anche chi piange, ormai, ha
esaurito le lacrime.
I caldi colori della Giudea si
sono stinti in un grigio sempre più scuro.
Gesù, con un soffio di voce,
parla.
Ha sete.
Sete di amore, di pace, di
giustizia, sete della nostra fede.
Solo sete.
Il nostro è un Dio assetato
d’amore, come noi, sperimenta il limite di un desiderio
quasi sempre insoddisfatto, di
uno slancio arrestato, di un anelito senza soddisfazione.
Ha sete, come ha avuto sete
aspettando che la fede della Samaritana lo dissetasse.
Ha sete colui che può dissetare
chi cerca la felicità e il bene.
Ha sete della mia fede, della
nostra fede.
Poi; Gesù, emesso un grande
grido, spirò.
Gesù grida.
Il suo è un ultimo agghiacciante
grido di dolore, che svela la sua
partecipazione assoluta al
destino degli uomini.
Un grido che è un disperato
soffio di vita, impressionante, messo in bocca a Dio.
Ecco, Dio ora conosce tutto,
anche il nulla.
Come se sapesse tutto del niente,
e niente del tutto che ha creato.
Restiamo interdetti, senza
parole, davanti alla misura di questo dono senza misura.
Il nostro ragionamento entra in
corto circuito, davanti all’ampiezza di questo mistero.
Dio conosce la disperazione,
perché nessun uomo possa sentirsi abbandonato.
Ha preso l’ultimo posto, perché
nessuno possa sentirsi ultimo.
Gesù cita un salmo, il ventidue.
Lo grida.
A volte anche un grido diventa
preghiera.
Gesù conosce i salmi, lo hanno
accompagnato nella sua crescita interiore, nella
presa di consapevolezza della sua
identità.
Li ha ascoltati, cantati come
ninna nanna dalla Madre, quand’era
piccolo, li ha recitati nella
sinagoga di Nazareth, in età adulta.
Ha pregato con la Parola stessa
di Dio, ha fatto scaturire dal di dentro la Parola
che lungamente aveva assaporato
durante la meditazione personale.
Prega, Gesù, le sue ultime parole
sono un grido di angoscia, una richiesta d’aiuto.
Un’accusa verso Dio, ma detta con
le Parole stesse di Dio.
Dio non ha bisogno di applausi o
di carezze, o di timori reverenziali.
Accetta ogni parola, ogni grido,
ogni bestemmia, se esprimono verità e richiesta di aiuto.
Gesù muore pregando.
È un’accusa, la sua, una
disperata richiesta di aiuto, ma è usata come una preghiera.
Chiede a Dio perché non c’è,
perché non si fa presente.
Vorrei fosse così anche per me.
Vorrei poter dire, come ultima
parola, quell’Abbà, che ha così lungamente
riscaldato il mio cuore bucato.
E la preghiera è un
interrogativo; Dio si chiede perché Dio l’abbia abbandonato.
Come se, per un attimo Dio
diventasse incredulo.
Incredulo per quanta solitudine
l’uomo può sperimentare, solitudine che Dio,
per sempre, assume.
Da ora, e per sempre, nessun
Cristo morirà disperato.
Nessuno può più perdersi, ora che
Dio si è perso.
La folla pensa che Gesù invochi
Elia.
Sarebbe un bel finale, degno di
un film americano; Gesù che scende dalla
croce per mezzo di Elia.
È già venuto Elia, ma anche il
Battista, e hanno fatto fuori anche lui, non
siamo ridicoli.
Luca, che si è informato, sceglie
un’altra delle affermazioni di Gesù.
E Gesù, gridando a gran voce: “Padre,
nelle tue mani raccomando il mio spirito”.
Perciò, Luca conferma che Gesù
muore pregando.
Si affida, si dona, sa bene in
chi ha posto la sua fiducia e il suo destino.
Lo dice ad alta voce, vuole che
tutti sappiano che fra Lui e il Padre c’è un
legame di fiducia totale, di dono
di sé.
Ma l’ultima parola di Cristo in
croce non è un grido, né un salmo di
disperazione o uno di fiducia.
È l’affermazione di una missione
compiuta, quella affidatagli dal Padre.
Quando ebbe preso l’aceto, Gesù
disse: “Tutto è compiuto”.
Ciò che andava fatto è stato
fatto, ora sta al Padre continuare.
Abbiamo tutti una missione da
compiere, una missione d’amore che Dio ci
affida al momento della nostra
nascita, un tesoro nascosto da scoprire
e da condividere.
Non pensate subito a grandi
opere, o a scoperte straordinarie; a volte sono
piccole le cose che danno senso
alla vita e che salvano il mondo.
Ecco; Gesù ora, ha terminato il
suo percorso.
Ciò che poteva fare è stato
fatto.
È tempo di morire. Finalmente!
Ha lottato duramente per
parecchie ore, ma il suo corpo è debilitato, prostrato,
non vuole più combattere.
La terribile macchina della croce
ha sortito il suo effetto; la respirazione è
affannosa, i polmoni sono stretti
dai muscoli irrigiditi, le gambe non riescono
più a sollevarsi per placare la
fame d’aria, il cuore cede, Gesù muore.
Ma Gesù emise di nuovo un forte
grido ed esalò lo spirito.
Muore; restituisce lo spirito che
ci tiene in vita, quel soffio che ci rende partecipi di Dio.
Ora esce, esala, lo rende, lo
dona.
Lo Spirito, che è dono di Dio, ci
è donato sulla croce, ultimo dono di Gesù ai credenti.
Anche morendo, Gesù compie
un’opera di vita, una nuova creazione.
La sua non è una fine, ma un
nuovo cosmo che sta per prendere vita.
Gesù è morto.
Nel tempio, decine di sacerdoti,
a ritmo sostenuto, sgozzano decine di migliaia di
agnelli, per offrirli al Signore
e restituirli ai proprietari che li avrebbero cotti al fuoco
di brace e mangiati insieme alle
erbe amare, un agnello per famiglia, da consumare
tutto, senza avanzarne.
Anche l’Agnello di Dio, ora,
pende, senza vita.
Dio non è più inaccessibile, è
osteso, evidente, appeso.
Dio non è più misterioso, non
dimora in un luogo inaccessibile, non è più altrove,
è qui, raggiungibile,
incontrabile, lo possiamo vedere, sfiorare, accarezzare.
Il capovolgimento è compiuto; il
sommo sacerdote volge lo sguardo al Santuario,
al Santo dei Santi,
definitivamente vuoto.
Così come la nube della presenza
di Dio abbandonò il tempio per seguire il popolo
deportato in esilio, ora, e per
sempre, Dio abbandona il tempio di pietra per
condividere la morte dei
malfattori.
La croce, ora, è il tempio.
Quell’atroce strumento di tortura
e di morte, ora, è il luogo della gloria di Dio.
Lo diventa perché altare della
manifestazione, della misura dell’amore di Dio,
lo diventa perché ostende e
realizza pienamente l’assoluto di Dio.
Tutto è compiuto.
Gesù ha dato tutto, goccia dopo
goccia, stilla dopo stilla. Tutto!
Chi ha assistito esprime
sentimenti diversi.
I sadducei, di feroce
soddisfazione, certi di avere fatto una cosa giusta.
I discepoli, di silenziosa
disperazione.
Alcuni presenti, di turbamento e
di conversione. E noi?
Il primo a testimoniare stupore è
il centurione romano.
Un ufficiale abituato alla
violenza, che serviva Roma anche in quei
frangenti così spietati e
sgradevoli.
Non sappiamo nulla di lui; ha
gestito il picchetto di soldati di complemento
per la crocifissione, ha
osservato l’agonia dei condannati.
Marco ci dice che si è posto di
fronte a Gesù, lo ha lungamente osservato,
è rimasto turbato, scosso.
Ne ha visti morire, di
malfattori.
Li ha visti urlare come delle
bestie scannate, contorcersi, nudi, intorno ai chiodi
insanguinati, li ha sentiti
piangere, bestemmiare, singhiozzare come dei bambini.
Ha fatto l’abitudine a quello
spettacolo atroce, a quella morte oscena.
Gesù no, non ha inveito, ha
pronunciato parole di perdono, è morto come mai
egli ha visto morire un
crocifisso.
E il centurione che gli stava di
fronte, vistolo spirare gridando a quel modo,
esclamò: “Davvero quest’uomo era Figlio
di Dio!”.
La sua professione di fede è la
professione di fede della comunità di Marco.
Siamo chiamati a riconoscere in
Gesù il Figlio di Dio non quando le cose vanno
bene, ma ora, quando la divinità
è nascosta, mascherata, offuscata.
Siamo chiamati a credere che quel
poveraccio sfigurato e spezzato è il
creatore del mondo.
È Dio, non perché perdente, ma
per come è morto, donandosi fino in fondo,
vivendo ciò che ha detto nei
brevi anni della sua vita pubblica.
Siamo tutti bravi a parlare,
tutti santi e moralisti, quando si tratta di dare consigli.
Ma quando siamo messi a dura
prova, allora esce fuori il meglio o il peggio
di noi stessi.
Gesù testimonia che è esattamente
ciò che ha detto di essere.
La sua è una morte coerente,
esemplare, inattesa, luminosa.
È poco probabile che il
centurione, abbia pronunciato quelle esatte parole.
Con maggior precisione Luca
riporta.
Il centurione, vedendo
l’accaduto, glorificava Dio: “Certamente quest’uomo
era giusto”.
La morte del giusto, il clima di
perdono che è riuscito a portare in quell’inferno,
dice Luca, rendono gloria a Dio.
Il pagano romano invoca Dio e lo
pensa presente, vedendo quella morte.
I nostri gesti, compiuti con
giustizia, la nostra capacità di perdono, la nostra
benevolenza, rendono gloria a
Dio, avvicinano le persone al mistero della redenzione.
La nostra vita di fede illumina
anche chi ci sta accanto, se vissuta con
autenticità e passione.
La folla manipolata, quella che,
sospinta dai sadducei e dai capi religiosi ha
richiesto la crocifissione di
Gesù, quella che, silenziosa e muta, assiste alla
morte del profeta, ora reagisce
in maniera diversa.
Ha preso consapevolezza di sé, è
tornata sui propri passi, non è più condotta da altri.
La folla, ora, è meditabonda e
silenziosa.
Anche tutti quelli che erano
convenuti per questo spettacolo,
davanti a questi fatti se ne
tornano a casa battendosi il petto.
Hanno partecipato ad uno
spettacolo, una manifestazione.
Ma questo spettacolo è stato
inatteso, diverso, completamente diverso.
Meditando il mistero della croce,
anche noi possiamo tornare sui nostri passi
percuotendoci il petto, cioè
rianimando il nostro cuore, scuotendolo,
allargandolo alla misura di Dio.
Tutti noi possiamo assistere
sulla via Crucis, allo spettacolo di un Dio che
muore per amore.
E convertirci. Io per primo.
Non tutti però sono fuggiti.
Alcuni, anche se da lontano,
hanno continuato a seguire Gesù.
Nel momento della prova può
succedere di allontanarsi dal Signore, di essere lontani.
L’importante è non perdere di
vista il Signore, seguirlo, anche solo con la
coda dell’occhio.
Per sapere dove l’hanno messo e
tornare da Lui, anche se lo consideriamo,
ormai, un cadavere.
Fratello in crisi, che fatichi a
credere, che sei stato masticato, come gli apostoli,
segui il Signore, anche se da
lontano, non andartene.
Ma ecco il terremoto.
Mi piace, calcare la mano,
meditando la passione, anche a noi può succedere
di subire un terremoto interiore,
di veder spaccare in noi la pietra che ci
impedisce di gioire, di uscire
dai sepolcri in cui ci siamo sepolti,
di lasciar venir fuori il santo
che c’è in ciascuno di noi.
La presenza del Signore,
credetemi, è una potenza, una forza che costruisce,
che scuote, che rianima, che
sbalordisce.
Sangue e Acqua.
L’ora del tramonto si avvicina, e
con esso l’inizio solenne della festa di pasqua.
Non si possono lasciare i
condannati in croce, la cosa contravviene alla legge,
bisogna accelerare la morte.
Il metodo è semplice e crudele;
con un colpo di bastone alla tibia, i soldati
frantumano le ossa delle gambe,
impedendo al condannato di rialzarsi
a prendere aria.
La morte per asfissia
sopraggiunge in pochi minuti.
Arrivati da Gesù, i soldati
vedono che è senza vita.
Per sicurezza, un soldato gli
assesta un colpo di grazia, un colpo di lancia dato
quasi in orizzontale, sotto il
costato, a destra, un colpo che, normalmente,
trapassava il cuore, e subito ne
uscì Sangue ed acqua, una rilevanza, un segno
che richiama la salvezza e la
redenzione, la croce e il battesimo.
Ora come allora; solo chi ha il
coraggio di seguire Gesù nelle sue ultime ore,
senza fuggire come il giovinetto
scandalizzato nell’orto, o come i discepoli, ma
dimorando sotto la croce, può
capire chi è veramente colui che pende dalla croce.
E inorridire. O cadere in
ginocchio.
Ecco tutto è compiuto.
Dio si è definitivamente donato.
Mentre scrivo socchiudo gli occhi
e ripenso alla scena, mi ritrovo al Calvario.
Sento l’odore del temporale in
arrivo e del sangue.
La folla se n’è andata in tutta
fretta per non prendersi l’acquazzone, i soldati
calano senza riguardo i cadaveri
per gettarli nella fossa comune.
Gesù no, passa prima dalle
braccia della Madre!
La Madre strige il Figlio
esamine.
Una scena fortissima, straziante,
intensa.
Quanto silenzio, quanto dolore,
quanta forza!
Come quella che chiude il nostro
cuore!
Ora Gesù viene posto nella Tomba,
il Signore scende a rendere omaggio
a tutti i nostri cari.
Gesù, cadavere, giace
nell’oscurità di una tomba scavata nella roccia.
Fine della storia, fine
dell’illusione, fine di una brillante carriera di profeta.
Fine di un sogno.
Fine di un normale movimento
religioso moderno.
Fine! O forse no.
Preghiamo amici, diamo
onore ad un uomo morto per amore, ma diamoci
appuntamento al giorno
dopo il Sabato, che è tutta un’altra storia Fausto.
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