Della 4° Domenica di Quaresima.
San Ruperto, Vescovo.
Prima Lettura
Il popolo di Dio,
entrato nella terra promessa, celebra la Pasqua.
Dal libro di Giosuè
(5,9a.10-12)
In quei giorni, il
Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi
l'infamia
dell'Egitto».
Gli Israeliti rimasero
accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al
quattordici del mese,
alla sera, nelle steppe di Gerico.
Il giorno dopo la
Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi
e frumento
abbrustolito in quello stesso giorno.
E a partire dal giorno
seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra,
la manna cessò.
Gli Israeliti non
ebbero più manna; quell'anno mangiarono i frutti della
terra di Canaan.
Parola di Dio.
Seconda Lettura
Dio ci ha
riconciliati con sé mediante Cristo.
Dalla seconda lettera
di san Paolo apostolo ai Corinzi (5,17-21)
Fratelli, se uno è in
Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono
passate; ecco, ne sono
nate di nuove.
Tutto questo però
viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo
e ha affidato a noi il
ministero della riconciliazione.
Era Dio infatti che
riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli
uomini le loro colpe e
affidando a noi la parola della riconciliazione.
In nome di Cristo,
dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio
stesso che esorta.
Vi supplichiamo in
nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Colui che non aveva
conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro
favore, perché in lui
noi potessimo diventare giustizia di Dio.
Parola di Dio.
Vangelo
Questo tuo fratello
era morto ed è tornato in vita.
Dal Vangelo secondo
Luca (15,1-3.11-32) anno C.
In quel tempo, si
avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo.
I farisei e gli scribi
mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia
con loro».
Ed egli disse loro
questa parabola: «Un uomo aveva due figli.
Il più giovane dei due
disse al padre: "Padre, dammi la parte di patrimonio
che mi spetta".
Ed egli divise tra
loro le sue sostanze.
Pochi giorni dopo, il
figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un
paese lontano e là
sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.
Quando ebbe speso
tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed
egli cominciò a
trovarsi nel bisogno.
Allora andò a mettersi
al servizio di uno degli abitanti di quella regione,
che lo mandò nei suoi
campi a pascolare i porci.
Avrebbe voluto
saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno
gli dava nulla.
Allora ritornò in sé e
disse: "Quanti salariati di mio padre hanno pane in
abbondanza e io qui
muoio di fame!
Mi alzerò, andrò da
mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo
e davanti a te; non
sono più degno di essere chiamato tuo figlio.
Trattami come uno dei
tuoi salariati".
Si alzò e tornò da suo
padre.
Quando era ancora
lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse
incontro, gli si gettò
al collo e lo baciò.
Il figlio gli disse:
"Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono
più degno di essere
chiamato tuo figlio".
Ma il padre disse ai
servi: "Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo
indossare, mettetegli
l'anello al dito e i sandali ai piedi.
Prendete il vitello
grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché
questo mio figlio era
morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato".
E cominciarono a far
festa.
Il figlio maggiore si
trovava nei campi.
Al ritorno, quando fu
vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei
servi e gli domandò
che cosa fosse tutto questo.
Quello gli rispose:
"Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello
grasso, perché lo ha
riavuto sano e salvo".
Egli si indignò, e non
voleva entrare.
Suo padre allora uscì
a supplicarlo.
Ma egli rispose a suo
padre: "Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai
disobbedito a un tuo
comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far
festa con i miei
amici.
Ma ora che è tornato
questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze
con le prostitute, per
lui hai ammazzato il vitello grasso".
Gli rispose il padre:
"Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo;
ma bisognava far festa
e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto
ed è tornato in vita,
era perduto ed è stato ritrovato"».
Parola del Signore.
Meditazione personale
sul Vangelo di oggi.
Costruiamo il metro quadro di
pace intorno a noi.
Non più un distanziamento sociale
ma un avvicinamento cordiale.
Perché le grandi guerre sono
figlie del piccolo dittatore che ognuno di noi
porta nel cuore.
E, per convertire il nostro
cuore, per diventare pacifisti, occorre prima
essere pacificati.
Convertendo, ad esempio,
l’orribile idea di Dio che spesso portiamo nel cuore.
Non un dio che benedice gli
eserciti, non un dio che manda soldati a uccidere
civili colpevoli di pensarla
diversamente (fratello Kirill ti sbagli!).
La pace del cuore nasce dallo
scoprirci amati e, ancora, capaci di amare.
Dove gli altri, il padre, il
fratello, non sono temibili avversari (e sempre di
questione di soldi si parla!) ma
compagni di viaggio diversi.
Specie in questo tempo in cui si
confonde bontà con buonismo, tempo in cui
anche Dio, quello di Gesù Cristo
intendo, rischia di essere messo alla gogna
e accusato di mollezza.
Come hanno fatto i due figli
dell’odierna parabola.
I due figli protagonisti della
parabola hanno una pessima idea di Dio. Entrambi.
Il primo figlio, scapestrato,
pensa che Dio sia un concorrente, un avversario;
se esiste, io non posso
realizzarmi, pensa.
Dio è un censore, un preside
severo, uno che non mi aiuta.
Gli chiedo il mio, quello che mi
deve (e da quando un padre “deve” l’eredità?),
quello che mi spetta.
Chiedere l’eredità in anticipo,
in ogni cultura, significa augurare la morte.
Il figlio minore, bramoso di
possedere i beni del padre, trova come unica
soluzione quella di sperare che
muoia, che non esista.
Ci sono molte persone che pensano
come lui, ancora oggi.
Il figlio, come prima cosa,
chiede l’eredità (che non gli spetta, il padre poteva
benissimo finire i suoi giorni in
crociera godendosi i meritati guadagni!).
Non è che una tappa verso ciò che
ha già deciso, si giustifica, trova delle
ragioni alla sua voglia di
andarsene.
Poco tempo dopo se ne va in un
paese lontano, dice Gesù.
Certo; cosa se ne fa dell’eredità
del padre se non può usarla a proprio piacimento?
Pone una grande distanza fra sé e
il padre.
Non vuole averci più nulla a che
fare.
Vuole cancellare un passato che,
invece, è parte integrante di ciò che è diventato.
E che ancora può diventare.
Se ne va, finalmente libero.
Inizia la bella vita, era l’ora.
E si accorge di quanto poco dura
il denaro. E gli amici.
Si accorge di qualcosa che
dovrebbe essere noto a tutti; se investiamo le
nostre energie e le nostre
aspettative nella “cose”, nei beni, non riusciremo
mai a colmare il nostro cuore.
Il racconto di Luca è serrato,
sono passati pochi mesi, lascia intendere.
L’euforia è finita.
Arriva una carestia, qualcosa di
esterno, che non dipende da lui, e ne è travolto.
Nella vita, necessariamente,
dobbiamo fare i conti con eventi imponderabili,
che non dipendono da noi.
I soldi che ora gli servirebbero
per vivere li ha sperperati in stupidaggini.
È davvero nei guai. Giganteschi.
Non ha nemmeno di che mangiare.
Pentimento? Ma dai!
Va da uno sconosciuto per
chiedere un lavoro.
Non da un amico.
Forse si vergogna, forse gli
amici sono spariti.
Il principe si ritrova schiavo.
Il re, vassallo.
Il figlio, servo.
Si ritrova a pascolare i porci.
I porci; l’animale impuro per
eccellenza.
E patisce la fame.
Vorrebbe mangiare le carrube di
cui si nutrono i maiali, ma non vuole rubare,
teme ripercussioni.
E la fame gli snebbia il
cervello.
Inizia a ragionare.
Spesso solo la fame ci porta a
ragionare, solo un’esperienza faticosa e
drammatica ci spalanca alla
verità, solo sbattere contro un muro, col naso
sanguinante, ci fa mettere
finalmente a sedere.
Rientra in sé stesso, lui che si
era visto sempre e solo dall’esterno: “Sono un idiota.
In casa di mio padre anche il più
umile dei servi ha pane in abbondanza!
Ora torno e mi trovo una scusa”.
Sì, avete letto bene; contesto
radicalmente l’interpretazione buonista del brano.
Non è l’amore per il padre a
muoverlo, ma la pancia che brontola.
E anche nella sua strategia, fare
il pentito, proporsi come servo (sapendo bene
che il padre non accetterebbe
questa umiliazione per il buon nome della
famiglia), rivela che del padre
non ha capito ancora nulla.
Sa di averla combinata grossa.
Farà il pentito.
Se la suona, se la canta e se la
balla. L’idiota.
La conversione è sempre un
percorso a ritroso, una purificazione della
memoria, un riscatto dei propri
errori.
Torna a casa, quanto gli brucia!
E succede qualcosa di inatteso.
Il padre lo aspettava, gli corre
incontro (un padre che corre è inimmaginabile,
specie nella tradizione orientale;
doveva stare fermo e aspettare il gesto
di umiltà del figlio!). Lo
abbraccia.
Il figlio minore inizia la
tiritera di scuse.
Se l’è ripetuta mille volte
durante il cammino, ha limato le parole, pesato i
termini, impostato il tono di
voce.
Ha cercato una qualche ragione
convincente per essere riammesso.
Il padre lo interrompe. Niente
scuse. Non importa.
Suo figlio non è pronto, non è
pentito, lo sa bene il padre.
Ma gli ridona dignità, l’anello
che è il sigillo di famiglia, i calzari, la veste.
Non premia il pentimento col
perdono, come siamo abituati a pensare.
Perdona senza condizioni,
sperando che quel gesto converta, infine, il figlio.
Anticipa il perdono per suscitare
la conversione.
L’altro figlio torna dal lavoro
stanco e si offende della festa che il padre ha
fatto in onore del figlio minore.
Come dargli torto?
Il suo cuore è piccolo ma la sua
giustizia grande; ha perfettamente ragione,
il padre si comporta
ingiustamente nei suoi confronti.
Ha accolto l’altro figlio (non
osa nemmeno chiamarlo “fratello”, per quanto lo
sia) dopo che questi ha speso la
sua parte di eredità in prostitute (dettaglio che
ovviamente aggiunge per calcare
la mano, in realtà non può saperlo).
Il padre è ferito dal suo
giudizio, non aveva bisogno di elemosinare un capretto,
bastava prenderlo.
Tutto ciò che è mio è anche tuo,
gli ricorda.
E spiega anche le ragioni della
festa; suo fratello poteva morire, travolto
dalla dissipazione del cuore.
E spegnere la sua anima.
Il fatto che sia vivo è una
ragione più che sufficiente per fare una grande festa.
Happy end?
Bene, fermatevi qui, ora.
Niente bei finali, Luca si ferma.
Non dice se il primo figlio
apprezzò il gesto del padre e, finalmente, cambiò idea.
Né dice se il fratello,
inteneritosi, entrò a far festa.
No; la parabola resta aperta,
senza soluzioni scontate, senza facili moralismi
e finali da fiaba.
Puoi stare col Padre senza
vederlo, puoi lavorare con lui senza gioirne, puoi
lasciare che la tua fede diventi
ossequio rispettoso senza che ti faccia esplodere
il cuore di gioia.
Il Vangelo ci dice ancora una
volta che Dio ci considera adulti, che affida alle
nostre mani le decisioni, che non
interferisce nelle nostre scelte.
Ci dice che la fede è una scelta;
tocca a noi decidere in quale Dio credere.
Se quello piccino del fratello
minore, un avversario.
Se quello severo del fratello
maggiore, un’arpia.
Se quello straordinario che
emerge dal racconto e dall’esperienza del Maestro!
Io ho scelto amici,
tanto tempo fa, di stare con il Dio che Gesù mi ha spiegato;
facile no, no, non è
facile per niente, ma possiamo riuscirci,
Santa 4° Domenica di
Quaresima, Fausto.
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