Col Cuore al Getsemani
2° parte.
Ma Dio non chiama soltanto i
grandi santi a soffrire con Lui, chiama innanzitutto
i sofferenti, chiama i desolati,
gli ammalati, i moribondi, chiama coloro che
patiscono ingiustizie, delusioni,
solitudini: “Non soffrite senza scopo,-Egli
vorrebbe dir loro-non
soffrite senza lucerna accesa, offritemi le pene che vi
pesano sul cuore, che
vi pesano sulle spalle, che vi pesano sul cammino; offritemi
la vostra rassegnazione
alle prove che non potete sfuggire, ed io le gradirò,
le farò profumare e le
presenterò al Padre che le considererà come un talento
trafficato, un talento
moltiplicato”.
Gli uomini che non conoscono
Cristo, o che lo rifiutano, portano la croce senza
offrirla e senza trasfigurarla;
il più delle volte nella disperazione.
Ma noi cristiani (o almeno si
spera) possiamo portare la nostra croce per amore
di Cristo, offrendola a Lui e
trasfigurandola nella speranza della felicità eterna.
Tempo fa in un monastero di
clausura, una suora anziana diceva: “Sono in
monastero da 52 anni, sono
molto malata e soffro molto, ma non desidero
di morire, perché
penso che allora cesserei di amare.
È proprio questo che
serve alla Chiesa per salvare i fratelli; soffrire e amare.
Non l’ho chiesta io la
mia sofferenza, perché dovrei chiederne la fine cessando
di salvare i
peccatori?”.
Che meravigliosa intuizione ha
avuto quella suora!
Che fede stupenda e luminosa!
Servire Dio con il dolore che non
abbiamo chiesto, ma che ci è piombato addosso!
Le forze più vive della Chiesa di
oggi e di sempre sono queste anime devote
e generose che trovano l’amore
nel dolore.
Io credo che nel Calice
dell’Altare, insieme al suo Sangue, il Signore ci fa bere
anche il suo Amore; quel Calice
diventa come un filtro d’Amore; nutriti da
Cristo, si diventa innamorati
anche noi; per chi accetta di berlo, il Calice
della passione, diventa Calice di
gioia.
Allora, quando una grande prova
si abbatte su di noi, non chiediamoci se quella
prova è giusta o ingiusta, non
diciamo: “Perché a me? Perché questa croce?”.
Crediamo invece all’uso divino
che Dio fa di quella sofferenza!
Noi sappiamo bene quante grazie
strappano a Dio i santi con il loro fiat; allora
anche noi, di ogni prova non
voluta facciamone un atto di fede e di generosità.
Comprenderemo così la
straordinaria affermazione di San Paolo, quando scrive:
“A voi è stato
concesso di patire con Cristo!”, come un privilegio; concesso!
È questa la forza, la gioia, la
grazia che distingue i cristiani, perché credono
in un Dio sofferente.
L’uomo è sempre sofferente, ma il
cristiano sofferente ha il privilegio di soffrire
con il suo Dio.
“Quello che dico a voi
lo dico a tutti; vegliate!”. (Marco 13,37)
Quante volte il Signore dovette
ripetere agli Apostoli in quella tragica notte: “Vegliate!”.
E quante volte anche noi ci
facciamo ripetere: “Non sapete vegliare
neppure un’ora con Me?”.
Quando in una mattinata nebbiosa
il sole si fa largo e rischiara la nebbia fino a
sconfiggerla e fa brillare le
gocce di nebbia adagiate sugli alberi, dentro di noi
se ne va la tristezza e ritorna
il sorriso.
Allora destiamoci, scrolliamoci
di dosso la nebbia che ricopre i nostri occhi
e offusca la nostra mente!
Il Getsemani è il luogo dei
nostri appuntamenti con il nostro Dio; e che sia
anche il luogo del nostro
ravvedimento, il luogo dove ci svegliamo per
riparare alle nostre miserie!
Credo che il Getsemani, non sia
solo un luogo della Terra Santa, ma è il
confessionale dove si piange il
nostro sonno e dove ci si impegna a convertirci;
anzi più che a convertirci; ci si
impegna ad una conversione costante; cioè ci
si impegna a un costante esame di
coscienza, non dimenticando-cosa che
invece è tanto facile dimenticare-,
di interrogarci sui nostri quotidiani peccati
di cristiani, cristiani in
famiglia, cristiani nel lavoro, in parrocchia
e cristiani in cammino.
Per stimolarci a questa continua
revisione interiore, dobbiamo continuamente
fare un esame di coscienza, perché
c’è sempre la tentazione che si insinua in noi,
quando crediamo di essere
cresciuti nella fede.
Ci crediamo pronti, sicuri,
forti, vorremmo addirittura condividere la sua passione,
per poi traballare alla prima
avvisaglia della sofferenza!
Ma la vera Passione del
cristiano, cos’è!
1. La passione, la
nostra passione, noi dobbiamo attenderla.
2. Noi sappiamo che
deve venire.
3. Il sacrificio di
noi stessi, noi l’aspettiamo.
4. Come un ceppo sul
fuoco, così noi sappiamo di dover essere consumati.
5. Come un filo di
lana reciso dalle forbici, così dobbiamo essere preparati.
6. Come un giovane
animale che viene sgozzato, così dobbiamo essere uccisi.
7. La passione, la
passione con la P. maiuscola. Noi l’attendiamo.
8. L’attendiamo ed essa
non viene.
9. Vengono invece le
passioni: “Le passioni, queste briciole di passione che hanno
lo scopo, Signore, di
ucciderci lentamente per la tua gloria, senza la nostra gloria”.
10. Sin dal mattino ci
vengono incontro; sono i nervi troppo tesi o troppo lenti;
è il latte che
trabocca, l’autobus che passa affollato, i bambini che tutto scombinano;
è l’antipatia di chi
lavora con noi; è il telefono impazzito; è coloro che amiamo
e non ci amano più, è
la voglia di tacere e il dovere di parlare; è la voglia di
parlare e la necessità
di tacere; è il volere uscire quando si è costretti a stare in
casa e il volere
rimanere a casa quando bisogna uscire; è la persona a cui
vorremmo appoggiarci e
che invece dobbiamo sorreggere; è il disgusto della
nostra fatica
quotidiana, è il desiderio febbrile della nostra gioia quotidiana.
Così vengono le nostre passioni;
in ranghi serrati o in fila indiana; e dimentichiamo
sempre di dirci che sono le
passioni preparate per noi.
E noi le lasciamo passare con
disprezzo, aspettando un’occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che, come
ci sono i rami che si inceneriscono nel
fuoco, così ci sono le tavole di
legno che i passi lentamente logorano e che si
disfano in segatura.
Perché abbiamo dimenticato che ci
sono fili di lana tagliati netti dalle forbici
e ci sono fili di maglia che
l’usura quotidiana lentamente consuma.
Perché abbiamo dimenticato che
ogni martirio è Passione.
Da questa pagina sapiente
impariamo a verificare la nostra maturità di cristiani;
impariamo ad esaminarci, a
svegliarci, a “vegliare”, come ci chiede
Cristo nel Getsemani.
Che ciascuno di noi si sforzi di
vivere le passioni di ogni giorno, le proprie
passioni ogni giorno.
Ed essi addolorati
profondamente, incominciarono ciascuno
a domandargli: “Sono
forse io, Signore?”.
Ed Egli rispose: “Colui
che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà”.
Giuda, il traditore,
disse: “Rabbì, sono forse io?”.
Gli rispose: “Tu
l’hai detto”. (Matteo 26022-25)
Preso il boccone, egli
subito uscì, ed era notte. (Giovanni 13,30)
“Quello che bacerò è
Lui, arrestatelo!”.
E subito si avvicinò a
Gesù e disse: “Salve Rabbì”. E lo baciò.
E Gesù gli disse: “Amico,
per questo sei qui!”.
Allora si fecero
avanti e misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono. (Matteo 26,48-50)
Vogliamo riflettere sul tragico
epilogo del giovedì Santo; il tradimento di Giuda.
Si sono fatti sempre tanti
discorsi, tanti romanzi su questa figura impenetrabile e misteriosa.
Ma noi ora cercheremo di fare un
discorso diverso dal solito, cioè di attenerci
soltanto al Vangelo.
Anche Giuda è un “chiamato”, anche lui è stato scelto da Gesù quando
là sulla
collina della Galilea-come dice
il Vangelo-il Maestro ha costituito i suoi discepoli,
affinché andassero a predicare,
avessero potere di guarire le infermità
e di cacciare i demoni.
Giuda restò con il Signore fino
all’ultima cena, fin quando, preso il boccone,
uscì dal Cenacolo.
È come se con quella fuga, Giuda
quasi non reggesse allo sguardo doloroso di
Cristo fisso nel suo, come se avesse
detto: “Sì, sono io il traditore”.
Cos’era passato fra il primo “sì” di Giuda in Galilea, e il suo ultimo “si” nell’ultima cena?
Nel racconto evangelico di una
cena precedente, la cena di Betania quando
la Maddalena versò unguento
prezioso (il nardo) sui piedi di Gesù, suscitando
il rimprovero di Giuda, perché
l’olio poteva essere venduto per darne il ricavato
ai poveri Giovanni dà un giudizio
duro sul compagno: “Questo lo disse non
perché gli importasse
dei poveri, ma perché era ladro e siccome teneva la cassa,
prendeva quello che
gli mettevano dentro”.
Secondo Marco, fu proprio dopo
quella cena che Giuda decise di consegnare
Cristo ai sommi sacerdoti.
La stessa cosa ci dice Matteo,
che precisa il premio del tradimento; trenta monete
d’argento, il prezzo fissato
dalla legge per la vita di uno schiavo.
Ma stiamo attenti; queste notizie
e questi giudizi sono stati scritti decenni dopo i fatti.
In realtà alla mensa nel
Cenacolo, quando Gesù annuncia che uno di loro lo tradirà,
nessuno pensa a Giuda, nessuno
dubita di lui.
Anzi, gli Evangelisti concordano
nel dire che, rattristati, tutti cominciarono
a chiedersi a vicenda “chi di essi avrebbe fatto ciò”.
Dunque soltanto Gesù, in virtù
dei suoi poteri divini, soprannaturali, sapeva
tutto del tradimento e del
traditore.
Cos’è che motivò il distacco di
Giuda dal Rabbì a cui si era promesso in Galilea?
Fu l’avidità del denaro?
Ma quei miseri trenta denari, non
sembrano il prezzo giusto di una trattativa
interessata; sembrano quasi uno
spregio in più, per il valore del Rabbì!
Forse un dato importante per
capire Giuda è il fatto che lui è l’unico giudeo
nel gruppo degli Apostoli, tutti
uomini della Galilea; questa cittadinanza ha
certamente pesato nello
svolgimento del dramma.
Si può pensare infatti che
l’Iscariota fosse materialmente e psicologicamente
vicino all’ambiente dei Giudei di
Gerusalemme, cioè agli intrighi politici e
religiosi che avevano il loro
focolaio nella cerchia dei sommi sacerdoti,
degli anziani, degli scribi, dei
farisei; tutta gente che sognava l’arrivo di
un capo, di un re capace di
scuotere il giogo di Roma.
E il Rabbì di Nazareth, sembrò
certamente il personaggio ideale per questo ruolo.
Intanto, era della stirpe di
Davide, la stirpe destinata a regnare su Israele,
secondo le profezie; era giovane,
radioso, religioso, irreprensibile, era un grande
taumaturgo, sempre assediato
dalle folle, ascoltato dal popolo; era sapiente,
era un Rabbì straordinario come
non se ne erano mai visti.
All’inizio perciò, Giuda può
avere riversato sinceramente su Gesù tutto il suo
entusiasmo; e più Cristo diveniva
popolare, più giustificava le speranze
riposte in Lui.
Ma poco a poco però, Gesù
cominciava a deludere i suoi sostenitori; sempre
più spesso questo Rabbì predica
contro gli scribi e i farisei: “Guai a voi, scribi
e farisei ipocriti, che
imponete la decima, ma avete trascurato le parti più
importanti della legge;
la giustizia, le misericordia e la fedeltà. Guai a voi!”.
Nel Vangelo di San Matteo ci sono
splendidi brani sulle ammonizioni di Gesù,
ammonizioni preziose anche per
raddrizzare la nostra mentalità, non sempre
lontana da quella farisaica.
Ogni giorno di più il Signore
manifestava la sua indifferenza e il suo disprezzo
per i regni di questo mondo, per
la gloria di questo mondo: “Io non sono venuto
per essere servito ma
per servire”,
diceva.
Non solo, cominciò anche a
profetizzare la sua passione e la sua morte in croce,
mandando in frantumi i sogni di
chi guardava a Lui come al trionfatore.
Quel Rabbì cominciava allora a
far paura al potere religioso di Gerusalemme;
il suo ascendente sulla folla non
è più gradito, anzi diventa pericoloso.
Dopo la clamorosa resurrezione di
Lazzaro, la misura appare colma.
È impressionante il realismo
della congiura narrata dal Vangelo: “E che
facciamo-si chiedono
gli scribi-, mentre quest’uomo fa tanti miracoli?
Se lo lasciamo fare
così ci screditerà e, i Romani distruggeranno il nostro
luogo santo e la
nostra nazione”.
E Caifa, il sommo sacerdote
aggiunse: “Voi non capite e non riflettete come
sia di nostro
interesse che muoia un solo uomo per il popolo e non
perisca l’intera
nazione”.
Gli Evangelisti narrano che Giuda
uscì dal Cenacolo dopo aver già trattato il tradimento.
E ci chiediamo, fu Giuda ad
accostare per primo il potere, o fu il potere che
accostò Giuda, indovinando la sua
disponibilità a tradire?
Oppure, come è più probabile, il
rapporto tra costoro era di più antica data?
Domande inutili.
Gli Evangelisti ci dicono solo
che, all’uscita del Getsemani il traditore si fece
incontro a Gesù guidando i
soldati con le armi e le lucerne per illuminare il
bacio del tradimento.
Ci dicono che poi Giuda si pentì
di aver tradito sangue innocente e volle annullare
quel fatto scellerato, ma non
riuscendovi, s’impiccò ad un albero e si uccise.
Quale fu la colpa più grave di
Giuda; il tradimento o il disperato suicidio?
Diciamo piuttosto che la colpa
più grave di Giuda fu una colpa “a monte”,
a monte del tradimento e della
disperazione.
Giuda fu colpevole di essere
stato scelto e amato da Cristo, di essere vissuto
tanto tempo con Lui, al calore
della stessa mensa, sotto lo sguardo di quelle
pupille, nel fascino di ore e ore
trascorse in preghiera e in ardenti colloqui
con Lui e, ciò nonostante di non
avergli creduto!
Di non avere creduto che Egli
fosse il Figlio di Dio, come Egli asseriva di
essere; lo credette soltanto un
uomo, sia pure giusto, sia pure innocente.
È significativo l’aggettivo “innocente”, usato da Giuda quando confessò
il suo peccato: “Ho tradito sangue innocente”.
Perché dimostra che neppure al
termine della tragedia Giuda arrivò a chiamare
Cristo col nome di Signore, di
Messia, di Figlio di Dio.
Io penso che il Signore avesse
chiesto a Giuda: “E tu chi dici che Io sia?”.
Giuda non avrebbe mai risposto
come rispose Pietro, ispirato dal
Padre: “Tu
sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivente”.
Se Giuda avesse avuto la
fragilità di Pietro, ma anche la vibrante fede di lui,
avrebbe capito che neppure il
suicidio pacifica, come pacifica il perdono di
Dio; e sarebbe tornato, come
tornò Pietro, in seno ai dodici.
Giuda morì disperato!
Non aveva capito che il perdono
di Cristo era il perdono di Dio, non aveva
accolto il Dio della
misericordia.
Eppure, al momento dell’arresto, Gesù
lo aveva ancora chiamato “amico”;
non per patetica bontà, ma per
fargli capire che, nonostante il tradimento
consumato, il traditore era
ancora in tempo per approfittare di un Dio “amico”,
per approfittare di un Dio del
perdono; Gesù volle invitare Giuda a varcare in
extremis la soglia che dal “Dio dell’ira”, immette al “Dio
dell’amore”.
Ma Giuda non accolse neppure
quell’ultimo invito, perché non aveva accolto
la rivelazione di Cristo, non
aveva accolto Cristo.
La colpa più grave di Giuda, è
quella che nell’ultima Cena, Gesù stesso annunciò
il tradimento: “Colui che mangia con Me, ha levato contro di Me il suo
calcagno.
Ve lo dico fin d’ora
prima che accada, perché quando sarà avvenuto crediate che io sono.
In verità in verità vi
dico; chi accoglie Me, accoglie Colui che Mi ha mandato”.
Non credo che ci sia un giudizio
più giusto di questo giudizio del Signore sul
peccato di Giuda; Giuda non ha
accolto Gesù, perché non era del Padre.
Quale zona buia aveva quest’uomo
dentro di se?
Quale ombra, quale tenebra,
ancora prima del tradimento, gli impediva
di “avere
parte” con il Padre e quindi con il Figlio?
Solo Dio ha visto in quel cuore.
C’è una domanda che spesso mi
sento rivolgere: “Si sarà salvato Giuda
o sarà stato
condannato in eterno?”.
È una domanda che mi pare una
tentazione, la tentazione di togliere a Dio
i suoi veli, i suoi misteri.
Noi sappiamo che la giustizia di
Dio è misericordiosa e, che la sua misericordia
è giusta, ma non sappiamo
discernere il punto esatto in cui la giustizia divina
si salda alla misericordia
divina.
Non affanniamoci stoltamente a
risolvere gli enigmi divini; commetteremmo il
peccato di Giuda, quello di
considerare Dio come un semplice uomo, senza mistero.
Chi non sa godere del mistero di
Dio, è qualcuno che sta già perdendo la fede;
e nel Getsemani noi dobbiamo
andare invece per rinsaldare la nostra fede!
Dobbiamo essere orgogliosi della
nostra religione “rivelata da Cristo”.
Dobbiamo essere entusiasti e
grati per la fede che ci è stata donata; la fede
nella misericordia che ci salva
dalla disperazione; la fede nel perdono che
ci addolcisce nell’umiltà; la
fede nella vita eterna che ridimensiona i drammi
della vita presente; la fede in
Colui che ha detto di Se stesso: “Io sono il
Salvatore”.
Ora capisco Signore,
cosa vuol dire avere fede, in particolare in questo momento
tragico per colpa di
questo demonio invisibile, che ti attacca alle spalle e non
riesci a difenderti e,
che, solo la fede può aiutarti a non impazzire.
Perciò, Signore,
voglio in questa notte tragica, essere vicino a Te come, Tu sei
vicino a tutti quelli
che soffrono, condividere il tuo dolore, come Tu condividi
il nostro dolore e,
vogliamo pregare insieme a Te che ti stai preparando a salire
sul Golgota e, noi
saremo lì con Te sotto alla Croce.
A domani amici, vi do
appuntamento sulla collina della sofferenza
e della Croce assieme
a Gesù.
Buona lettura e
meditazione, Fausto.
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