sabato 31 marzo 2018

Il Vangelo di Domenica 1 Aprile 2018


Risurrezione del Signore.
1° Lettura dagli Atti degli Apostoli (10,34a.37-43)
2° Lettura dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossèsi (3,1-4)
Dal Vangelo secondo Giovanni (20,1-9) anno B.
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino,
quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.
Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù
amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non
sappiamo dove l'hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all'altro discepolo e si recarono al sepolcro.
Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro
e giunse per primo al sepolcro.
Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro
e osservò i teli posati là, e il sudario - che era stato sul suo capo - non posato
là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro,
e vide e credette.
Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva
risorgere dai morti.
Parola del Signore.
Riflessione personale sul Vangelo di oggi.
Faticano a riprendere il fiato, le donne, e Pietro e Giovanni le guardano, gli
occhi gonfi dalla notte insonne, i sensi tesi dalla paura di essere scoperti.
Raccontano, confuse, di pietre ribaltate, di visioni di angeli.
Lui non c'è più, dicono.
Pietro e Giovanni si guardano, è un attimo, storie di donnette emotivamente
fragili, e ci mancherebbe.
Ma trovano il coraggio ed escono.
Prima lentamente, poi sempre più in fretta.
Poi corrono.
Ma che succede oggi?
Commentano i commercianti vedendo due uomini correre nei vicoli.
Escono dalla porta a Ovest, arrivano al giardino, si affacciano alla porta
della tomba scavata nella roccia.
Pietro entra, Giovanni si affaccia solo a guardare.
No, non c'è, non c'è davvero.
Vede il telo afflosciato, la mentoniera, e crede.
E noi, ce la facciamo a credere veramente nella Risurrezione?
Se facciamo fatica anche noi a credere, che è comprensibile,
preghiamo per riuscirci. 
Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il
tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua
volontà come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a
noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri
debitori, e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male. Amen.
Ave, o Maria, piena di grazia, il Signore è con te.
Tu sei benedetta fra le donne e benedetto il frutto
del tuo seno, Gesù.
Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori,
adesso e nell'ora della nostra morte. Amen.
Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo.
Come era in principio ora e sempre nei
secoli dei secoli. Amen.
Santa Pasqua a tutti voi amici, Fausto.


venerdì 30 marzo 2018

Triduo Pasquale, Sabato 31 Marzo 2018


Sabato Santo.
Riflessione personale sul Sabato Santo dell’attesa.
Tu conosci, o Maria, come il buio del Sabato Santo possa talora penetrare
fino in fondo all’anima pur nella completa dedizione della volontà al
disegno di Dio.
Tu, o Maria, sei madre del dolore, tu sei colei che non cessa di amare Dio
nonostante la sua apparente assenza, e in Lui non ti stanchi di amare i suoi
figli, custodendoli nel silenzio dell’attesa.
Nel tuo Sabato Santo, o Maria, sei l'icona della Chiesa dell'amore, sostenuta
dalla fede più forte della morte e viva nella carità che supera ogni abbandono.
O Maria, ottienici quella consolazione profonda che ci permette di amare
anche nella notte della fede e della speranza e quando ci sembra di non
vedere neppure più il volto del fratello!
Tu, o Maria, la proclamazione del Vangelo, l'impegno di educare alla fede,
di generare un popolo di credenti, ha un prezzo, si paga “a caro prezzo”;
è così che Gesù ci ha acquistati.
Donaci quell’intima consolazione della vita che accetta di pagare volentieri,
in unione col cuore di Cristo, questo prezzo della salvezza.
Fà che il nostro piccolo seme accetti di morire per portare molto frutto! Amen.
Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il
tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua
volontà come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a
noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri
debitori, e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male. Amen.
Ave, o Maria, piena di grazia, il Signore è con te.
Tu sei benedetta fra le donne e benedetto il frutto
del tuo seno, Gesù.
Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori,
adesso e nell'ora della nostra morte. Amen.
Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo.
Come era in principio ora e sempre nei
secoli dei secoli. Amen.
Buon sabato Santo Fausto.


Gesù per il suo grande amore muore per noi.


La Crocifissione.
Il “processo” è finito, ognuno ha avuto ciò che desiderava; Pilato, inaspettatamente,
una pubblica dichiarazione di affetto verso Cesare da parte dei sommi sacerdoti;
Caifa, dopo un’estenuante duello sul filo del rasoio, la condanna per crocifissione
del Nazareno; Erode un’inattesa attenzione da parte del prefetto.
Gesù è una piccola rotella in un complesso mondo, in cui ognuno ha le sue
buone ragioni per farlo fuori.
Dio si usa, quando serve, altrimenti è meglio sbarazzarsene.
Pilato allora decretò che fosse eseguita la loro richiesta.
Rilasciò quello che era stato messo in prigione per sommossa e omicidio, e che
quelli richiedevano, ma consegnò Gesù alla loro volontà.
Gli uomini non fanno la volontà di Dio.
Gesù, allora, è consegnato alla volontà degli uomini.
Se non avessimo più di duemila anni di predicazione e di Via Crucis alle spalle,
rabbrividiremmo, leggendo questa annotazione di Luca!
La storia degli uomini è anche segnata dal tentativo di convincere le divinità
a piegarsi ai nostri desideri, alle nostre necessità.
La passione ci svela un Dio che accondiscende alla  volontà degli uomini,
che, però, è una volontà di morte.
Gesù viene condotto al patibolo perché il volto di Dio che annuncia e rivela
è intollerabile, disturba e scandalizza.
Troppo compassionevole, troppo generoso, troppo amorevole, il suo Dio.
La religione, fino ad allora usata come strumento per mantenere l’ordine costituito,
esce dagli schemi rigidi in cui gli uomini religiosi l’hanno costretta, per diventare
un’esperienza personale, interiore e comunitaria.
Con l’amore di un Dio benevolo e sorridente.
Un delirio.
Preferiamo tenerci il volto corrucciato di un Dio antipatico ma potente,
indifferente ma schierato con le nostre ragioni, all’occorrenza.
Gesù va eliminato, non c’è dubbio.
Un profeta abitato dallo Spirito, che ha compiuto solo opere di bene, che ha
smascherato l’ipocrisia nascosta dietro alla devozione senza fede, che ha
riletto con passione e verità la Parola data da Dio agli uomini, riportandola alla
sua origine, è certamente più pericoloso di Barabba, omicida e sobillatore.
I giudei, presero dunque in consegna Gesù.
Egli, portando la croce da sé, uscì verso il luogo detto del Cranio,
in ebraico Golgota.
 Pilato consegna Gesù a Caifa; si forma un piccolo drappello, composto da
soldati romani e, forse, da soldati del tempio.
Gesù, duramente provato dalla flagellazione che, ricordiamo, poteva portare
alla morte, è caricato del patibolo, una trave che gli è posta sopra le spalle
sanguinanti e legata ai polsi.
A questa trave, una volta arrivati al patibolo, il condannato è inchiodato con
due chiodi, probabilmente passati nel polso, conficcati nel legno e ripiegati,
per poi essere innalzato, sollevato da quattro soldati, e appoggiato sopra un
palo verticale precedentemente fissato, alto non più di due metri.
Il luogo dove Gesù è condotto è il Golgota, una cava di pietra in disuso
addossata alla porta ovest della città.
Era abituale trovare delle cave di pietra intorno a Gerusalemme; quella del
Golgota è abbandonata; probabilmente la pietra non è di buona qualità, come
rivelano gli scavi sottostanti il Santo Sepolcro, e qualcuno l’ha riadattata per
scavare delle preziose tombe.
Il Golgota perciò confina con una serie di ricche tombe scavate nella roccia e
circondate da un giardino.
Il tragitto che Gesù compie non è lungo; dal palazzo di Erode al Golgota ci
sono poche centinaia di metri.
Lo segue una folla di persone; chi lo ha condotto per essere giudicato e vuole
essere sicuro della sua morte, alcuni discepoli, fra cui l’evangelista Giovanni,
alcuni curiosi.
La crocifissione avviene fuori della città; dentro le mura, infatti, sarebbe
impossibile, renderebbe impuro il tempio.
Il sommo sacerdote Caifa deve correre al tempio prima del tramonto; le
minuziose norme di purificazione che lo riguardano non devono essere
infrante per nulla al mondo; certamente non esce dalla città e, se assiste
all’esecuzione di Gesù, lo fa dall’alto delle mura.
L’idea che Caifa, da lì a poche ora, indosserà i solenni paramenti per
uccidere l’agnello pasquale, mi mette i brividi.
È come se un prete pedofilo, rovinasse un ragazzo e poi andasse a
prepararsi per celebrare l’Eucaristia.
Assiste alla morte di Dio, e pensa di onorarlo offrendogli un agnellino,
dopo avergli massacrato il Figlio.
Spesso nella sua predicazione, Gesù ha parlato di portare la croce, un modo
di dire, forse, derivato dall’esperienza degli abitanti di Gerusalemme che
assistevano a numerose esecuzioni, con i condannati che attraversavano la
città portando il patibolo.
Gesù, usando anche l’immagine del giogo del bue, indica la fatica dell’essere
discepoli, l’impegno che comporta convertirsi alla visione di Dio che Egli
inaugura, lo sforzo per adeguarsi alla logica del Regno.
Credere, ciò, comporta una morte a se stessi, una fatica, ma anche una liberazione.
E, invece, questo modo di dire è stato foriero di mille interpretazioni; e di mille
sensi di colpa.
Voglio ancora ribattere un’idea per me fondamentale, visto che Gesù è morto per
proclamare, e che non smetterò di ripetere, a costo di sembrare un paranoico.
Dio non manda le croci, non le ama e ne farebbe volentieri a meno.
La sofferenza, la malattia, i litigi, la depressione, un fallimento lavorativo,
non dipendono da Dio, ma da noi e dagli altri.
Da noi, quando ci facciamo mille giri di testa su cosa vorremmo o dovremmo
essere, e siamo sempre scontenti di noi stessi e della nostra vita.
Dagli altri, quando si divertono a farci tribolare per invidia o per malvagità.
O, ancora, dalla congiuntura internazionale che ha mandato sul lastrico l’azienda
in cui lavoro, dall’inquinamento atmosferico, che è all’origine del mio cancro,
e così via.
Gesù parla del discepolato come fatica da assumere, non di un Dio sadico che,
avendola portata Lui, decide di caricarci di una croce per vedere quando crolliamo!
Dio non ci manda la croce e, potendolo, anche Lui ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Ma se la croce arriva, o perché altri ci caricano o perché noi stessi ce la costruiamo,
allora bisogna portarla guardando avanti, senza farsi schiacciare.
Conosco devoti, non voi, gli altri, che quando sentono parlare della croce di Gesù
cominciano, davanti a Dio che muore, a lamentarsi dei propri malanni o dei
dispetti ricevuti.
Portare la croce non significa alzarsi ogni mattina, piallarla, carteggiarla e verniciarla!
Per quanto dipende da noi, evitiamo di caricarci di croci che non rendono in
alcun modo gloria a Dio e se, invece, ne siamo caricati, allora portiamola
uniti a Cristo.
Come Simone! Il Cireneo!
Mentre lo conducevano fuori per crocifiggerlo, costrinsero un passante che
tornava dai campi, Simone di Cirene, padre di Alessandro e Rufo, a portare
la croce di Lui.
Lo condussero, così, al luogo detto Golgota, che significa luogo del Cranio.
Gesù non ce la fa proprio; la tensione interiore, la notte insonne, l’interrogatorio,
la flagellazione, gli scherni, il peso del patibolo!
Cade sul selciato e fatica a rialzarsi.
Allora un soldato prende un uomo a caso dalla folla, uno che torna dal lavoro
e che si ferma a vedere cosa succede; (mai fermarsi a curiosare, può succedere
anche di prendere le colpe), slegano la croce e la pongono sulle spalle di Simone
di Cirene, uno sconosciuto di passaggio, (non sempre sono parenti e amici ad aiutarti).
Non un amico, un discepolo, un compagno di avventura; uno sconosciuto.
Prendono uno che compie un gesto forzato, senza entusiasmo, senza generosità,
imprecando in cuor suo, timoroso, anche di essere anch’egli scambiato per
un delinquente.
Un temporaneo compagno di malasorte, come un vicino di letto in ospedale,
o alla mensa dei poveri, uno che ha in comune con te solo la disperazione.
Eppure.
Non sappiamo nulla di Simone.
Non sappiamo se quel quarto d’ora passato a portare la croce di Gesù sia stato
qualcosa di più di un brutto momento da raccontare, il giorno dopo, ai vicini di casa.
Così è la croce; non desiderata, arriva quando meno te l’aspetti, alla fine di una
faticosa giornata di lavoro.
No, Dio non ti manda nessuna croce, nel caso di Simone sono i soldati romani
che gliela impongono.
Ma quel suo gesto obbligato, in qualche modo, l’ha scosso, interrogato, cambiato.
Marco, raccontando il gesto di Simone, non ne parla come di uno sconosciuto,
ma come del padre di Alessandro e Rufo, due persone a lui note, probabilmente
due discepoli che frequentano la comunità di Gerusalemme.
Il gesto di Simone è stato una benedizione per lui e la sua famiglia.
Quando ci troviamo a portare la croce, pensiamo che stiamo aiutando Cristo
a portarla, e che, così facendo, lo aiutiamo a salvare il mondo, manifestando
la misura dell’amore di Dio.
E quel gesto, forzato, non bello, non elegante, può fiorire nella nostra vita
interiore, e in quella di chi amiamo.
Sulla strada che conduce fuori dalla città, Luca ci racconta un curioso episodio,
denso e significativo, quello delle donne piangenti.
In passato molti commentatori hanno sottolineato la misericordia del Signore
nei confronti di queste donne, immaginate come devote discepole affrante
dal dolore.
Bello, poetico, finalmente qualcuno che prova compassione davanti all’indurito
dolore del Nazareno.
E invece no.
Mi ha sempre lasciato perplesso questa interpretazione.
Poi, qualche anno fa, leggendo il testo delle meditazioni alla Via Crucis al
Colosseo scritte dall’allora Cardinal Ratzinger, mi sono rasserenato;
la pensiamo allo stesso modo.
No, quelle donne non sono delle affrante discepole, ma una compagnia della
buona morte chiamata, forse, figlie di Gerusalemme, che accompagnava i
condannati a morte, e che piangeva lacrime su chi, normalmente, non aveva
nessuno che piangeva per lui.
Il loro, è un pio atto di devozione e di compassione. Falso!
Gesù non vuole lacrime finte, vuole la conversione dei cuori, non ama
l’apparenza, vuole la sostanza, non le opere caritative fatte una volta all’anno,
ma un cuore compassionevole sempre, non ha bisogno di una claque che faccia
partire l’applauso, ma di discepoli che seguono il Maestro nel dono di sé.
Gesù è gravemente ferito, esausto, eppure trova la forza di reagire.
Le sue parole sono taglienti; non ho bisogno delle vostre lacrime, tenetele per
i vostri mariti, che hanno permesso di uccidere un innocente, conservatele per
quando la violenza genererà violenza, e il vento seminato diverrà tempesta
e tutto crollerà.
Gesù profetizza il crollo di Gerusalemme?
Facile profezia; l’equilibrio raggiunto dalla città è continuamente messo in
discussione dalle lotte interne e dalle tensioni internazionali.
Gesù fa un servizio alla verità, scuote queste pie donne dell’aristocrazia
religiosa, dal loro mondo dorato per riportarle con i piedi per terra.
Piedi che pestano sangue.
Non sempre chi ti dà una carezza ti vuole bene e chi uno schiaffo ti vuole
male, ricordiamocelo.
A volte, anche una frase forte, uno schiaffo morale, può testimoniare un
grande affetto.
Il corteo ha finito il suo percorso, sono arrivati alla cava, al Golgota.
Gesù viene spogliato della tunica, lo cinge un perizoma di cotone o lino,
che non gli viene tolto.
Abitualmente, nell’impero romano, si era crocifissi nudi, ultimo segno di
disprezzo, come le povere vittime della follia nazista che erano spogliate
prima di entrare nelle camere a gas, per avere un lavoro di meno da compiere!
In Giudea pare di no; Roma non aveva interesse a compiere gesti che la
cultura locale avrebbe considerato provocatori.
Gesù è pronto per essere inchiodato e innalzato.
Volevano anche dargli del vino aromatizzato con mirra, ma Egli non lo prese.
Matteo parla di vino mischiato con fiele, Marco di vino mischiato con mirra,
ma la sostanza non cambia; è un blando anestetico, una misera forma di
compassione per stordire il condannato durante la crocifissione, momento
molto doloroso che comportava, fra le altre cose, la frattura di alcune ossa
del polso e del legamento del pollice.
Gesù rifiuta la bevanda, probabilmente vuole restare lucido fino in fondo.
Vuole mantenere la consapevolezza e la coscienza di sé per ciò che sta compiendo.
Non è facile raggiungere la consapevolezza e la coscienza delle cose che si vivono,
nella vita.
La fede, quella vera, ci può aiutare molto in questo percorso.
Più spesso, durante i momenti di dolore siamo completamente storditi e poco
lucidi, e rischiamo di prendere delle decisioni avventate.
Gesù ha piena consapevolezza di ciò che accade.
I suoi carnefici, secondo Lui, no.
È Luca a riferire questo particolare che mette i brividi.
Quando giunsero sul posto, detto luogo del Cranio, là crocifissero Lui e i due
malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra.
Gesù disse: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”.
Siamo al momento più tragico; i condannati sono slegati, distesi, in terra, due
soldati tengono fermo il disgraziato mentre un terzo, con un grosso martello,
gli conficca un chiodo lungo una ventina di centimetri, poi viene fatto alzare
e tirato su per le gambe e incastrato al braccio verticale.
A questo punto gli si piegano le gambe e un altro chiodo è conficcato unendo
i piedi, tenuti sovrapposti.
La posizione del crocifisso è innaturale e dolorosa; la maggior parte del peso
del corpo è sostenuto dai polsi, trafitti dai chiodi; la posizione irrigidisce i
muscoli pettorali che, contraendosi, impediscono di respirare correttamente.
Istintivamente il crocifisso fa leva sui piedi per alzarsi di qualche centimetro
e respirare, per poi ricadere, sopraffatto dal dolore dei piedi trafitti.
Una tortura inaudita.
In quel momento, mentre è inchiodato e innalzato, Gesù pronuncia la frase
più forte dell’intera passione: “Padre perdonali, non sanno quello che fanno”.
Non solo li perdona; li giustifica, anche.
Non è vero; sanno benissimo quello che fanno, ma il Signore sovrabbonda di
grazia, è capace di capire le ragioni (malvage) dei suoi assassini.
Gesù perdona chi lo sta uccidendo, come ha chiesto di fare ai suoi discepoli.
Ama i suoi nemici.
Questa è la misura senza misura dell’amore di Dio.
È difficile perdonare, difficile perdonarsi.
Non si può dimenticare; il perdono non è un’amnesia.
E il perdono non riguarda l’emozione, ma la volontà; possiamo perdonare ma
restare turbati quando incontriamo chi ci ha fatto del male.
E non si perdona perché migliori, o perché l’altro cambi con il nostro perdono;
si perdona perché figli del Padre che fa piovere sopra i giusti e i malvagi.
Perdoniamo perché noi abbiamo bisogno di perdonare, non perché l’altro si
meriti il perdono.
Ed è meglio perdonare come si riesce, senza aspettare un perdono perfetto.
Provo disagio quando alcuni cronisti si avvicinano ai genitori di una vittima
e parlano di perdonare; come è anche solo immaginabile pensare di perdonare
l’omicida di tuo figlio il giorno dopo il funerale!
Ci vogliono anni per maturare la decisione di andare oltre, di augurare a chi
ti ha ferito non il male, ma la conversione.
Anni, eccetto che per Gesù, che ha già maturato il perdono.
Dio perdona sempre, senza porre condizioni, sperando nella conversione di
chi perdona.
La Tunica.
Dev’essere un particolare importante se tutti ne parlano.
Gesù viene spogliato delle vesti, ovvio.
Perché dirlo, allora?
E perché con così tanta insistenza?
Probabilmente gli evangelisti indugiano sul particolare della divisione delle
vesti perché colpiti dal fatto che un salmo, il ventidue, ne parla.
O forse, per sottolineare il disprezzo dei soldati che prendono la veste, intrisa
di sangue, inutilizzabile, per stracciarla in quattro parti.
Giovanni il teologo, ovviamente, non si accontenta di questa spiegazione
e vuole approfondirla.
Sono due le vesti, quindi; una tunica preziosa, di qualità, tessuta tutta d’un
pezzo, e un mantello, che viene fatto a pezzi dai soldati.
La tunica resta intatta.
Che significa?
I Padri della Chiesa hanno visto in questa tunica l’immagine della Chiesa
che non deve essere divisa per nessuna ragione.
I discepoli corrono il rischio di stracciare l’unità, prezioso dono di Cristo
morente in croce.
A cosa si riferisce Giovanni?
Forse alle tensioni nate fra la comunità di Gerusalemme, legata a Giacomo,
più conservatore, e quella fondata da Saulo?
Non lo sappiamo.
Certo è che il dono prezioso dell’unità, più e più volte lacerato nel corso
della storia, va conservato.
In parrocchia, nei movimenti, nella Diocesi, quando lasciamo prevalere la
divisione, lo scontro, ricordiamoci che stiamo lacerando la tunica di Cristo.
Ecco, Gesù è appeso, pende dalla Croce.
Gli evangelisti spostano l’attenzione da Lui a chi lo circonda; la folla,
i capi, i soldati.
Il luogo della crocifissione è vicino all’ingresso della città e la folla numerosa,
che affretta il passo per entrare, visto il repentino cambiamento del tempo,
vede questi disgraziati e commenta.
Luca descrive la scena con una rara efficacia, invitando lo spettatore e noi,
a una sintesi teologica forte.
Il popolo sta a guardare; è stato coinvolto, in precedenza, per spingere Pilato
a crocifiggere Gesù.
Gli è stato fatto credere di essere essenziale, in realtà il popolo è stato
manovrato da interessi politici e religiosi e, ora, è inerme e assiste.
Quanto possiamo essere manipolati!
Per incitare una nazione a scatenare una guerra, o ad acquistare un prodotto,
o a eleggere un candidato politico; il popolo, la “gente”, come si dice oggi,
è coinvolta solo se serve e, quasi sempre, è usata per raggiungere finalità
personali e private, non il bene comune.
Il discepolo, invece, non fa parte di una folla, ma di una Chiesa, un popolo di
radunati-da-Dio, di convocati, chiamati a essere protagonisti della storia di Dio,
a fare gli attori, non le comparse.
Forse pochi lo sanno che, alla domenica quando andiamo ad assistere alla
Santa Messa, siamo noi i protagonisti, il celebrante all’inizio della celebrazione
dell’Eucaristia ci chiede di poterlo fare, ci chiede il nostro consenso, siamo noi
che celebriamo la santa Messa e non lo sappiamo, lui la presiede, ma i
protagonisti siamo noi.
Quanta grazia!
La folla è stata usata; ora assiste alle conseguenze della propria barbarie,
inerme, spenta.
Tutti i presenti sono d’accordo.
I capi del popolo giudaico, i soldati romani, il ladro; per mostrare di essere il
Cristo, Gesù deve salvare se stesso.
Per dimostrare di essere Dio, Gesù deve fare l’egoista.
È giusto; Dio non è forse il sommo egoista bastante a se stesso?
Il totalmente realizzato, il compiuto, l’inarrivabile?
Allora, per dimostrare di essere il Figlio di Dio, Gesù deve salvare se stesso!
No, invece, Gesù non salverà sé. Salva me, salva tutti noi.
La sconcertante novità del cristianesimo è la scoperta di un Dio che vive in
relazione all’altro, che non è il motore immobile, ma che è Trinità, comunione,
relazione, festa e famiglia.
Gesù non salva se stesso; salva l’umanità, donando se stesso.
E ci apre una prospettiva sconosciuta e inattesa della vera identità di Dio.
Matteo è meno raffinato, ma altrettanto efficace.
La folla, i sacerdoti, i ladroni, sbeffeggiano Gesù, lo ridicolizzano.
Non ha potenza, non ha efficacia la sua profezia, non è capace nemmeno di
salvarsi, altro che distruggere il tempio!
A Gesù è proposta una specie di compromesso; non sono bastati i tanti miracoli
compiuti, le parole, i gesti.
Deve ancora compiere un miracolo, il più eclatante; scendere dalla croce: “Il
Cristo, il Re d’Israele, scenderà ora dalla croce, affinchè vediamo e crediamo”.
A quel punto, certo, tutti si convertiranno.
Per convertirsi, la folla chiede a Gesù di evitare la croce.
Buffo, potevano evitargliela loro, la croce.
Invece lo hanno crocifisso per vedere se scende dalla croce.
Contraddizione della stupidità umana!
Gesù non ama la croce, non l’ha desiderata, l’ha assunta, non ha potuto evitarla.
Come le tante persone che si trovano inchiodate a una croce senza scegliere,
senza poter fuggire, (una malattia, un lutto, una depressione), Gesù non scende,
non fugge, non vuole sconti, accetta fino in fondo di condividere il destino degli
sconfitti e degli ultimi, dei perdenti di tutti i tempi.
Al condannato veniva appeso al collo una tavola in legno, riportante la ragione
della condanna a morte.
Nel caso di Gesù questo cartello è posto sopra la croce, dal che gli storici
deducono che la croce fosse nella forma che tutti conosciamo, non a “T” detto
Tau, come abitualmente era.
Giovanni, però, fa una precisazione riguardante il titolo della condanna.
È l’ultimo schiaffo di Pilato al Sinedrio, una spietata burla nei confronti dei
sacerdoti; hanno voluto che il Nazareno fosse condannato a morte per il reato
di lesa maestà, visto che si era spacciato per Messia, cioè per il re dei giudei.
Bene; che tutti sappiano, allora, che Gesù è, appunto il re dei giudei.
Il cartello appeso sopra la croce è un’offesa ai giudei che passano; ma come,
quel poveraccio è il loro re?
E Roma mette in croce il loro re?
A quel punto Caifa capisce la gaffe che ha fatto, va da Pilato per convincerlo
a togliere il titolo.
Come il gatto fa con il topo, Pilato, ovviamente, si rifiuta.
La scritta è in tre lingue, per essere ben letta da tutti (aramaico, latino e greco).
Giovanni, ancora una volta, osa svelare la trama che ha fatto comprendere gli
eventi agli uomini; davvero Gesù è il Re dei giudei, e questa regalità, ora, sarà
riconosciuta da tutti i popoli.
Ecco il nostro Re, discepoli, il nostro sovrano; invece del trono, ha una croce,
non indossa una corona preziosa, ma una fatta di spine, non uno scettro, ma una
canna con cui è stato percosso.
Ecco il nostro Re; talmente sfigurato e irriconoscibile da necessitare di un cartello
che lo identifichi.
Un perdente. Un folle.
Uno che ha bisogno di tutto.
Chiedo; lo vogliamo davvero un Dio così?
Sul serio? Ne dubito!
Noi che cerchiamo un Dio che ci appoggi, che ci sostenga, potente, efficace,
interventista, lo vogliamo davvero un Dio così?
Pensiamoci bene, e riflettiamo su quello che andiamo a leggere.
Il buon ladrone!
È una delle figure più simpatiche e conosciute dell’intero Vangelo; uno dei
condannati assieme a Gesù, secondo Luca, invece di insultarlo e di chiedere
un aiuto, elemosina un ricordo.
Una pagina struggente, straordinariamente, tenerissima.
Chiama Gesù per nome, senza aggiungere titoli.
È l’unico caso in tutti i vangeli in cui si usa il nome di Gesù senza alcuna aggiunta.
È l’esperienza nuda e cruda dell’umanità del Signore; sulla croce Egli si è
spogliato di ogni veste regale, di ogni titolo, di ogni ruolo.
La sofferenza è un’esperienza che annulla le differenze.
E il ladro lo riconosce come tale, come uomo che soffre.
Non chiede salvezza; le sue mani grondano sangue, non vuole una soluzione
all’ultimo secondo.
È turbato il ladro, perché vede un innocente che muore!
Ha un alto senso della giustizia; tutto sommato lui si merita quella fine,
quel Nazareno no.
Zittisce il compagno  che insulta Gesù e gli chiede un ricordo.
Abbiamo paura di essere dimenticati, di non contare, di passare nella nostra
vita terrena senza lasciare alcuna traccia.
La Bibbia ci rassicura.
Sion diceva: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato.
Forse che la donna si dimentica del suo lattante, cessa dall’aver compassione
del figlio delle sue viscere?
Anche se esse si dimenticassero, io non ti dimenticherò.
Ecco, ti ho descritta sulle palme delle mie mani, le tue mura sono sempre
al mio cospetto” (Isaia 49,14-16).
Il ladro, come ogni uomo, chiede un ricordo.
Accetta, Gesù, e gli promette di più; gli promette il paradiso.
Secondo la tradizione, il ladro si chiama Disma, e nell’ultimo istante della
sua vita è riuscito a scroccare la grazia del perdono al Signore, ecco la
misericordia di Dio.
Il paradiso, nel Vangelo, è la beatitudine dell’esperienza di Dio, il farne esperienza.
Il ladro, il reietto, il peccatore, il violento, sperimenta la presenza di Dio.
È la misericordia che dilaga, nel Vangelo di Luca; il ladro sperimenta in anticipo
la salvezza.
Perché? Perché ha creduto.
Dio desidera la nostra salvezza, quando lo capiremo?
Desidera il nostro bene, senza porre condizioni.
Del ladro non abbiamo conservato il nome, ma solo quell’aggettivo, buono,
che ne delinea il carattere.
Buon ladrone, nel senso di ladrone con il cuore compassionevole.
Ma buon ladrone anche nel senso di abile.
Gli è riuscito il colpo più spettacolare della sua carriera; ha rubato il paradiso.
La Madre.
I minuti passano, poi le ore.
I lamenti dei condannati diminuiscono, la loro voce si affievolisce.
Non hanno nemmeno la forza di lamentarsi, il dolore ormai li stordisce, tutto
il corpo si rattrappisce intorno a quei chiodi da cui pendono.
Anche la folla si dirada; si tratta di entrare in città per preparare la pasqua,
mentre nel tempio, da qualche ora, si sacrificano gli agnelli della pasqua.
I sacerdoti se ne sono andati, lasciando qualcuno a vedere l’epilogo, per
preparare la solenne liturgia nel tempio.
I soldati romani allentano la guardia.
Ad alcune persone, i famigliari più stretti, si permette di avvicinarsi ai condannati.
È questione di poche ore e tutto sarà finito.
Fra i presenti, i pochi presenti, c’è l’autore del quarto Vangelo, il Giovanni forse
sacerdote che ha ospitato Gesù durante la Cena.
Non ha da temere ripercussioni come gli altri discepoli della prima ora che sono
fuggiti a gambe levate; dev’essere un personaggio importante.
Ha assistito al processo, ha seguito Gesù al Golgota.
Ora sappiamo che, insieme a lui, c’è Maria, la Madre del Signore.
Quando è giunta a Gerusalemme?
Non lo sappiamo.
Sappiamo che, nel momento più terribile, è presente.
È difficile assistere alla morte di una persona che si ama.
Tragico, vedere la morte di un figlio.
Insostenibile, vedere la morte orribile di Gesù.
Maria è presente, sotto la croce, insieme ad alcune altre donne.
Nessun angelo a cantare la gloria di Dio, ora, nessuna rassicurante apparizione.
Eccola lì, la promessa di Dio.
Eccolo il Salvatore.
L’aveva accolto con timore e gioia, nel suo grembo, molti anni prima.
Gli aveva insegnato a camminare, a parlare, a pregare.
Lo aveva visto crescere, farsi uomo.
Aveva atteso con ansia la sua partenza, chiedendosi, davanti al suo
temporeggiare, se non si fosse sbagliata. Poi.
Arrivano le prime notizie da Cafarnao, da Cana, da Magdala.
Notizie portate in paese dai mercanti, che parlano del falegname divenuto profeta.
Poi Gerusalemme, le prime difficoltà, l’ostilità aperta dei sadducei e dei farisei.
Infine la notizia, giunta chissà come a Nazaret, dell’imminente arresto di Gesù.
Eccola, la Madre.
Dov’è, ora, la promessa di Dio? Dove?
Si era forse illusa?
Si era sognata una chiamata inesistente?
Le donne stanno.
Meglio; dimorano irremovibili, tengono duro, non cedono.
Maria, la Madre, dimora nella fede, non cede.
In quel momento, tutto il Regno di Dio è rappresentato da quelle poche donne
radunate intorno alla Madre.
C’è bisogno di donne, quando serve la costanza irremovibile.
Gesù, con un soffio di fiato, vede la Madre e Giovanni, e gliela affida.
Donna, dice.
Come a Cana, prima del miracolo, la chiama donna.
Non è più sua Madre, da tempo l’ha donata, come Lei ha donato Lui.
Si sono fatti dono reciproco.
Come dovrebbe essere in ogni relazione d’amore.
Secondo la tradizione Giovanni, da quel giorno, prese e portò con sé Maria.
Da quel giorno, ogni discepolo del Signore sa che può prendere Maria
con sé, come discreta presenza nel suo percorso di vita interiore.
La morte.
Il vento del mare sta portando nubi che si fanno minacciose, cariche di pioggia.
La gente che entra in città affretta il passo per non farsi sorprendere dal
temporale imminente.
Tutti gli evangelisti annotano questo repentino cambio di tempo.
Dall’ora sesta fino all’ora nona si fece buio su tutta la terra.
Il cielo si scurisce, come se anche la natura partecipasse all’agonia di Dio.
Tutto è nuvoloso e buio, come il cuore delle persone che hanno partecipato
alla crocifissione.
Si fa buio, da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio.
Quell’annotazione temporale è colma di speranza; ha un limite la tenebra,
non può albergare per sempre, nei nostri cuori.
Da mezzogiorno alle tre, ecco i confini entro cui può abitare la disperazione,
non un minuto di più.
Amici che soffrite, dilaniati dalla solitudine e dalla depressione, il vostro
dolore ha un confine, non disperate.
Il silenzio è irreale, i condannati sono immobili, respirano a fatica, non
dicono una parola.
Anche chi piange, ormai, ha esaurito le lacrime.
I caldi colori della Giudea si sono stintiin un grigio sempre più scuro.
Gesù, con un soffio di voce, parla.
Ha sete.
Sete di amore, di pace, di giustizia, sete della nostra fede.
Solo sete.
Il nostro è un Dio assetato d’amore, come noi, sperimenta il limite di un
desiderio quasi sempre insoddisfatto, di uno slancio arrestato, di un anelito
senza soddisfazione.
Ha sete, come ha avuto sete aspettando che la fede della Samaritana lo dissetasse.
Ha sete colui che può dissetare chi cerca la felicità e il bene, come aveva
detto al tempio.
L’ultimo giorno, quello solenne della festa, Gesù stava in piedi e proclamava a
gran voce: “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva.
Colui che crede in me, come disse la Scrittura; dal suo ventre sgorgheranno
fiumi di acqua viva” (Giovanni 7,37-38).
Ha sete della mia fede, della nostra fede.
Le ultime parole.
Sono quattro versioni diverse, molto diverse, forse troppo.
Quali parole ha pronunciato Gesù sulla croce?
Quali sono state le sue ultime parole?
Ogni evangelista dà la sua versione.
Forse Gesù le ha pronunciate in tempi diversi, non lo sappiamo.
Ogni evangelista, però, ha ritenuto quelle che più lo hanno colpito.
Marco è diretto e asciutto, come al suo solito: “Ma Gesù, emesso un grande
grido, spirò” (Marco 15,37).
Gesù grida.
Il suo è un ultimo agghiacciante grido di dolore, che svela la sua partecipazione
assoluta al destino degli uomini.
Un grido che è un disperato soffio di vita, impressionante, messo in bocca a Dio.
Ecco, Dio ora conosce tutto, anche il nulla.
Come se sapesse tutto del niente, e niente del tutto che ha creato.
Restiamo interdetti, senza parole, davanti alla misura di questo dono senza misura.
Il nostro ragionamento entra in corto circuito, davanti all’ampiezza di questo mistero.
Dio conosce la disperazione, perché nessun uomo possa sentirsi abbandonato.
Ha preso l’ultimo posto, perché nessuno possa sentirsi ultimo.
Matteo approfondisce e dilata la riflessione.
Gesù cita un salmo, il ventidue. Lo grida.
A volte anche un grido diventa preghiera.
Gesù conosce i salmi, lo hanno accompagnato nella sua crescita interiore,
nella presa di consapevolezza della sua identità.
Li ha ascoltati, cantati come ninna nanna dalla Madre, quand’era piccolo,
li ha recitati nella sinagoga di Nazareth, in età adulta.
Ha pregato con la Parola stessa di Dio, ha fatto scaturire dal di dentro la
Parola che lungamente aveva assaporato durante la meditazione personale.
Prega, Gesù, le sue ultime parole sono un grido di angoscia, una richiesta d’aiuto.
Un’accusa verso Dio, ma detta con le Parole stesse di Dio.
Dio non ha bisogno di applausi o di carezze, o di timori reverenziali.
Accetta ogni parola, ogni grido, ogni bestemmia, se esprimono verità e richiesta
di aiuto.
Gesù muore pregando.
È un’accusa, la sua, una disperata richiesta di aiuto, ma è usata come una preghiera.
Chiede a Dio perché non c’è, perché non si fa presente.
Vorrei fosse così anche per me e per voi.
Vorrei poter dire, come ultima parola, quell’Abbà, che ha così lungamente
riscaldato il mio cuore bucato.
E la preghiera è un interrogativo; Dio si chiede perché Dio l’abbia abbandonato.
Come se, per un attimo Dio diventasse incredulo.
Incredulo per quanta solitudine l’uomo può sperimentare, solitudine che
Dio, per sempre, assume.
Da ora, e per sempre, nessun Cristo morirà disperato.
Nessuno può più perdersi, ora che Dio si è perso.
La folla pensa che Gesù invochi Elia.
Sarebbe un bel finale, degno di un film americano; Gesù che scende dalla
croce per mezzo di Elia.
È già venuto Elia, ma anche il Battista, e hanno fatto fuori anche lui, non
siamo ridicoli.
Luca, che si è informato, sceglie un’altra delle affermazioni di Gesù.
E Gesù, gridando a gran voce: “Padre, nelle tue mani raccomando il
mio spirito” (Luca 23,46).
Luca conferma che Gesù muore pregando.
Si affida, si dona, sa bene in chi ha posto la sua fiducia e il suo destino.
Lo dice ad alta voce, vuole che tutti sappiano che fra Lui e il Padre c’è un
legame di fiducia totale, di dono di sé.
Ma è Giovanni, al solito, a dare un colpo d’ali, forse perché era sotto la croce.
L’ultima parola di Cristo in croce non è un grido, né un salmo di disperazione
o uno di fiducia.
È l’affermazione di una missione compiuta, quella affidatagli dal Padre.
Quando ebbe preso l’aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto” (Giovanni 19,30).
Ciò che andava fatto è stato fatto, ora sta al Padre continuare.
Abbiamo tutti una missione da compiere, una missione d’amore che Dio ci affida
al momento della nostra nascita, un tesoro nascosto da scoprire e da condividere.
Non pensate subito a grandi opere, o a scoperte straordinarie; a volte sono piccole
le cose che danno senso alla vita e che salvano il mondo.
Ecco; Gesù ora, ha terminato il suo percorso.
Ciò che poteva fare è stato fatto.
È tempo di morire. Finalmente!
Spirò.
Ha lottato duramente per parecchie ore, ma il suo corpo è debilitato, prostrato,
non vuole più combattere.
La terribile macchina della croce ha sortito il suo effetto; la respirazione è
affannosa, i polmoni sono stretti dai muscoli irrigiditi, le gambe non riescono
più a sollevarsi per placare la fame d’aria, il cuore cede, Gesù muore.
Ma Gesù emise di nuovo un forte grido ed esalò lo spirito (Matteo 27,50).
Muore; restituisce lo spirito che ci tiene in vita, quel soffio che ci rende
partecipi di Dio.
Ora esce, esala.
Giovanni dice; lo rende, lo dona.
Lo Spirito, che è dono di Dio, ci è donato sulla croce, ultimo dono di
Gesù ai credenti.
Anche morendo, Gesù compie un’opera di vita, una nuova creazione.
La sua non è una fine, ma un nuovo cosmo che sta per prendere vita.
Gesù è morto.
Nel tempio, decine di sacerdoti, a ritmo sostenuto, sgozzano decine di
migliaia di agnelli, per offrirli al Signore e restituirli ai proprietari che li
avrebbero cotti al fuoco di brace e mangiati insieme alle erbe amare,
un agnello per famiglia, da consumare tutto, senza avanzarne.
Anche l’Agnello di Dio, ora, pende, senza vita.
Sono Marco e Matteo che riferiscono il particolare, all’apparenza insignificante.
Allora il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto fino al basso (Marco 15,38).
Il tempio era un complesso sistema di edifici, infilati l’uno dentro l’altro come
un gioco di scatole cinesi.
Al centro, nel luogo più inaccessibile, troneggiava il Santo dei Santi, un alto
edificio con una sola apertura, circondato da una serie di cortili e di alte mura.
Al suo interno si trovavano due ambienti; un atrio e il Santo vero e proprio, che
al tempo di Salomone, custodiva l’arca dell’alleanza contenente le tavole della
legge, il bastone di Aronne e un po’ di manna.
Da tempo, tutto ciò era stato depredato, e il Santo dei Santi era vuoto, con
grande stupore dei romani che lo violarono.
Ma era comunque il luogo inaccessibile, il luogo della gloria di Dio,
abitato dalla sua presenza.
Luogo cui poteva accedere solo il sommo sacerdote, una volta all’anno,
per versare il sangue del sacrificio, il giorno dell’espiazione.
Quel luogo era diviso dall’atrio da un pesante tendaggio, lungo dal soffitto
al pavimento.
Quel velo, annotano gli evangelisti, si strappò, dall’alto in basso, da Dio
all’uomo, dal mistero all’evidenza.
Dio non è più inaccessibile, è osteso, evidente, appeso.
Dio non è più misterioso, non dimora in un luogo inaccessibile, non è più altrove,
è qui, raggiungibile, incontrabile, lo possiamo vedere, sfiorare, accarezzare.
Il capovolgimento è compiuto; il sommo sacerdote volge lo sguardo al Santuario,
al Santo dei Santi, definitivamente vuoto.
Così come la nube della presenza di Dio abbandonò il tempio per seguire il
popolo deportato in esilio, ora, e per sempre, Dio abbandona il tempio di pietra
per condividere la morte dei malfattori.
La croce, ora, è il tempio.
Quell’atroce strumento di tortura e di morte, ora, è il luogo della gloria di Dio.
Lo diventa perché altare della manifestazione, della misura dell’amore di Dio,
lo diventa perché ostende e realizza pienamente l’assoluto di Dio.
Tutto è compiuto.
Gesù ha dato tutto, goccia dopo goccia, stilla dopo stilla. Tutto!
Chi ha assistito esprime sentimenti diversi.
I sadducei, di feroce soddisfazione, certi di avere fatto una cosa giusta.
I discepoli, di silenziosa disperazione.
Alcuni presenti, di turbamento e di conversione. E noi?
Il primo a testimoniare stupore è il centurione romano.
Un ufficiale abituato alla violenza, che serviva Roma anche in quei frangenti
così spietati e sgradevoli.
Non sappiamo nulla di lui; ha gestito il picchetto di soldati di complemento
per la crocifissione, ha osservato l’agonia dei condannati.
Marco ci dice che si è posto di fronte a Gesù, lo ha lungamente osservato,
è rimasto turbato, scosso.
Ne ha visti morire, di malfattori.
Li ha visti urlare come delle bestie scannate, contorcersi, nudi, intorno ai chiodi
insanguinati, li ha sentiti piangere, bestemmiare, singhiozzare come dei bambini.
Ha fatto l’abitudine a quello spettacolo atroce, a quella morte oscena.
Gesù no, non ha inveito, ha pronunciato parole di perdono, è morto come mai
egli ha visto morire un crocifisso.
E il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare gridando a quel modo,
esclamò: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Matteo 15,39).
La sua professione di fede è la professione di fede della comunità di Marco.
Siamo chiamati a riconoscere in Gesù il Figlio di Dio non quando le cose vanno
bene, ma ora, quando la divinità è nascosta, mascherata, offuscata.
Siamo chiamati a credere che quel poveraccio sfigurato e spezzato è il creatore
del mondo.
È Dio, non perché perdente, ma per come è morto, donandosi fino in fondo,
vivendo ciò che ha detto nei brevi anni della sua vita pubblica.
Siamo tutti bravi a parlare, tutti santi e moralisti, quando si tratta di dare consigli.
Ma quando siamo messi a dura prova, allora esce fuori il meglio o il peggio di
noi stessi.
Gesù testimonia che è esattamente ciò che ha detto di essere.
La sua è una morte coerente, esemplare, inattesa, luminosa.
È poco probabile che il centurione, abbia pronunciato quelle esatte parole.
Con maggior precisione Luca riporta.
Il centurione, vedendo l’accaduto, glorificava Dio: “Certamente quest’uomo
era giusto” (Luca 23,47).
La morte del giusto, il clima di perdono che è riuscito a portare in quell’inferno,
dice Luca, rendono gloria a Dio.
Il pagano romano invoca Dio e lo pensa presente, vedendo quella morte.
I nostri gesti, compiuti con giustizia, la nostra capacità di perdono, la nostra
benevolenza, rendono gloria a Dio, avvicinano le persone al mistero della redenzione.
La nostra vita di fede illumina anche chi ci sta accanto, se vissuta con autenticità
e passione.
La folla manipolata, quella che, all’ingresso di Gesù a Gerusalemme gridava Osanna;
quella che, sospinta dai sadducei e dai capi religiosi ha richiesto la crocifissione
di Gesù, quella che, silenziosa e muta, assiste alla morte del profeta, ora reagisce
in maniera diversa.
Ha preso consapevolezza di sé, è tornata sui propri passi, non è più condotta da altri.
La folla, ora, è meditabonda e silenziosa.
Anche tutti quelli che erano convenuti per questo spettacolo, davanti a questi
fatti se ne tornano a casa battendosi il petto.
Hanno partecipato ad uno spettacolo, una manifestazione.
Come la folla radunata dall’imperatore al Colosseo assisteva ai giochi, ai
massacri fra gladiatori, alle lotte fra uomini e belve; un’orgia di violenza,
di sangue, di follia.
Ma questo spettacolo è stato inatteso, diverso, completamente diverso.
Meditando il mistero della croce, anche noi possiamo tornare sui nostri passi
percuotendoci il petto, cioè rianimando il nostro cuore, scuotendolo,
allargandolo alla misura di Dio.
Tutti noi possiamo assistere sulla via Crucis, allo spettacolo di un Dio che
muore per amore.
E convertirci. Io per primo.
Sia Marco sia Luca annotano un particolare sui discepoli; tutti i suoi amici
e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea se ne stavano lontano,
osservando tutto ciò che accadeva.
Non tutti sono fuggiti.
Alcuni, anche se da lontano, hanno continuato a seguire Gesù.
Nel momento della prova può succedere di allontanarsi dal Signore, di
essere lontani.
L’importante è non perdere di vista il Signore, seguirlo, anche solo con la
coda dell’occhio.
Per sapere dove l’hanno messo e tornare da Lui, anche se lo consideriamo,
ormai, un cadavere.
Amici in crisi, che faticate a credere, che siete stati masticati, come gli apostoli,
seguite il Signore, anche se da lontano, non andatevene.
Matteo esagera, si allarga, e sa di farlo.
State sereni; la sua è un’annotazione teologica, non storica.
Richiama i segni degli ultimi tempi, della manifestazione di Dio al popolo di
Israele, e allora, come fanno i pescatori che raccontano della loro pesca,
esagera un pò.
Il linguaggio che usa ha a che fare con i profeti apocalittici, è come se Matteo
dicesse; davvero il Messia è venuto, e si rivela morendo in croce, anche il
cosmo riconosce la sua presenza.
Mi piace, calcare la mano, meditando la passione, anche a noi può succedere
di subire un terremoto interiore, di veder spaccare in noi la pietra che ci
impedisce di gioire, di uscire dai sepolcri in cui ci siamo sepolti, di lasciar
venir fuori il santo che c’è in ciascuno di noi.
La presenza del Signore, credetemi, è una potenza, una forza che costruisce,
che scuote, che rianima, che sbalordisce.
Ciò che Matteo descrive come evento messianico è evento che può scatenarsi
nel discepolo che assiste allo spettacolo, guardando di fronte Gesù che muore,
come il centurione.
L’ora del tramonto si avvicina, e con esso l’inizio solenne della festa di pasqua.
Non si possono lasciare i condannati in croce, la cosa contravviene alla legge.
bisogna accelerare la morte.
Il metodo è semplice e crudele; con un colpo di bastone alla tibia, i soldati
frantumano le ossa delle gambe, impedendo al condannato di rialzarsi
a prendere aria.
La morte per asfissia sopraggiunge in pochi minuti.
Giovanni descrive minuziosamente l’orrenda procedura.
Arrivati da Gesù, i soldati vedono che è senza vita.
Per sicurezza, un soldato gli assesta un colpo di grazia, un colpo di lancia
dato quasi in orizzontale, sotto il costato, a destra, un colpo che, normalmente,
trapassava il cuore.
Molti studiosi, quasi tutti anatomopatologi, hanno cercato di interpretare
il racconto di Giovanni, per capire cosa sia successo.
Gesù, morto, ha iniziato il processo di coagulazione del sangue, che divide
la parte liquida da quella solida.
Il soldato colpisce una zona di accumulo del sangue, forse il pericardio,
o la pleura, che si svuota come un palloncino riempito d’acqua,
lasciando vedere il siero (l’acqua) e la parte ematica (il sangue).
Giovanni lascia intendere che quella divisione, sangue e acqua, ha una
rilevanza, richiama la salvezza e la redenzione, la croce e il battesimo.
La solennità con cui Giovanni racconta l’intera scena è un invito ad andare
al di là degli eventi; quella a cui abbiamo assistito non è la morte di un
poveraccio ucciso per interessi politici e religiosi, ma il compimento delle
profezie riguardanti il Messia.
Il particolare della tunica, delle ossa non spezzate e della fuoriuscita del
sangue e dell’acqua sono, per Giovanni, la manifestazione della profezia
riguardante il Messia.
Solo chi conosce la Scrittura e ha il cuore aperto al soffio dello Spirito,
sembra dire Giovanni, può accorgersi di chi sia veramente quell’uomo trafitto.
Così accade anche oggi; solo chi ha il coraggio di seguire Gesù nelle sue ultime
ore, senza fuggire come il giovinetto scandalizzato nell’orto, o come i discepoli,
ma dimorando sotto la croce, può capire chi è veramente colui che pende
dalla croce.
E inorridire. O cadere in ginocchio.
Ecco tutto è compiuto.
Dio si è definitivamente donato.
Mi immagino il volto di Nicodemo e di Giuseppe di Arimatea che sorreggono
il cadavere, uno dal capo, l’altro dai piedi; dietro al Cristo, le statue di Giovanni,
della Maddalena, di Maria e di una discepola esprimono disorientamento e dolore.
Cristo no, è il centro immobile della composizione.
Tutto è compiuto.
Mentre scrivo socchiudo gli occhi e ripenso alla scena, mi ritrovo al Calvario.
Sento l’odore del temporale in arrivo e del sangue.
La folla se n’è andata in tutta fretta per non prendersi l’acquazzone, i soldati
calano senza riguardo i cadaveri per gettarli nella fossa comune.
Gesù no, passa prima dalle braccia della Madre!
La Madre strige il Figlio esamine.
Una scena fortissima, straziante, intensa.
Quanto silenzio, quanto dolore, quanta forza!
I romani avevano l’orribile consuetudine di lasciare i cadaveri appesi alla croce,
in preda agli animali e ai corvi, soprattutto quelli condannati per lesa maestà;
un terribile monito per tutti i sudditi.
La concessione del corpo ai famigliari era un’eccezione, fatta per manifestare
la generosità di Roma; troppo buoni, perché: “In Cina, i famigliari del condannato
a morte devono pagare il prezzo della pallottola con cui si procede all’esecuzione,
se vogliono il corpo”.
In Giudea, però, le cose funzionavano diversamente; non c’era nessuna
intenzione di forzare la mano, di accentuare i dissidi, perciò i corpi erano
restituiti ai famigliari che ne facevano richiesta, tanto più in quella
vigilia di pasqua.
Il tutta fretta, perciò, i famigliari, aiutati dai soldati, devono schiodare i
piedi del condannato, deporlo in un lenzuolo e provvedere alla sepoltura.
Una procedura terribile; il corpo del condannato è irrigidito dalla contrazione
tetanica dei muscoli, e il corpo si può trasportare come se fosse irrigidito,
in catalessi.
Una volta calato con il patibolo, il cadavere è portato nei pressi della tomba,
dove gli sono schiodati i polsi.
La presenza, in una tomba ritrovata a Gerusalemme, di uno scheletro con il
chiodo dei piedi ancora conficcato nelle ossa, la dice lunga sulla delicatezza
di tale procedura.
Marco, cioè Pietro, ( sappiamo che Marco ha scritto il suo Vangelo ascoltando
quello che gli diceva Pietro), ci fa un resoconto dettagliato della sepoltura di Gesù.
È Giuseppe d’Arimatea a trovare il coraggio.
È un influente membro del Sinedrio, insieme a Nicodemo.
Non è riuscito a salvare Gesù dalla condanna e ora vuole, almeno, dargli una
sepoltura degna.
Entra da Pilato, piuttosto impressionato che un membro del Sinedrio contragga
l’impurità alla vigilia della pasqua entrando da un pagano, pur non essendo
un famigliare del condannato, e chiede il corpo del Nazareno.
Pilato è stupito della velocità della morte di Gesù, e concede la sepoltura privata.
Giuseppe compra un lenzuolo, una sindone di prezioso lino, e fa deporre Gesù
in una tomba adiacente al Golgota, la tomba che ha fatto preparare per sé, una
tomba preziosa, di un uomo importante, scavata nella roccia e protetta da una
pesante chiusura in pietra.
Come quella che chiude il nostro cuore!
Contrae l’impurità per la seconda volta, toccando un cadavere.
Non avrà più tempo per purificarsi.
Non celebrerà la pasqua.
Non ne ha neppure voglia, ora che il suo cuore è gonfio di dolore.
Non ha da preoccuparsi, Giuseppe d’Arimatea; fra pochi giorni potrà celebrare
una Pasqua nuova.
E rivedere il suo Maestro.
Ci sono dei momenti, nella vita, in cui il nostro cuore è impietrito, insensibile,
raggelato, in cui non abbiamo più nulla da offrire al Signore, in cui abbiamo
l’impressione che Dio, nella nostra vita, sia morto e sepolto; in quei momenti
non ci resta che offrire il nostro cuore, freddo come una tomba, e accogliere
il Cristo perché lo riscaldi.
L’ultimo regalo fatto a Gesù è una tomba scavata nella pietra.
L’ultimo, disperato, straziante gesto di affetto di un discepolo che pensava di
avere trovato in Gesù la novità della fede, la pienezza della vita, il sorriso di Dio.
Giuseppe non ha potuto salvare il suo Maestro.
Non i suoi denari, non la sua influenza, non la sua cultura, l’hanno salvato.
Con il cuore pesante, non gli resta che offrire la sua tomba.
Non ha da preoccuparsi, Giuseppe; fra tre giorni gli verrà restituita, intatta.
Gli lascio un solo suggerimento; è bene che si guardi in giro e che trovi
un’altra tomba; quella che ospita temporaneamente il cadavere di Dio
sarà luogo di culto e di contraddizione, per millenni.
I romani ricostruendo Gerusalemme rasa al suolo dalle truppe di Tito,
penseranno bene di edificare su di essa un tempio dedicato a Venere,
per impedire ai discepoli del Nazareno di radunarsi in quel luogo.
La regina Elena, madre dell’imperatore cristiano Costantino, farà abbattere il
tempio e ritrovare la tomba, la cui memoria era stata conservata preziosamente
per due secoli dalla comunità locale.
Il sepolcro non ha bisogno dello splendore, ne della dignità che vorremmo
attribuirgli devotamente.
La tomba che non è riuscita a contenere Dio, non ha bisogno delle nostre devozioni.
Ma è lì, coperta di marmi e stoffe, un piccolo luogo al centro di una grande
cupola pericolante, a ricordare a tutti che Dio non è stato sconfitto.
No, la tomba, a Giuseppe d’Arimatea, non verrà più restituita.
Per quel che gli importa.
Giovanni inserisce nel racconto anche la presenza di Nicodemo, un importante
rabbì fariseo che cerca Gesù, anche se di notte, per non sbilanciarsi troppo.
Come abbiamo già visto, Nicodemo cercherà in qualche modo di proteggere
Gesù, di chiedere per Lui un procedimento giusto, senza ottenerlo.
Ora che Gesù è morto, Nicodemo non ha più paura di esporsi, anche di fronte
ai suoi confratelli di fede e al Sinedrio.
Perde la faccia volentieri, per testimoniare il suo affetto per il Maestro.
Venne anche Nicodemo, il quale già prima era andato da Lui di notte,
portando una mistura di mirra e di aloe di circa centro libbre (Giovani 19,39).
Probabilmente la grande mole di mirra e aloe servivano ad evitare
temporaneamente la decomposizione del corpo di Gesù, essendo degli antisettici
naturali, per poter in seguito provvedere ai riti di lavaggio e di purificazione,
impediti dalla fretta della sepoltura.
Come sempre Giovanni è uno storico affidabile, pur sovrapponendo gli eventi
e la loro interpretazione.
Da parte mia, ho una sola annotazione da fare a Nicodemo; gli onori, ai profeti,
è meglio farli da vivi, che da morti.
Troppe persone si schierano dopo, troppi profeti sono riconosciuti come tali
dopo la loro morte (spesso tragica).
Cerchiamo di essere coerenti, per favore.
La pietra è posta dinanzi al sepolcro, per impedire agli animali di violare
il corpo di Gesù.
Dal tempio arriva il suono di richiamo che annuncia l’inizio della festa, tutti
rientrano in casa per accendere le luci di quel sabato particolare, che coincide
con la festa di pasqua.
Nicodemo e Giuseppe non parteciperanno alla festa, probabilmente, essendosi
contaminati con un cadavere.
Così come gli apostoli, fuggiti e nascosti nelle campagne attorno alla città.
Non celebrerà la pasqua neppure Giovanni, rifugiatosi con la Madre di Gesù,
nella città alta, negli alloggi dei sacerdoti.
Pilato, cenando alla fortezza Antonia, o al Pretorio, penserà alla bella
soddisfazione presa con il Sinedrio e proverà disagio ricordando quel Galileo
un pò filosofo.
La gente, in casa, canterà la benedizione, mentre un bambino porrà la domanda
rituale; cosa festeggiamo oggi?
E il capo famiglia racconterà la fuga dal faraone del popolo guidato da Mosè.
Gesù, cadavere, giace nell’oscurità di una tomba scavata nella roccia.
Fine della storia, fine dell’illusione, fine di una brillante carriera di profeta.
Fine di un sogno.
Fine di un normale movimento religioso moderno.
Fine! O forse no.
Il dopo è un’altra storia!
Rimaniamo in silenzio amici e preghiamo.